La storia di ‘Via della Scrofa’, sede della destra italiana

AGI – 17 ottobre 2022 di Mauro Bazzucchi

L’edificio al civico 39 di questa via lunga e stretta nel cuore del Campo Marzio ha un primato: è l’unico quartiere generale di un partito che è riuscito a superare indenne il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica

Il fatto che Silvio Berlusconi si sia recato a via della Scrofa per ricucire con Giorgia Meloni ha un significato simbolico rilevante, che non si esaurisce nella contingenza politica legata alla formazione del nascituro governo. L’edificio al civico 39 di questa via lunga e stretta nel cuore del Campo Marzio, infatti, ha un primato: è l’unico quartiere generale di un partito che è riuscito a superare indenne il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, quando le alterne fortune delle forze politiche travolte dal ciclone Tangentopoli o ridimensionate nelle loro capacità economiche, provocarono l’abbandono o il trasloco a sedi più economiche di quelle che gli italiani si erano abituati a sentire nominate per gran parte del Dopoguerra.
Erano i tempi del “Bottegone” comunista in via delle Botteghe Oscure e della sede Dc di Piazza del Gesù, pilastri dell’Italia della guerra fredda a pochi centinaia di metri, a metà strada dei quali le Brigate Rosse decisero di abbandonare il cadavere di Aldo Moro martire del compromesso storico. Poi c’era la sede del Psi a via del Corso e, alla fine dei “pastoni” politici, dopo aver riferito delle posizioni di quello che era chiamato “arco costituzionale”, si dava conto anche del parere di “via della Scrofa” sede del Msi.

Poi la geografia del potere cambiò, e con l’irruzione del Cavaliere sulla scena politica arrivarono Arcore, Palazzo Grazioli, via Bellerio per la Lega o le nuove sedi della sinistra, con l’effimera parentesi veltroniana del loft, prima della definitiva affermazione del Nazareno. Ma l’ampia sede scelta da Giorgio Almirante (che ne ospitò anche la camera ardente) ha resistito, grazie sostanzialmente a un fattore: quando terminò la parabola storica del Msi con la svolta di Fiuggi, il nuovo partito di Gianfranco Fini emigrò, ma a via della Scrofa restò la redazione della storica testata del partito, il Secolo d’Italia, mentre la proprietà delle mura fu intestata alla fondazione Alleanza Nazionale.

Fu proprio in ossequio a questa storia e al potere evocativo della sede della destra italiana che Meloni e gli altri fondatori di Fratelli d’Italia decisero di “tornare all’ovile”, cosa che in parte avevano simbolicamente già fatto accogliendo di nuovo nel proprio simbolo la fiamma tricolore che si era persa con la confluenza nel Pdl.

E così, negli ultimi anni, via della Scrofa era tornata ad essere viva, a ospitare sia le iniziative politiche (numerose conferenze stampa) che le riunioni degli organismi di un partito della destra. Ciò che non era forse prevedibile, è che per la prima volta nella sua storia, via della Scrofa non si limitasse ad essere quartier generale di una forza politica, ma a entrare a pieno diritto nei luoghi del potere. Un potere a cui oggi, Silvio Berlusconi, recandosi da Villa Grande al centro di Roma, ha fornito un palese segno di riconoscimento.

L’Italia che non vuole finire

Marcello Veneziani – La Verità – 28 settembre 2022

L’Italia e non solo l’Italia, ha vissuto due giorni di sogno e di incubo per la vittoria di Giorgia Meloni. Mezza Italia ha sognato, l’altra Italia che comprende i piani alti della società, ha patito un incubo. E i restanti sono rimasti in dormiveglia, spiazzati e spaesati.

Ora che ci svegliamo dalla fiaba della borgatara che si fece regina, la Calimero piccola e nera che si scopre la più amata dagli italiani, è tempo di riprendere coscienza, tornare alla realtà e capire cosa è successo.

Già, cos’è accaduto, qual è alla fine il messaggio che proviene dalle urne? L’Italia non vuole finire. E si è ribellata all’obbligo del pass ideologico, della mascherina politicamente corretta e del regime di sorveglianza di questi anni. Non dirò che la Meloni e la sua coalizione salveranno l’Italia, la sua sovranità e la sua civiltà né che ci libereranno dalla Cappa interna e globale, anzi non lo penso, è impresa troppo grande; ma dico cosa è successo nella mente e nel cuore degli italiani che l’hanno votata. Non ne potevano più di vedere il loro paese sfarinarsi e arretrare, vedere stuprata la realtà e calpestata la libertà dalle oligarchie internazionali ed interne, i loro media, il regime a senso unico.

E hanno affidato un messaggio di riscossa al leader più fresco, più in forma, più intonso, vergine di potere. Sarà una nuova affermazione del populismo, come voi dite, sarà un affidarsi di nuovo a chi è nuovo, ha il merito di non avere precedenti; sarà la coerenza di stare all’opposizione e perciò di rappresentare il diffuso malcontento. Ma la Meloni ha rappresentato l’irruzione del nuovo e l’interruzione del conforme. Che poi riuscirà a soddisfare le aspettative, a guidare un governo all’altezza della sfida e a superare indenne gli assalti, le pressioni, le minacce e le lusinghe dell’establishment, questo è un altro discorso; sapete come la penso, non alimento illusioni. Ma quella è stata l’intenzione di voto; sarà puerile, velleitaria, ma mille volte più nobile e positiva del rancore di chi votava a sinistra solo per odio e paura, cioè contro la destra; o di chi col voto ha fatto uso personale e scambio clientelare, come nel peggior passato e nel peggior sud.

Mai come questa volta la vittoria non è stata corale ma singolare: ha la faccia, la voce, gli occhi di Giorgia Meloni. Occhi di ragazza, dicevo ieri. Il resto è contorno. Hanno perso le Vecchie Zie: i tutori che comandano l’Italia, le consorterie, le curie, le cupole. Ora circonderanno la Meloni: se la vedono debole la massacreranno, se la vedono forte si fingeranno amici.

E gli altri leader politici? Letta col suo Pd ha perso perché ha puntato solo sulla paura del mostro, fascista-putiniano- orbaniano; non un programma positivo ma solo terrore, “sennò arrivano gli orchi”. Bisogna pur dire che ha concorso alla sua disfatta anche la giravolta di Calenda che lo ha sedotto e abbandonato, dopo che Letta aveva rotto i ponti con i grillini. A questo proposito va notato che il recupero di Conte (ma i grillini hanno pur sempre dimezzato i voti) è dovuto al recupero del populismo da strada, della demagogia pauperista ma anche all’abbandono dell’alleanza col partito-regime, il Pd.

La notazione generale da fare sul voto è che il populismo è ancora vincente sul piano elettorale. Quando si processa Salvini, e si ipotizza il passaggio di mano verso ZaiaFedriga o Giorgetti, si dimentica che Salvini ha perso consensi proprio perché ha smesso di essere il deprecato Salvini, ha abbandonato populismo e sovranismo e si è piegato a Draghi, al governo col Pd, poi addirittura a votare per Mattarella, seguendo proprio la linea “moderata” dei suoi antagonisti interni che oggi dovrebbero processarlo e sostituirlo.

Al di là del giudizio su Draghi vogliamo dirlo che non ha portato bene a chi lo ha sostenuto e in suo nome ha fatto campagna elettorale? Altro che l’Italia voleva ancora Draghi, ha votato l’unica oppositrice… Non hanno sfondato Calenda e Renzi, il draghiano Letta è stato sfondato, così pure Salvini che ha sostenuto il suo governo (pur per rispettabili ragioni); è affondato Di Maio neo-draghiano, si è salvato Berlusconi, passato anche politicamente dal Milan al Monza, ma resta pur sempre decisivo con la sua Forza Italia due. Invece ha trionfato chi si opponeva a Draghi, come la Meloni, ed è andata bene a chi ha innescato la crisi per mandarlo a casa (Conte). Poi certo, le elezioni hanno offerto, oltre l’anomalia di un solo candidato premier, anche altri spettacoli negativi: l’alta astensione, un record senza precedenti nelle politiche, i partiti devitalizzati, svuotati; pure i partitini anti-sistema sono stati un flop; e poi è stato deprimente il voto e il non voto del sud. Spie di un malessere grave (non a causa della Meloni, mi pare).

Ora cosa succede? A parte le grida di pericolo fascista che accompagneranno il centenario della Marcia su Roma, non mi aspetto grandi cambiamenti, non mi aspetto rivoluzioni né rotture, non mi aspetto ripensamenti sulla Nato e sull’Europa, o addirittura riabilitazioni del fascismo. Mi aspetto poco, mi aspetto molta continuità più qualche piccola svolta e qualche risultato simbolico, in tema di famiglia, di sicurezza e poco altro.

Ma mi auguro che accada almeno una cosa: che sia possibile nell’Italia della Meloni avere un altro punto di vista, senza essere considerati ciechi, pericolosi o retrivi come è stato finora. Mi auguro che con una premier di destra migliori la possibilità di vedere anche in altro modo la realtà, la vita, la storia, la cultura. In questi ultimi anni c’è stato un clima opprimente; se pensi altrimenti sei condannato al vituperio o al silenzio. Non sogno cambi di egemonie, figuriamoci, mi accontenterei che sia almeno riconosciuto chi la pensa diversamente, che ci sia spazio per l’oppure, che un altro punto di vista non sia un crimine o un regresso ma semplicemente un altro modo di vedere e affrontare le cose. Per il resto viva l’Italia e che la Madonna ci accompagni.

Il reddito di Pulcinella

Marcello Veneziani  ,  La Verità – 14 settembre 2022

Come chiamare il voto che il sud d’Italia, a partire dalla Campania, si appresta a dare in favore del Movimento 5Stelle in virtù del reddito di cittadinanza? Voto clientelare di scambio. Come ai tempi della peggior Dc e dei suoi peggiori alleati. I clientes, ovvero i beneficiari della legge grillina, voteranno i loro benefattori, non solo e non tanto per gratitudine (nel qual caso, forse, più che a Conte dovrebbero essere grati a Di Maio), quanto per assicurarsi che quel reddito non verrà revocato, come invece minaccia il centro-destra. Voto di scambio non con singoli candidati ma con l’intero partito.
Penoso il sostegno del Pd a quella legge, peraltro varata dal governo grillino-leghista: è l’unica cosa davvero “di sinistra” che sono riusciti a dire, ma non l’hanno fatta loro.
E’ deprimente che il voto sia ancora ridotto come nelle peggiori tradizioni meridionali, e lo dico da meridionale, al favore ricevuto, al reddito parassitario elargito dal potere alla plebe. E’ un’offesa a chi si guadagna duramente da vivere attraverso il lavoro; è un’offesa al merito, agli studi, alle capacità, ai sacrifici; è un’offesa alla dignità umana, a partire da quella dei beneficiati.
Ma in alcune aree del sud, tra la Campania e la Sicilia, a partire da Napoli, i 5S di Conte possono addirittura essere il primo partito grazie al reddito di cittadinanza. Se è vero che, ad esempio, a Napoli, capitale del sud, il 15 per cento dei cittadini percepisce il reddito di cittadinanza, escludendo vecchi e bambini e includendo i congiunti dei beneficiati, un bacino abnorme potrebbe votare i 5 Stelle. Quando alcuni osservatori mesi fa annunciavano la scomparsa dei grillini, facevo osservare che col reddito di cittadinanza si sono assicurati uno zoccolo duro intorno al dieci per cento della popolazione, anche se candidano Pulcinella e sparano le peggiori sciocchezze.
Non a caso, per la prima volta nella storia della Repubblica, fa notare con rammarico Amedeo Laboccetta, la destra non prevede un comizio del suo leader a Napoli, nella capitale del Mezzogiorno. Come mai? Presumo perché Giorgia Meloni si è impegnata ad abolire il reddito di parassitanza, e a Napoli rischierebbe contestazioni veementi di piazza, se non peggio. Lo ha capito bene, da antico piazzista, Berlusconi che infatti non esclude il reddito di cittadinanza.
La cosa più difficile a farsi, in politica, è togliere qualcosa che appare come un diritto acquisito. Meglio pensare soluzioni più realistiche: innanzitutto fare un censimento per stabilire chi sono davvero gli aventi diritto, stringendo le maglie e i requisiti per averlo, con una revisione radicale di tutti i redditi finora percepiti, tra tanti falsi e abusivi fruitori; poi distinguendo tra quanti hanno reale, assoluta necessità e quanti, italiani e stranieri, invece ci marciano. Quindi vagliare se hanno avuto offerte di lavoro e non hanno accettato; poi va ribadita la provvisorietà del sussidio. Va infine studiata la riconversione dei rdc in lavori socialmente utili. Se percepisci un sussidio devi fare qualcosa per guadagnartelo. Ad esempio, come scrissi, riconvertire i fruitori del reddito nell’assistenza agli anziani; non sanitaria, per la quale si richiedono studi ed esperienze, ma per la prima assistenza non specialistica. Giustificherebbe il loro sussidio e aiuterebbe tanti anziani abbandonati a se stessi in casa e in solitudine. La stessa cosa si potrebbe prevedere a sostegno di altre situazioni, per es. baby sitter; o ausiliari dell’ambiente, per la pulizia delle strade. Tutto meno che ricevere gratis un reddito.
E’ vero che in alcuni paesi il reddito di cittadinanza ha funzionato, è stato concepito come un sostegno per il lavoro perduto e per trovarne un altro. Da noi no, purtroppo. Al di là delle inverosimili cifre sparate dai grillini che parlano di centinaia di migliaia di persone che, grazie al reddito, avrebbero trovato lavoro (ma davvero, ma dove, il 24% di giovani disoccupati si riferisce ai marziani?); fino al surreale annuncio che i famigerati navigators, disoccupati che avrebbero dovuto trovare lavoro ad altri disoccupati, avrebbero procurato addirittura 300mila posti di lavoro (lo diceva il vice di Conte, Riccardi, in un dibattito a Post del Tg2). Magari troveranno un Tridico, voluto dai grillini a capo dell’Inps, pronto a dar loro una mano sui dati; ma c’è un limite di evidenza e di decenza che non si può varcare. Provate a vedere a Napoli, capitale del reddito di cittadinanza, se riuscite a trovare una vaga traccia di questa ripresa del lavoro grazie al sussidio di stato…
Si sa, invece, che il reddito ha tolto lavoratori dal mercato del lavoro (magari lavoro sottopagato o malpagato, ne convengo, ma le aziende hanno difficoltà a trovare dipendenti per via del sussidio di stato) o li ha fatti rientrare nel lavoro nero per integrare il reddito percepito dallo stato. Non si può negare lo sfruttamento con salari da fame da parte di alcune imprese né l’effettiva povertà di taluni fruitori. Ma il reddito di cittadinanza non è la soluzione, rinvia il problema, non attiva il mercato del lavoro, non funziona per reintegrare nel lavoro chi lo ha perso, succhia soldi pubblici e sottrae investimenti che potrebbero rilanciare il mondo del lavoro; ed è profondamente immorale, diseducativo, anti-etico.
A questo punto, meglio andare fino in fondo e sostenere paradossalmente, come faceva cent’anni fa il filosofo Giuseppe Rensi nel saggio Contro il lavoro, che gli uomini non devono rivendicare il diritto al lavoro, che è schiavitù e sfruttamento, ma il diritto al non lavoro; perché all’uomo si addice il gioco e la contemplazione. Correggendo l’antico proverbio, il lavoro debilita l’uomo. Asserve e rende infelici. Poi, come possa reggere e campare una società del non lavoro, chiedetelo ai grillini o a Pulcinella.

La Verità – 14 settembre 2022

Il voto è un referendum tra la Meloni e la paura

Marcello Veneziani  , La Verità (4 settembre 2022)

Fra tre domeniche si vota e sono chiari i contorni della sfida e i suoi principali competitori: il vero avversario di Giorgia Meloni, favorita nei sondaggi e nelle piazze, non è Enrico Letta e nemmeno Calenda o Conte, o all’interno del centro-destra Berlusconi o Salvini, ma è la Paura, la Grande Paura. E’ l’unica avversaria che può batterla. Se seguite con attenzione la campagna di orchestrazione generale per fermare la Meloni, alla fine, l’unica, vera antagonista che si contrappone a lei è proprio la Paura. Né ci sono altri candidati premier oltre lei.

Chi è, cos’è la Paura che si oppone alla leader di Fratelli d’Italia? Possiamo intenderla in due sensi, generale e specifico. In senso generale è la Paura indotta dalla situazione e dal temibile autunno che si paventa alle nostre porte: rincari, trambusti, spread e inflazione alle stelle, imprese che chiuderanno, crisi energeticadisoccupati e pensionati sul lastrico; e poi ancora guerra, ancora covid, ancora rischi globali e ambientali. Davanti alla paura, il suggerimento anche nascosto, subliminale, che viene rivolto, è di restare nel guscio, non tentare avventure, non cambiare gli assetti, tenersi stretti i poteri vigenti, attaccarsi a Draghi e alla Regina Madre Mattarella, per non correre rischi letali.

Alla Paura generica e generale, che precede le scelte politiche e non fa nomi né esprime preferenze ma suscita solo apprensioni di massa e angosce paralizzanti, si aggiunge la paura specifica, politica, ad personam per la Meloni fascista, putiniana, trumpiana e orbaniana. Con un aggiornamento: la Meloni non sarà tutto questo ma fa paura affidare una situazione così grave a una mezza pischella d’opposizione senza esperienza; non ha numeri, non ha appoggi, non ha gente qualificata, accettata e adeguata per affrontare la situazione terribile che già si profila in questi giorni. Dunque, anche se dovessero cadere tutte le fasciofobie e le paure preliminari, le barriere ideologiche, le pregiudiziali maschiliste e antifasciste, europeiste e atlantiste, resta pur sempre lei, Calimero, un pulcino spelacchiato e nero, col guscio d’uovo rotto sulla testa al cospetto dei Grandi Problemi della nostra epoca. Si può passare dai draghi fiammeggianti alle piccole mamme militanti della fiamma? Si può davvero credere che lei, così piccola e fragile, sia pronta a governare, come dicono i manifesti?

Perciò al di là di tutta la messa in scena elettorale, il teatrino televisivo, la rappresentazione delle forze in campo, alla fine l’unica carta su cui puntano non solo gli apparati che contano, ma anche gli stessi dem, i terzopolitisti e tutti gli avversari anche nascosti e interni della Meloni, è la Paura. Meglio l’ingovernabilità condivisa che la governabilità chiara con lei alla guida del governo.

Nel nome della paura dovremmo sospendere a tempo indeterminato la politica e la democrazia, la sovranità popolare e nazionale, il ricorso alle urne. Se un paese non è in grado di scegliere i propri governanti ma deve sempre attenersi ai protocolli sanitari d’emergenza e preferire alla scheda elettorale le maniglie antipanico delle vecchie Zie e le mascherine d’obbligo dei tecnici al potere, allora può chiudere i battenti. Basta esprimere il voto, la nostra facoltà di scelta è limitata ai prodotti Amazon. E’ curioso notare che dopo aver ripetuto che il voto populista è un voto infantile mentre volere Draghi significa essere adulti, ora s’inverte il criterio: abbiamo bisogno della patria potestà, rassicurante e protettiva, da soli con Giorgia non ce la facciamo, siamo bambini inermi esposti al pericolo.

Al di là di ogni obiezione, riconosco l’efficacia psicologica e minatoria della Paura come arma elettorale. Se ogni giorno tutti ti dicono che se vince la Meloni ci ritirano il Pnrr e la patente, ci chiudono le porte e i conti, ci fanno schizzare lo spread e l’inflazione e tutto il resto, oltre al fascismo, il razzismo e via dicendo, prima ti arrabbi, protesti, deprechi; ma alla fine, dai e dai, quando fai due conti finali ti dici: ma perché devo rischiare così tanti guai solo per mandare la Meloni o chi per lei a Palazzo Chigi? Meglio tenersi chi abbiamo. La Paura è un concorrente temibile.

Vorrei sommessamente far notare che in questa situazione di pericolo e di guaio non ci ha portati la Meloni, semmai coloro che invochiamo come suoi argini e nostri garanti: erano loro al potere, mica la Meloni.

Aggiungiamo per amor di verità che il successo della Meloni non è dovuto solo alla sua bravura in tv o alla coerenza lineare che ha avuto finora rispetto agli altri leader ondivaghi e agli altri partiti ballerini: ma anche perché lei è l’unica Vergine del Potere, l’unica che è stata sempre Contro, rispetto a tutti gli altri che al governo ci sono andati (lei fu ministro della gioventù da ragazza, ma eravamo nell’era mesozoica di Berlusconi, lei contava poco, non fa testo). Insomma, la gente vota per chi non ha precedenti e non ha mai dato prova di sé, come fu coi grillini, vota per chi non si è mai contaminato col potere; magari appena accadrà, i consensi caleranno anche per lei…

Tutte le riserve e i dubbi sono legittimi sulla Meloni premier, sulla classe dirigente di cui si circonda, sulla tenuta dei suoi alleati, sulle scelte che ha compiuto nelle liste e nei candidati; o sulla linea in politica estera, l’atlantismo filo-Nato, l’eurodraghismo d’asporto o le mille promesse che non potrà mantenere. Tutto ciò che volete, ma dobbiamo riconoscere che giudicare preventivamente l’alternanza o la svolta come una sorta di catastrofe per l’Italia è un modo per uccidere la democrazia e ridurre il libero consenso a impaurito assenso nei confronti dei poteri vigenti, senza possibilità di mutarli. Non si può votare solo per paura. Il referendum tra la Meloni e la Paura peraltro non coinvolge tutti i cittadini; ci sono quelli che non si ritrovano nell’una o nell’altra. Ne riparleremo prossimamente.

 

Giorgia flambé

Marcello Veneziani ,  La Verità (21 agosto 2022)

Dopo la gogna dell’abiura – rinnega il fascismo, sputaci sopra – comincia ora per Giorgia Meloni la gogna della conversione: abbraccia l’antifascismo, bacialo davanti a tutti. Ma se la generazione di Fini crebbe nel Movimento Sociale Italiano nel ricordo del fascismo, la Meloni crebbe in Alleanza Nazionale nel ricordo dell’Msi. Il fascismo era per lei un nonno remoto. La fiamma a cui Fratelli d’Italia resta legata evoca per lei il Msi, non il fascismo: è il ricordo di un partito d’eterna minoranza e opposizione di cui si può non condividere nulla, e magari felicitarsi che non andò mai al potere; ma non ebbe scheletri nell’armadio e fu figlio minore di questa repubblica.

La fiamma, la falce e martello, il sol dell’avvenire, lo scudo crociato e gli altri simboli politici furono simboli di riscatto popolare e di passione ideale e civile e restano segni di memoria storica. I simboli sono le stimmate di un’epoca in cui la politica era una fede e non solo una carriera; una cosa seria, anche troppo.

Il Msi non fu un partito di governo, non fece la storia, si limitò a ricordare quella precedente; fu un partito anti-sistema ma inserito in Parlamento, mai eversivo. Oggi ci manca qualcosa che ci leghi a una storia e a un mito.

Il Msi era un partito anomalo, fuori dall’arco costituzionale, la fiamma ebbe “poco da ardere, visse al cinque per cento”, parafrasando una poesia di Montale. Fu l’unico partito che volle chiamarsi movimento, che rifiutò lo status di partito, anche se in tutto e per tutto lo fu. Fu il primo partito che tuonò contro la partitocrazia, portando nell’arena politica la definizione prima usata dai politologi. Fu il primo partito che attaccò la corruzione, le tangenti, la lottizzazione, si oppose alle regioni e pose la questione morale prima di Berlinguer. Fu il primo partito che invocò la riforma costituzionale in senso presidenziale; prima l’avevano proposta gruppi e personalità come Pacciardi o Europa 70. Il Msi fu un partito popolare, interclassista, proletario e borghese. Cattolico ghibellino. Gente onesta, per bene, che militava contro i propri interessi. Fu il partito del tricolore in piazza, dell’identità sbandierata, l’unico partito nazional-europeo (l’Europa-Nazione, dicevano) che in modo sfacciato, a volte retorico, coltivò l’amor patrio. Il Msi fu il partito della continuità storica: mentre tutti ribadivano la discontinuità col Ventennio, il Msi rivendicava una linea di continuità nazionale, dal Risorgimento alla Grande guerra e al fascismo, inclusa la Rsi. Prevalse nel Msi la linea filo-atlantica nel nome dell’anticomunismo; Almirante candidò pure l’Ammiraglio Birindelli, comandante della Nato (la Meloni è nel solco missino).

Il Msi rappresentò l’emisfero in ombra della Repubblica italiana, la faccia nascosta ma pulita, il desiderio represso, la nostalgia proibita. Non fu il partito dei violenti, alcune frange non possono offuscare la storia di un partito che ebbe più vittime che aggressori con una trentina di caduti; anzi ebbe il merito di incanalare dentro la politica, dentro il parlamento e le istituzioni, l’esuberanza estremista e la tentazione golpista che allora attraversava mezza Italia. Prima con don Sturzo poi anni dopo con Tambroni si profilò per il Msi l’inserimento nell’area di governo, nella prospettiva di un centro-destra; ma fu impedita dalla mobilitazione di poteri e di piazze. Quando ebbe l’exploit con la Destra nazionale nel 70-72 attirò monarchici, liberali, dc e pure partigiani e antifascisti, sull’onda della maggioranza silenziosa, ma fu ricacciato nel ghetto più di prima, peggio di prima; era meno fascista ma più ingombrante. Con la scissione di Democrazia nazionale, i due terzi della miglior classe dirigente lasciarono il Msi. Ma ebbe ragione Almirante, fu una scissione di vertice; il popolo missino restò con la fiamma tricolore. Lo “sdoganamento” del Msi avvenne in tre fasi nel decennio 83-93. Il primo fu con Craxi che ricevette Almirante e poi Fini. Poi fu il Capo dello Stato Cossiga ad aprire ai missini postalmirantiani. Infine col sistema elettorale bipolare e il pronunciamento di Berlusconi in favore di Fini candidato sindaco a Roma, completò lo sdoganamento a livello politico, da cui nacque il centro-destra. A livello elettorale però i cittadini avevano già sdoganato il Msi, tributando vasti consensi. Ma il Msi non fu mai sdoganato a livello culturale.

Quando chiuse i battenti, la sua eutanasia apparve a taluni militanti un tradimento. A Fiuggi il Msi fu espulso per un calcolo politico come un calcolo renale… Si doveva elaborare il passaggio, prepararlo e compensarlo con la nascita di una Fondazione che potesse conservare e coltivare il cuore fiammeggiante della memoria storica, liberando la politica dal passato. Il Msi era un partito fondato sull’etica della fedeltà e il valore storico della testimonianza. A conti fatti, facendo il magro bilancio del ventennio di An, si può dire che oggi è più viva l’eredità del Msi che quella di An. Assurdo sarebbe però invocare una rifondazione missina oggi. Aver nostalgia di un partito nostalgico significa patire un nostalgismo al quadrato.È bene coltivare la memoria storica, avere esempi e ricordi per un’autobiografia collettiva ma la nostalgia non è, non può essere, una linea politica. Il Msi ebbe anche iscritti speciali, come il giovane Paolo Borsellino o il filosofo gentiliano Andrea Emo, uno dei più grandi pensatori del nostro novecento scoperto solo dopo la sua morte. Ricordo con affetto tra quelli che ho conosciuto alcuni esponenti di spicco del Msi come Beppe Niccolai, Mimmo Mennitti e Pino Rauti, Pinuccio Tatarella e Nino Tripodi, Franco Servello e Marzio Tremaglia, oltre naturalmente i leader, da Almirante a Romualdi. E quel fervore, quel clima, quell’entusiasmo di poter cambiare il mondo e salvare l’Italia. Era una battaglia virtuale, magari virtuosa, ma destinata alla nobile sconfitta. Quella fiamma accese gli animi ma non bruciò nessun nemico, nessun palazzo e nessuna costituzione.

Lettera a un elettore che si sente tradito

Marcello Veneziani  La Verità (5 agosto 2022)

Caro Andrea, non sei il solo ad aver scritto dopo il mio invito a preferire nel voto il centro-destra ma senza farsi alcuna illusione. Alcuni hanno criticato la freddezza dell’appello, l’assenza di fiducia e di entusiasmo; altri, diciamo i più, hanno criticato all’opposto l’idea di sostenere leader e partiti che li hanno già delusi profondamente e non vogliono turarsi il naso e scegliere il male minore. Tu sei tra questi e le ragioni del tradimento che denunciate sono ormai note: in tema di vaccini e green pass, in tema di guerra e allineamento alla Nato, in tema di annacquamento e genuflessione ai poteri, in tema di storia, fascismo, inciuci e si potrebbe continuare.

Non entrerò nel merito dei temi sollevati, e su molti di questi ho già espresso dissensi piuttosto chiari. Ma il tema è più generale, non riguarda le singole questioni ma l’attitudine, la predisposizione con cui si affrontano le situazioni. Diciamo subito una cosa: se la Meloni, o per altri versi Salvini, avesse tenuto fede alla linea che tu, voi, gli attribuite o chiedete di seguire, avrebbe salvaguardato appieno la sua coerenza ma avrebbe probabilmente la metà dei consensi e nessuna possibilità di governare. I poteri non scherzano, e mai acconsentiranno ad avere un governo in rotta radicale con le loro linee di fondo. Non facciamoci illusioni. Certo, ci sono compromessi e compromessi, al ribasso o di alto profilo, lucidi o codardi. Ma i compromessi sono necessari, mettiamocelo in testa. Altrimenti non resta che la rivoluzione; impraticabile, inconcepibile e con esiti rovinosi.

Dalla politica dovete decidervi cosa volete: testimonianza o governo. Se deve solo testimoniare un’idea, un programma di propositi, una ferrea coerenza, allora mettetevi l’anima in pace, non avrà mai la possibilità di governare. Opposizione in eterno. A voler trovare un precedente, pensate alla storia del Msi, quasi mezzo secolo all’opposizione; pura testimonianza, senza mai possibilità di governare o allargare i consensi. Se pensate invece che compito del politico non sia quello di testimoniare ma di governare, allora la strada purtroppo è quell’altra e passa dai compromessi, le ibridazioni, le alleanze. E se tutto ciò non vi piace, statevene alla larga, come faccio io.

Non si tratta di essere idealisti o cinici, votarsi alla testimonianza o alla carriera. Il discorso è più complicato. Per cominciare c’è pure chi campa sugli idealisti, mette a profitto la voglia altrui di testimonianza e magari costruisce la propria carriera politica sulla dedizione e l’idealismo di chi li vota. Così come chi vuole incidere nella realtà e provare a governare e a cambiare quel che c’è da cambiare, può scegliere di farlo cancellando totalmente gli ideali da cui era partito e votarsi cinicamente al potere. O invece può tentare di calare gli ideali nella realtà, cercare di renderli compatibili, accettare un tasso di rinunce, cedimenti e compromessi per salvare però alcune posizioni considerate non negoziabili, i punti fermi. C’è pure un’etica nei compromessi e un’etica del governare, ed è nel rapporto che si riesce a stabilire tra la realtà e le aspirazioni, tra le promesse e le realizzazioni, tra i valori e l’agire efficace. E questo è commisurato non solo alla volontà e alle buone intenzioni ma anche alla forza che si dispone per imporre o affermare le proprie istanze. Più si è forti e meno si cede ai compromessi. Dura legge della politica e dei rapporti di potere, che sono sempre rapporti di potenza.

Voi pensate davvero che chi non si piega a questi compromessi abbia poi la forza per imporre la sua linea a un establishment così vasto, ostile e potente, interno e internazionale? Tenteranno di farli fuori, con ogni mezzo, prima che arrivino al governo. Poi tenteranno di pressarli, minacciarli, condizionarli per renderli docili e dunque disposti a cedere e a farsi guidare; o renderli impotenti, cioè privati della forza per sostenere le loro linee. In ogni caso proveranno a devitalizzarli, a anestetizzarli. Se non lo sono già…

Immaginate davvero possibile andare al governo e criticare la Nato, gli Usa, l’Ue, la Bce e le sedi dei poteri che contano? Immaginate davvero possibile che si possano sostenere stando al governo, questioni di principio e di identità su alcuni nodi storici, civili, sociali, giuridici? Pensate davvero che si possa cambiare, svoltare, fare gli spavaldi, sottrarsi agli obblighi e agli inchini o non piuttosto ingoiare bocconi, alzare la zampa quando lo dicono i domatori? No, non è possibile, ci vorrebbero giganti. Personalmente smisi di pensarlo già a diciott’anni. E smisi di puntare sulla politica o riporvi grandi aspettative.

Si tratta di accontentarsi di molto meno, non dico niente, ma poco. Accontentarsi di non avere ancora gli stessi di ora a comandare, almeno non tutti gli stessi. Già rimuovere dem, sinistre e grillini dal potere sarebbe un gran risultato. Già vedere i loro adulatori e vassalli con la coda tra le gambe sarebbe una bella soddisfazione. Di più non si può pretendere da un voto adulto, maturo.

Chi ama testimoniare la fedeltà e la coerenza non deve rivolgersi alla politica; può coltivare quei principi nel foro interiore o tra selezionate e ristrette comunità, cenacoli e tribune, oltre che in letteratura e nel mito. Ma non si illuda che ciò possa avvenire in politica: anche cambiando continuamente vettori, passando di illusione in delusione, non arriverete mai a trovare il Leader o il Partito Ideale che vince le competizioni politiche e va a governare mantenendo illibata la sua purezza. I puri restano tali se perdono o non esercitano; vincendo e praticando perdono la purezza. Se tutto questo non vi piace, ripeto, state alla larga dalla politica. O se siete realisti, abbiate minimi contatti con la politica. Lo stretto necessario, poche aspettative e minime pretese.

 

Con che spirito andremo al voto

Marcello Veneziani   La Verità (27 luglio 2022)

Con che spirito affrontare questi due mesi di campagna elettorale e poi il voto? Gli entusiasti non hanno dubbi e per loro sarà facile schierarsi. Beati loro. Ma per i disincantati, quelli che ne hanno viste troppe, quelli che hanno uso di mondo, esperienza di uomini e situazioni, e sanno come va a finire, si tratta di mettere a freno il proprio scetticismo e provare a ragionare, cercando di trovare motivi in positivo.
Sul piano generale, il tema preliminare che si propone è triplice. Riportare la politica alla guida dei governi. Riportare i governi alla guida di stati sovrani. Riportare il popolo sovrano alla guida della politica. Queste premesse generali già dicono quali sono i pericoli da sventare col voto: i commissari straordinari che diventano ordinari e restano a tempo indeterminato; la sottomissione degli stati sovrani alle oligarchie transnazionali e ai loro interessi; la nascita di governi su mandato delle oligarchie (la cupola) e non dalla volontà liberamente espressa dai cittadini sovrani e degli interessi popolari.
Sul piano pratico e specifico, questa premessa generale si traduce in precise conseguenze: priorità assoluta è avere finalmente un governo che non sia guidato, determinato e influenzato dal Partito Democratico, che finora è stato l’asse di tutti i governi che non sono nati dal popolo, sorti nel nome dell’emergenza. Riportare finalmente il Partito Dragocratico, in sigla PD, fuori dal potere, se il verdetto elettorale lo indica in modo chiaro e netto; e con loro tutti i loro alleati, ascari, dependance e periferiche.
Seconda condizione per restituire dignità alla politica è liberarsi dei grillini che sono stati il punto più basso e indecente dell’antipolitica che si è fatta potere; grillini, ex-grillini, contorsionisti e trasformisti, dilettanti e invasati. Hanno fatto danni con la loro azione politica e le loro leggi; e, come ulteriore danno, hanno fatto rimpiangere la prima repubblica, rivalutando i vecchi partiti, e sono riusciti a rendere inaccettabile il populismo.
Da queste premesse derivano scelte di voto ben chiare. In un sistema bipolare rispetto a questi mali maggiori, il centro-destra è da considerarsi quantomeno il male minore. Non aspettarsi nulla da loro, non pensare che possano cambiare davvero le cose. Votare dunque per schivare o per schifare il peggio. Ma senza riporre speranze o fiducia nel centro-destra.
Per quel che ci riguarda, come sapete, non abbiamo risparmiato critiche anche severe ai singoli leader del centro-destra e alla coalizione intero. Personalmente mi sforzerò in questi due mesi di restare in apnea fino alle votazioni; di non prendermela col centro-destra, coi loro leader, candidati e classi dirigenti, con la loro credibilità e affidabilità. Saranno già massacrati dalla Grande Macchina del Potere in tutte le sue ramificazioni, e non ci aggiungeremo noi ad aggravare la pena. Anzi la campagna di linciaggio, già partita, accenderà la voglia di difenderli e di combattere la piovra scatenata dai cento tentacoli. Sarà prioritario buttar fuori dal potere i Dem, la cupola dei poteri cresciuta intorno a loro, più la galassia di alleati, complici, derivati annidati nei governi, nelle istituzioni, nella cultura, nell’informazione, nell’intrattenimento, nei poteri diffusi, nella magistratura e in tanti altri ambiti. E lo sciame di leggi che vorrebbero introdurre per snaturare definitivamente la nostra società. È triste votare contro, anziché a favore, benché il voto contro sia stata la molla prioritaria della politica in Italia, tra antifascismo e anticomunismo, antiberlusconismo e ora antisovranismo. Ma la spinta originaria della politica, lo insegnava Carl Schmitt sulla scia di Hobbes e Machiavelli, è il conflitto, le alleanze che si costituiscono per fronteggiare il Nemico.
Più facile sarebbe stato incoraggiare l’astensionismo, chiamare fuori e tirarsi fuori. E facile sarebbe sostenere piccole formazioni più radicali che raccolgono gli scontenti della destra, della lega, dei grillini: ma è una legge inevitabile della politica che la loro intransigenza è direttamente commisurata al momento nascente di opposizione radicale. Finché sono irrilevanti fanno la voce grossa. Se dovessero avere i numeri per diventare forza di governo, oltre a mostrarsi anche loro inadeguati, ripercorrerebbero gli stessi “tradimenti” che attualmente denunciano delle forze “vendute” al sistema.
Con ogni probabilità quelli del centro-destra cederanno su molte cose per sopravvivere, su alcune saranno inefficaci o intimiditi; alcuni si venderanno alla Cupola, se già non è successo. Ma lasciando il passo ai loro avversari, avremo non la probabilità ma la certezza che le priorità del Paese reale verranno calpestate. E dunque dovendo scegliere tra i nemici virulenti e gli inefficaci difensori, obtorto collo, preferiremo comunque, per realismo, i secondi. È ben chiaro che una scelta di questo genere è a sangue freddo, turandosi naso orecchie e gola, e talvolta anche tappandosi la vista. Condivido quasi tutte le critiche attualmente rivolte ai tribuni del centro-destra; le ho espresse fino all’altro giorno. Ma l’idea di battere o arginare un potere soffocante e avverso, all’insegna del politically correct e dei dettami della Cappa, è impellente e non consente diversioni e defezioni. Un atteggiamento del genere è distaccato e disincantato, ma non va incontro a delusioni perché non abbraccia illusioni. Una cosa sola vi chiedo: accogliete o respingete questo ragionamento ma non siate malpensanti. Possiamo sbagliarci ma non abbiamo mai sostenuto tesi per trarne personale profitto e non lo faremo certo ora, in età grave.
Altri invece, gli entusiasti, avrebbero preferito un fervorino per l’ordalia, un appello euforico alle armi. Vi capisco, ma non è il caso. Abbiamo i piedi per terra e ci limitiamo solo a opporci a chi ci mette i piedi in testa e ci vuole sotto terra.

Il Centrodestra non si crei problemi da solo: altro che premiership

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Non c’è dubbio che il Centrodestra avrà un po’ di problemi in campagna elettorale, a partire da un’offensiva disgustosa della sinistra. I toni sono già enormemente gravi, Letta e soci li alzano perché non altro da dire agli italiani.

Della Meloni dicono ormai di tutto, Berlusconi lo dipingono – davvero volgarmente – come “la ruota di scorta di Salvini” e di quest’ultimo non ne parliamo che ci è abituato. A sinistra non cambiano mai.

I problemi del Centrodestra servono alla sinistra

L’ultima cosa che deve fare il Centrodestra è caricarsi problemi propri. Ma a che serve insistere sulla premiership: a me sembra evidente che se davvero la Meloni prende più voti andrà a Palazzo Chigi. E immagino che Salvini tornerà al Viminale. Difficile che la sinistra sia contenta.

Può succedere anche il contrario: se Salvini arriva prima toccherà a lui. Ma a che serve discuterne ora? Se hai voti hai anche parlamentari. (E a proposito, ha poco senso pretendere il 50 per cento dei collegi: serve solo a demotivare parlamentari e partiti, un autogol).

Ha detto ancora ieri Salvini: “Lasciamo a sinistra litigi e divisioni: per quanto ci riguarda, siamo pronti a ragionare con gli alleati sul programma di governo partendo da tasse, lavoro, immigrazione e ambiente. Chi avrà un voto in più, avrà l’onore e l’onere di indicare il premier”. Più di questo che deve dire per rassicurare la leader di Fdi?

Pensare al programma per il futuro degli italiani

Pensate al programma, agli impegni sulle cose da fare per l’Italia e non alla prima poltrona della politica. Rassicurare e non spaventare, non è un assalto alla cittadella del potere.

E siccome credo di conoscere la Meloni molto bene, non ce la vedo proprio come ossessionata da Palazzo Chigi. Se ci andrà sono certo che sarà all’altezza del compito. Ma ora vi dispiace andare a prendere voti anziché ammirare i sondaggi?

La democrazia è nociva, abroghiamola!

Marcello Veneziani , (La Verità, 21 luglio 2022)

Cade la Dragocrazia, s’intravede malconcia la democrazia che torna con la politica e col popolo sovrano, con grave scorno dei poteri alti, di Mattarella e del Pd. Ma andiamo con ordine.

S’i fosse Drago arderei lo governo. Mettetevi nei panni, anzi nelle squame, di Mario Draghi: perché restare ancora al governo? Accettò di guidare un governo d’emergenza con la prospettiva finale di andare dopo un anno di graticola al Quirinale. Dove avrebbe potuto svolgere il suo ruolo extra partes e la sua missione umanitaria di rappresentare l’Italia nel mondo e tra i poteri che contano.
Un anno fa era acclamato dal Paese, ci liberava da un governo e un premier insopportabili, offriva una tregua politica a un paese lacerato, pur essendo riconosciuto come la longa manus dei Poteri Alti. Ora, invece, la situazione si è fatta difficile perché dopo essersi accollato le conseguenze della pandemia, Draghi è accorso ad accollarci le conseguenze della guerra in Ucraina, dove abbiamo fatto davvero poco per ribaltare le sorti del conflitto e neutralizzare Putin, ma abbiamo fatto davvero tanto per inguaiarci noi, indebitarci, veder schizzare l’inflazione e mettere a repentaglio le forniture energetiche.
I consensi nei confronti suoi e del suo governo erano calati molto con l’aria condizionata; tante ironie si sprecavano sul governo dei migliori e in autunno s’annunciava la catastrofe economico-energetico-sanitaria; era il momento giusto per tagliare la corda, e i grillini gliene stavano offrendo una mezza possibilità. Era anche un modo per restituire la pariglia a Mattarella, ai dem e ai loro soci di minoranza che non lo hanno voluto al Quirinale ma solo a tirare le castagne dal fuoco. Invece è partito il pressing mondiale, dal più grande leader al più piccolo sindaco, da Mattarella ai Dem, dalla grande finanza ai clochard, mancavano solo l’Onu e la Croce Rossa per bloccarlo a Palazzo Chigi. Perché un uomo di 75 anni, che ha già ottenuto i maggiori incarichi di potere, avrebbe dovuto lasciarsi friggere in padella e giocarsi il nome costruito in una vita? Il suo interesse era andarsene, ma non poteva, perché doveva rispondere a un’entità superiore che non è lo Stato, la Democrazia, l’Interesse generale, ma una cupola di poteri intrecciati che non passano dalle urne e che sono dietro la sua luminosa carriera. E che consideravano un imperativo categorico restare a ogni prezzo al governo e non andare al voto. Allora Draghi ha deciso di andare avanti all’infinito, magari restando poi il Santo Protettore di un campo largo filodraghiano dopo l’inevitabile voto del ’23. O in alternativa, aspettarsi altri incarichi prestigiosi a livello internazionale, più la vigile attesa con tachipirina fino a che Mattarella lasci in un modo o nell’altro il Quirinale. Ma la strada di quest’autunno era tutta in salita e piena di burroni. Poi Draghi in Parlamento ha bistrattato i partiti, fingendo di lusingarli, ha maltrattato i grillini pur lanciando occhiate dolci, e ha chiesto un governo più suo, con più ampi poteri. E lì qualcosa si è interrotto, qualcosa è saltato. Salvini e Berlusconi che avevano compiuto l’errore madornale di mandare Mattarella anziché Draghi al Quirinale, accettando la linea del Pd, vista ora la deriva oligarchica che voleva imbrigliare il paese, si sono ricongiunti alla Meloni, anche per non dare solo a lei i consensi degli scontenti. Ed è venuto fuori il papocchio di ieri in Parlamento.
Per carità, sarà sbagliato andare di corsa a votare, è un salto nel buio, quando invece nel buio ci stavamo andando seduti nel treno guidato da Drago Draghi. Ma se è per questo tra un anno circa, diciamo tra nove mesi per essere ostetrici, quando cioè si doveva andare a votare per forza di scadenza, cosa sarebbe cambiato? Ci avrebbero detto ancora di non fare salti nel buio e qualcuno avrebbe ripetuto quel che dice oggi e diceva un anno fa: o Draghi o morte. Dopo aver ripetuto pochi mesi fa: o Mattarella o morte.
Ma come sono responsabili, loro, vogliono preservarci dall’avventurismo e dalle cadute nel buio… Faccio solo osservare, sommessamente, che quella catastrofe da voi prefigurata, quel precipizio tremendo che ci aspetta, un tempo si chiamava diversamente: il suo nome era democrazia, alternanza di governo, libertà di voto e sovranità di popolo. Ora voi direte: ma il rischio è troppo alto, e perciò vogliono tenerci ancora sotto tutela, come ai tempi della pandemia, come ai tempi di Berlusconi da cacciare, come ai tempi di Monti, Napolitano, Gentiloni, e via dicendo…
Nei prossimi manuali di scienza politica si definiranno ottimi i governi che non passano dal voto, pessimi quelli che ne scaturiscono; poi si definiranno responsabili i governi che contengono i dem, irresponsabili i governi senza di loro. E si aggiungerà che i migliori politici sono per definizione coloro che non lo sono, cioè i tecnici, gli oligarchi, i commissari internazionali.
Condivido tutte le riserve sull’armata brancaleone della politica e non nutro fiducia per nessuno di loro, sia esso tribuno della plebe o affiliato della Cupola. Però vi dico, a questo punto perché tenere ancora in vita la democrazia, pur nella forma ipocrita di democrazia delegata o parlamentare? Perché non dichiarare ormai superata quella fase chiamata della sovranità popolare e libero voto in libero Stato? Non vediamo che o vincono i suddetti emissari della Cupola o la democrazia corre gravi pericoli, e martellanti campagne già si attrezzano per demolire in partenza governi con Meloni indigesti? E allora anziché cominciare prima con le campagne, poi con le intimidazioni, quindi con le minacce internazionali, gli assalti giudiziari e i ricatti economici, e infine boicottare i governi non allineati alla Cappa, perché non dichiarare ufficialmente che siamo nell’era delle oligarchie e dei governi calati dall’alto? Perché inventarsi un’emergenza dopo l’altra se possiamo più lealmente dichiarare che siamo passati a un’altra forma di governo e non sono più ammesse defezioni da parte del popolo sovrano alla linea imposta dai Grandi Poteri che contano? Avete anche un magnifico alibi a vostra portata, l’esempio disastroso dei grillini al governo e in parlamento, e dunque potete ben dire: vedete dove porta e come finisce il populismo e il voto sovrano?
Allora dichiarate che abbiamo eterno e infinito bisogno dei Draghi come dei Mattarella, e quel bisogno si abbrevia semplicemente in bis. Bene bravi bis, for ever. L’Italia senza di loro è una terra abitata solo da cinghiali, da incapaci e da dementi: per fortuna che abbiamo loro, Drag Queen e King Mattarel, i nostri sovrani a vita, come la Regina Elisabetta, ma loro non si sono limitati a regnare, come lei, ma sottogovernano con i poteri conferiti dalla Cupola internazionale. Mario per sempre, con Papa Sergio. Poi è arrivata la ventata di pazzia e ci siamo ritrovati, ma guarda un po’, in una situazione analoga a quella della Gran Bretagna: senza un governo in piena guerra, ancora in pandemia, in grave crisi economica ed energetica. Ma se cade Johnson eletto dal popolo sovrano è cosa buona e giusta, se cade Draghi, non eletto, è una tragedia. Salvo colpi di coda, si andrà a votare nel primo autunno. Torna malconcio e in vesti grottesche quel mostro chiamato democrazia, o perlomeno un suo parente o sosia.

Marcello Veneziani , (La Verità, 21 luglio 2022)

Perché Borsellino fu davvero un eroe

Marcello Veneziani , La Verità (19 luglio 2022)

Il giorno in cui Paolo Borsellino fu assassinato, il 19 luglio 1992, aveva risposto alla lettera di una studentessa di 17 anni di Padova che gli poneva domande sulla mafia. «Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle – scrisse Borsellino – perché la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande». La prima domenica, cioè l’ultima. Ho avvertito un brivido lungo la schiena leggendo quelle righe che sembrano quasi far la cronaca profetica di quel che gli sarebbe accaduto poche ore dopo; e suonano come un messaggio di congedo verso la famiglia e i figli, col rimorso di aver dedicato tutto il suo tempo, anzi la vita, al servizio dello Stato.

Quando si parla di Falcone e Borsellino, nutro per entrambi massimo rispetto e ammirazione; però, lo confesso, propendo per Borsellino; finora lo spiegavo col fatto che lui non era uomo di potere, come invece è stato Falcone; era un uomo di destra, ed è andato incontro alla morte con virile fatalismo, sapendo già ciò che sarebbe accaduto, dopo l’uccisione di Falcone. Era un morto che camminava, ma a testa alta. Dopo la strage di Capaci disse a sua moglie: “La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo”.

Ma poi la spiegazione chiara della mia preferenza per Borsellino me l’ha data lo stesso Falcone in un’intervista: “quello che mi separa da Borsellino: lui crede di recuperare valori che per me sono obsoleti”. E poi: ”non si può andare contro i missili con arco e frecce”. Eccolo l’eroe, il don Chisciotte, che combatte con armi inadeguate nel nome di principi che non ci sono più. Ma alla fine, l’esito fu tragicamente uguale per entrambi, l’idealista Borsellino e il realista Falcone. E davanti al comune destino di vittime, ti sfiora un’obiezione: non è meglio morire per i valori e attaccando seppure “con arco e frecce”, piuttosto che negoziando con poteri e istituzioni, muovendosi con accortezza e ritenendo ormai superate le motivazioni più nobili? Pur essendo morti entrambi per l’Italia, per lo Stato e per la Giustizia, come si può chiamare quella differenza? Senso dell’onore, missione eroica, amor patrio.

Ho conati di vomito quando vedo le autorità, anche altolocate, del nostro paese celebrare Borsellino. Quanti sordi, muti, collusi, figli di collusi, complici, reticenti e omertosi, magari passati pure per combattenti e vittime della mafia.

Quella pagina scritta e strappata il 19 luglio di trent’anni fa è una vergogna per la magistratura, per le istituzioni, per il potere, e di riflesso per l’Italia. Borsellino chiamava il Palazzo di giustizia “un covo di vipere”; ma altre serpi covavano in seno le istituzioni, e in alto…

“Fin quando siamo stati zitti – ha detto la figlia di Borsellino, Fiammetta – il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. E conclude che suo padre incarnava “la faccia pulita dell’Italia”.

Quel 19 luglio del ’92 fu ucciso a Palermo il presidente ideale della seconda repubblica italiana. Era un magistrato come colui che fu poi eletto presidente della repubblica (Scalfaro) ma lui all’Italia dette la vita e non la retorica. Era un magistrato ma non era malato di protagonismo e di livore. Tre giorni prima della strage di Capaci 47 parlamentari del Msi lo votarono presidente di una repubblica ideale. Quarantasette, morto che parla; e dopo che uccisero FalconeBorsellino era un morto che parlava. Sapeva ormai da due mesi che il prossimo sarebbe stato lui ma rimase al posto suo, a testa alta. Perché lui era davvero un uomo d’onore, nel senso che alla mafia di una volta incuteva timore e rispetto; meno alla nuova, più spregiudicata e cinica. Lui era un servitore dello Stato, credeva nell’autorità dello Stato e nella missione del magistrato. Non serviva solo la Repubblica e la Costituzione ma amava la sua patria, l’Italia, a partire dalla sua Sicilia. Da giovane aveva militato nelle organizzazioni del Msi. Peccato che furono così pochi a votare per lui: se quel voto lo avesse portato al Quirinale, avrebbe salvato la vita a lui e la dignità alla Repubblica.

Quanta gente campa ancora sulla morte di Borsellino. Quanti magistrati devono a eroi come lui se hanno avuto largo credito e pubblica fiducia. La magistratura italiana per anni ha campato sull’eredità di toghe insanguinate come la sua, godendo di un’autorevolezza assoluta. Nessuno poteva toccare il prestigio delle toghe dopo il sacrificio di Falcone e Borsellino. Quanti politici e giornalisti si fanno ancora belli in suo nome e pretendono, al riparo della sua ombra, di stabilire chi sono oggi i mafiosi, i loro alleati e succedanei, e chi sono invece i loro nemici, legittimati a sentenziare. Quante anime belle hanno inzuppato la loro retorica nel sangue di quel magistrato. C’è una vena di sciacalleria in tutto questo e di appropriazione indebita della memoria di un eroe, un martire e un galantuomo. Borsellino non era un giudice d’assalto malato di protagonismo e di furore ideologico. Non era amato dai suoi colleghi di sinistra. Non era un giudice giacobino, non cercava popolarità attraverso clamorosi atti giudiziari, non scriveva romanzi come tanti suoi colleghi vanesi e non pensava di darsi alla politica, di portare all’incasso la sua fama di giudice antimafia. Sul suo conto in banca c’era solo un milione di lire. Di lui resta appesa al muro la bicicletta. Poi le foto, con Falcone e senza, la sigaretta appesa alle labbra, lo sguardo, e dentro il destino.

Marcello Veneziani , La Verità (19 luglio 2022)