PRIMAVALLE 1973

Ho conosciuto Virgilio quando facevo parte della giunta provinciale del Movimento Sociale Italiano di Roma, in via Alessandria. Il mio compito era svolgere un lavoro di raccordo fra le attività delle sezioni di partito ed il nostro quotidiano: “Il Secolo d’Italia”. Per questo motivo, avevo rapporti con tutti i segretari di sezione ed ebbi modo di conoscere Mario Mattei, il padre di Virgilio, che aveva assunto il non facile ruolo di dirigere la sede di Primavalle, un quartiere dove era fortissima la presenza delle formazioni extraparlamentari di sinistra.

Mario, pur essendo una persona mite, non aveva mai avuto paura in vita sua, neanche quando, prigioniero di guerra nel “Fascist Criminal Camp” di Hereford in Texas, aveva avuto modo di conoscere i metodi di rieducazione dei difensori della democrazia statunitensi. Portava infatti degli occhiali dalle lenti molto spesse frutto dei numerosi colpi di bastone che i prigionieri ricevevano sulla testa passando in mezzo alle ali dei loro custodi, che avevano il compito di insegnare loro a non disubbidire agli ordini.

Insieme a lui avevano subito lo stesso trattamento uomini come Roberto Mieville, uno dei primi parlamentari del Msi, il pittore Alberto Burri, il futuro sindacalista Gianni Roberti, Vincenzo Buonassisi, lo scrittore Gaetano Tumiati, Beppe Niccolai. Gente sicuramente fuori dal comune che, al loro rientro in Italia, contribuirà non poco a risollevare le sorti della Patria. Mario era uno di loro e si era sposato con una donna altrettanto fiera e coraggiosa, Anna, conosciuta, guarda caso, frequentando le sedi del partito e soprattutto quella di Prati.

Virgilio accompagnava spesso il padre in via Alessandria ed anche a via Quattro Fontane, sede nazionale del Movimento Sociale, dove, al primo piano, erano le stanze dei Volontari, guidati da Alberto Rossi e di cui facevano parte Mario e Virgilio, che avevano il compito di difendere i comizi del segretario del partito nei luoghi ritenuti più pericolosi. 

Ho letto recentemente in un libretto sull’incendio di Primavalle pubblicato come allegato della Gazzetta dello Sport (scritto da tale Davide Serafino e a cura della professoressa Barbara Biscotti, titolare della cattedra di Diritto Romano presso l’Università di Milano-Bicocca), che i Volontari sarebbero stati un corpo paramilitare. Si vede proprio che spesso chi scrive lo fa in base a scarse conoscenze di cui non verifica la fonte. I Volontari erano persone normali e nella loro vita quotidiana svolgevano ruoli e compiti che con il militare non avevano proprio nulla a che fare. Erano studenti, operai, gente comune, gente del popolo, ritenevano un dovere permettere al segretario del partito in cui militavano di poter esporre le proprie idee senza che altri compissero agguati o gesti di violenza.

Spesso ne pagavano loro stessi le conseguenze come accadde al povero Ugo Venturini, colpito alla testa a Genova il 18 aprile del 1970 con una bottiglia piena di sabbia e sassi lanciata da estremisti di sinistra contro il palco da cui parlava Giorgio Almirante. Venturini era un operaio di 32 anni, sposato e padre di un bambino che non rivedrà mai più perché morirà in ospedale il primo maggio di quello stesso anno.

Neanche dopo tanti anni si evita di fornire interpretazioni volutamente fuorvianti per mettere in cattiva luce solo ed esclusivamente una parte politica. Ma quale corpo paramilitare? Se almeno avesse avuto un casco in testa, un elmetto, Venturini non sarebbe certamente morto, ma la “divisa militare” dei “volontari” purtroppo non prevedeva neanche questo…

Tornando a Virgilio, così iniziò la nostra amicizia. Perché, nonostante fosse più giovane di me di diversi anni, avevamo anche frequentazioni in comune al di fuori della vita di partito. Quello che però cementò definitivamente il nostro rapporto fu un viaggio che decidemmo di intraprendere insieme per proteggere dagli assalti dei “Katanga” di Capanna un comizio di Giorgio Almirante a Milano.

Era il 10 ottobre del 1971 e ci demmo appuntamento, veramente in tanti, alla stazione Termini per prendere il treno che al mattino presto ci doveva portare nel capoluogo lombardo. Contrariamente alle aspettative, non ci fu nessun agguato e nessuna provocazione durante il percorso verso la piazza dove si svolgeva la manifestazione e neanche durante il comizio che si chiuse in un tripudio di folla. Fu così che riprendemmo la metropolitana e ci incamminammo verso la Stazione Centrale per tornare a Roma.

Ricordo che ci dividemmo nei vari scompartimenti ed io, insieme ad una giovane militante e ad un ragazzino di 17 anni (il terribile corpo paramilitare) eravamo posizionati verso la parte finale del convoglio. Fu così che nelle stazioni successive vedemmo entrare nei vagoni persone che avevano manici di piccone, bastoni, chiavi inglesi, bandiere rosse. Per nostra fortuna riuscii a mandare il ragazzo nello scompartimento successivo al nostro per avvisare di quello che stava accadendo e grazie a questo non ci presero di sorpresa. Alla fermata successiva scesero in gruppo bloccando le porte, ma anche noi non ci facemmo cogliere impreparati perché, nel frattempo, avevamo agguantato gli estintori, rotto le panchine per farne delle rudimentali armi di difesa e riuscimmo a capovolgere la situazione a nostro vantaggio. Devo ricordare con affetto due persone più anziane di noi che ci diedero coraggio e infusero tranquillità: il segretario della sezione Montemario, Domenico Franco e un dirigente dei Volontari, Roberto Cecere. Furono feriti, ma non indietreggiarono di un passo e noi facemmo di tutto per non essere da meno rispetto a loro.

Ricordo Virgilio anche in quella occasione. Sembrava non avere paura di quanto potesse accadere, eppure aveva poco più di venti anni. Forse eravamo proprio degli incoscienti. Quando uscimmo fuori avevamo anche diverse bandiere rosse sottratte agli avversari. La notizia però era stata data anche via radio e fu così che in diverse stazioni importanti trovammo ad accoglierci calorosi comitati di estremisti di sinistra uniti a militanti del pci che volevano tentare di saldare i conti. Posso solo dire che non ci sono riusciti. 

Trascorse più di un anno in cui continuammo a vederci, ma con meno frequenza perché nel frattempo Virgilio stava concludendo il servizio militare, ma avevo sue notizie da Anna e Mario che erano fieri di questo ragazzo in grigioverde. Il tempo passò, forse troppo in fretta, fino a quell’inizio primavera del 1973…quando tutti si aspettano che gli alberi fioriscano, che la vita ti regali nuove emozioni…

Quella fra il 15 ed il 16 aprile è stata invece la notte più lunga e più triste della mia vita.

Ero profondamente addormentato quando, a casa dei miei genitori, squillò improvvisamente il telefono. Allora non esistevano i cellulari, mi svegliai di soprassalto e corsi a rispondere perché sapevo già che a quell’ora non poteva essere che per me. Era Franco Spallone, un dirigente romano del Movimento Sociale che, con tono concitato, mi disse: “Roberto, svelto, vestiti perché ti passo a prendere. Hanno dato fuoco alla casa di Anna e Mario Mattei a Primavalle, Virgilio è morto. Non so dirti altro”. Mi cadde il mondo addosso. Franco e Virgilio erano per me come fratelli, io che nella mia famiglia avevo solo una sorella più grande. Franco era quello che mi aveva preso sotto la sua custodia, era quello che, nei periodi più brutti o più pericolosi, telefonava a mio padre per dirgli di stare tranquillo. Se non ero tornato a casa era perché dormivo a casa sua per motivi di sicurezza.

Virgilio era il fratello più piccolo. Nonostante fosse più giovane di me, quando l’avevo incontrato pochi giorni prima nella sede nazionale del partito a via Quattro Fontane, mi aveva rivelato quello che era ancora un segreto: “Roberto preparati perché, se tutto va bene, fra non molto mi sposo.” Del resto c’era un motivo se tutto questo lo veniva a raccontare proprio a me. La sua fidanzata era una mia amica, la conoscevo da prima di lui.

No, non poteva essere, Franco si era sicuramente sbagliato. Non potevo credere che esistessero mostri capaci di compiere un gesto simile. Quando, meno di venti minuti dopo, arrivammo sul posto, capii che la ferocia umana non ha nulla a che vedere con quella delle bestie che, se uccidono, è perché hanno fame o devono difendere i propri figli, ma mai per motivi inutili o per odio legato alle diverse idee politiche.

Il quadro che ci si presentò era da inferno dantesco. Oltre a Virgilio, che era comunque un militante e aveva messo nel conto quello di poter essere minacciato, aggredito, bastonato, ma non certamente ucciso, quei vigliacchi avevano causato la morte di Stefano, un ragazzino che andava ancora alle elementari ed aveva cercato protezione aggrappandosi alle gambe del fratello più grande, del suo “difensore”. Se gli altri quattro fratelli si erano salvati era stato grazie all’abnegazione di Anna e Mario che si erano inventati di tutto, a rischio della loro stessa vita, pur di sottrarli alle fiamme. 

Ero impietrito, non voleva credere ai miei occhi. Non riuscivo neanche a piangere. Mi muovevo come una specie di automa aspettando che qualcuno mi dicesse di svegliarmi, che quel brutto sogno era finito. La seconda parte del film sarebbe stata sicuramente diversa ed i “buoni”, ancora una volta avrebbero vinto. E invece no, non è stato così e la seconda parte del film è stata uguale se non peggio della prima. 

Il segretario del partito, Giorgio Almirante, che della famiglia Mattei era amico a livello personale, decise di allestire la camera ardente nella sede della Federazione romana in via Alessandria e di celebrare i funerali nella chiesa dei Sette Santi Fondatori a Piazza Salerno. Ebbene, la notte prima delle esequie, mentre stavamo attaccando manifesti nei pressi dell’Università, venimmo aggrediti da un gruppo di extraparlamentari armati di pistola che ci spararono contro diversi colpi, fuggendo poi nella notte quando si accorsero di aver mancato l’agguato. Il giorno stesso dei funerali il nostro servizio d‘ordine dovette respingere alcuni tentativi di assalto, a colpi di bottiglie molotov, al corteo che accompagnava Stefano e Virgilio in chiesa.

Non era che l’inizio di una lunga vicenda di vergognose ingiustizie che dura da allora e sembra non trovare mai fine…

Volevano colpire anche dopo la morte e ci sono riusciti. Nei giorni immediatamente successivi scattò infatti una vergognosa campagna di stampa per “dimostrare” che l’incendio non era altro se non la conseguenza di una faida interna allo stesso Msi. Le rivelazioni di Achille Lollo, (avvenute 32 anni dopo la strage, e quando non avrebbe più dovuto pagare niente alla giustizia visto che i reati erano prescritti in quanto condannato per omicidio “preterintenzionale”, ovvero, chi versa litri e litri di benzina non voleva uccidere ma soltanto creare un po’ di confusione…) sono almeno servite a chiarire alcune verità, quelle che tutti conoscevano, ma che si cercava di nascondere ed alterare. 

Insieme a Lollo facevano parte del commando Marino Clavo e Manlio Grillo e l’agguato era stato concepito a casa di Diana Perrone, una delle figlie dell’allora proprietario del Messaggero, insieme a Paolo Gaeta, figlio dell’allora legale della Federazione Nazionale della Stampa e Elisabetta Lecco, fidanzata di Manlio Grillo. Due giorni dopo la strage proprio questi sei vennero messi sotto processo da parte dei Capi di Potere Operaio a via dei Serpenti e, poco tempo dopo, Marino Clavo rese piena confessione a Valerio Morucci, colui che sarebbe diventato poi uno dei capi delle Brigate Rosse e responsabile dell’agguato a Moro. Franco Piperno, altro capo di Potere Operaio, ebbe la faccia tosta di affermare che non aveva creduto a quella confessione perché Morucci aveva mostrato a Clavo una pistola… e si  che di pistole in quel periodo all’interno di Potere Operaio ne giravano tante…

Non potevamo assolutamente sospettare che, più di quaranta anni dopo, il servizio pubblico – e per la precisione Michele Santoro – si sarebbe comportato in maniera assolutamente peggiore, dando ampio spazio in una trasmissione dedicata all’omicidio Moro, proprio a Lanfranco Pace, l’estremista di Potere Operaio che fece da tramite fra l’on. Signorile del psi ed i brigatisti rossi Adriana Faranda e Valerio Morucci durante i 55 giorni del sequestro. La prima cosa che mi fece saltare sulla sedia fu una domanda rivolta dal conduttore a Pace circa una perquisizione compiuta a casa sua nei giorni immediatamente successivi al sequestro Moro e posta in maniera tale da voler accusare le forze dell’ordine di aver messo sotto sopra l’abitazione di Santa Maria Goretti, come se Lanfranco Pace non avesse nulla a che fare con i militanti dell’ultrasinistra.

Crediamo sia dunque giusto precisare che tutti e tre i condannati per la morte dei fratelli Mattei, ossia Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, erano militanti di Potere Operaio, la formazione di cui erano a capo Franco Piperno, Oreste Scalzone e per l’appunto Lanfranco Pace… 

Il giorno dopo la strage, la direzione di Potere Operaio si riunì a via del Boschetto e decise di curare un libretto, “Primavalle, incendio a porte chiuse”, per rivendicare l’innocenza degli assassini e far ricadere la colpa su presunte faide interne alla sezione missina. Uno degli architetti di tutto questo fu proprio Lanfranco Pace che, trent’anni dopo, non si vergognerà di affermare nel libro “La generazione degli anni perduti”:  “Fummo costretti ad assumerne la difesa nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c’erano alternative, non ricordo tanta comprensione ne tanta solidale vicinanza come quella volta che predicavamo il falso”. I difensori degli assassini fecero mettere agli atti del processo questo vergognoso e falso libercolo, curato per altro, oltre che da Pace e dalla sua compagna di allora, anche da un gruppo di giornalisti de Il Messaggero (il giornale di proprietà della famiglia Perrone, a casa della cui figlia venne progettato l’attentato). Fu anche grazie a queste ignobili falsità che gli assassini latitanti si permisero di non pagare neanche un giorno di prigione e i vari Moravia e Dario Bellezza brindarono alla scarcerazione di Lollo quando venne emessa la prima scandalosa sentenza di assoluzione. 

E tutto questo “Scherlock Holmes” Santoro non lo sapeva quando ha chiamato Pace in studio? Non sapeva che i suoi amici si chiamavano, tra l’altro, Alvaro Lojacono (il militante di Potere Operaio responsabile nel febbraio del 1975 dell’uccisione dello studente greco Mikis Mantakas, “colpevole” di aver partecipato alla seduta del processo agli assassini dei fratelli Mattei e che successivamente passerà alle brigate rosse e farà parte del commando che uccise la scorta di Moro), Bruno Seghetti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Barbara Balzerani, Germano Maccari (quest’ultimo considerato uno dei brigatisti che sparò i colpi di grazia allo statista democristiano)?

Come è noto, Adriana Faranda e Valerio Morucci, i brigatisti con i quali Pace dichiara aver avuto diversi incontri nei 55 giorni del sequestro, verranno arrestati, quasi un anno dopo l’assassinio di Moro, in una casa dove viveva Giuliana Conforto, il cui padre verrà successivamente accusato dal dossier Mitrokin di essere uno degli agenti del Kgb in Italia. Il Consigliere Istruttore, dott. Achille Gallucci, scrive testualmente: “Il 29 maggio 1979 la Digos della Questura di Roma, in viale Giulio Cesare 47, in un appartamento condotto dalla Conforto, ha proceduto all’arresto d Valerio Morucci e Adriana Faranda, entrambi già da tempo latitanti, imputati di delitti rivendicati dalle “brigate rosse”, fra i quali il sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro: fra le molte armi sequestrate nell’appartamento, sono state rinvenute la “Skorpion”, impiegata con ogni verosimiglianza per l’uccisione dello statista, ed un’automatica Luger 7,65, matricola 04471, compendio di rapina rivendicata dalla formazione “Unità comuniste combattenti”. Da confessioni rese in distinto procedimento ed acquisite al presente ai sensi dell’art. 165 bis c.p.p. è risultato che la suddetta formazione, con denaro proveniente da imprese delittuose, aveva finanziato la rivista “Metropoli” di cui Piperno e Pace erano redattori. La Conforto interrogata sulle ragioni che l’avevano indotta a favorire il Morucci e la Faranda, ha chiamato in causa prima il Piperno e poi il Pace, indicando in esse le persone a richiesta delle quali si era indotta ad alloggiare i due latitanti. La grave risultanza accusatoria è stata negata dal Piperno, ma è stata sostanzialmente ammessa dal Pace, il quale si è risolto altresì a confessare di aver aiutato i predetti Morucci e Faranda trovando loro ricetto, non solo presso la Conforto, ma anche presso tale Candido Aurelio, nonché presso altre persone che non ha per altro voluto indicare”.

Probabilmente se Santoro avesse letto meglio le carte avrebbe evitato una pessima figura, visto che lo stesso Lanfranco Pace, ascoltato dalla commissione di inchiesta sugli sviluppi del caso Moro, non esita a raccontare che, insieme a Franco Piperno, incontrò altri due membri del commando che agì in via Fani, Prospero Gallinari e Mario Moretti, ma dopo, solo dopo la morte di Aldo Moro. Forse Santoro avrebbe capito per quale motivo fu perquisita la casa di Pace e perché venne fermato per 48 ore. Quello che invece noi non riusciamo ancora a comprendere è il motivo per cui un personaggio del genere non sia stato pedinato e non è convincente la sua risposta quando afferma che lui “prendeva sempre le dovute cautele”… Nessuno di tutti questi “democratici“ ha mai chiesto scusa, nessuno si è mai vergognato di quello che ha scritto, nessuno ha mai avuto il coraggio di affermare che “Soccorso Rosso” di Franca Rame e del premio Nobel Dario Fo raccoglieva soldi e protezioni per foraggiare degli assassini e che se la giustizia avesse fatto il suo corso si sarebbero risparmiati molti lutti e molte delle violenze che hanno insanguinato l’Italia negli anni successivi.

Di giorni bui, chi ha voluto bene a Stefano e Virgilio, ne ha passati tanti in questi lunghi cinquanta anni trascorsi da quella notte tragica. Ma non ci siamo lasciati travolgere dalla tristezza e dallo sconforto per una giustizia che non ha mai compiuto il proprio dovere. Non ci potrà essere pace fino a quando nessuno di questi vigliacchi non avrà il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e chiedere scusa.

Quella mattina all’alba, quando tornai a casa con gli occhi pieni di lacrime, sulla mia agenda scrissi una sola parola: “Ricordati”.  Da allora non c’è giorno della mia vita in cui non li abbia avuti a fianco.

È un periodo triste. Mi chiedo se valesse la pena che tanti ragazzi perdessero la vita per un ideale che non trova quasi più nessun difensore. Siamo gli appestati dai quali tenersi a distanza, siamo i reietti, ma conserviamo nel cuore qualcosa che nessun potrà mai rubarci: la fede, la nostra fede. Quella che ci consente di non tradire i nostri amici, che ci permette di ricordare chi ci ha preceduto con animo lieto, quella che ci da la forza per guardare al futuro sapendo che ci saranno sempre dei ragazzi come Stefano e Virgilio che prenderanno dalle nostre mani una bandiera che non toccherà mai terra.

Nostro compito è lasciare delle orme che qualcuno possa seguire, piantare dei semi che si trasformino in grano. Se cinquanta anni dopo noi siamo ancora qui è perché Stefano e Virgilio sono stati il nostro seme ed altri ce ne saranno dopo di noi.

La mia prima tessera della Giovane Italia aveva una scritta: “Noi abbiamo ancora una bandiera da gettare al vento, una canzone da lanciare al sole”. Quello di nascere uomini liberi è un dono che nessuno ci potrà mai togliere, perché non siamo indottrinati, non ci possono comprare.

Non importa quanti siamo o quanti sarete, perché noi siamo sempre quelli che: “Anche se tutti, noi no”. 

Roberto Rosseti

Napoli, delirio-Pd: “Questa rotonda è fascista, ecco perché”.

15/02/2024 LiberoQuotidiano.it

Una rotonda con una pianta al centro. Il muretto di pietra, i segnali che indicano il senso di marcia. Sullo sfondo, una fabbrica e quello che sembra un ipermercato. Insomma, potremmo essere in una qualsiasi delle migliaia di rotonde sparse per l’Italia. E invece no. Quella che vedete qui sopra non è affatto come tutte le altre. Perché, signore e signori, nella foto potere vedere una minacciosa e pericolosissima rotonda fascista…

Siamo a Sant’Anastasia, paese di 26.156 abitanti della città metropolitana di Napoli. E qui, il 7 febbraio (probabilmente approfittando del fatto che l’Italia intera era distratta dal Festival di Sanremo), l’amministrazione comunale, con una delibera della Giunta, ha deciso di intitolare la rotonda incriminata nientemeno che a Giorgio Almirante, storico leader del Movimento sociale italiano. Serve dire cosa è successo dopo?

Ovviamente avete già capito. Essì, la sinistra, a partire dal Partito democratico per arrivare alla solita Anpi, ha risposto con una raffica di dichiarazioni indignate. «Ricordiamo tutti chi era Almirante», hanno tuonato Marina Mollo e Peppe Maiello, del gruppo consiliare dem in comune. E via: «Durante il regime fascista fu un importante dirigente del partito, autore di articoli fascisti e antisemiti. Non ha mai rinnegato la sua fede fascista e la sua ostilità alla democrazia nonché la sua ammirazione per Benito Mussolini. Dedicare un’area pubblica ad Almirante vuol dire celebrarlo e con lui celebrare il fascismo. Questa è la più alta violazione alla nostra Costituzione».

Quindi, come detto, il comunicato dell’associazione dei partigiani: «L’Anpi prende le distanze con profonda indignazione e incredulità da questa ennesima scelta che testimonia la determinazione abietta di rimuovere la Storia, di legittimare certe ideologie, di negare responsabilità del passato e spazzare via anni di lotte, quelle lotte che hanno contribuito a cancellare la pagina più buia della nostra storia al fine di far trionfare la democrazia e la giustizia. Il fascismo non è un’opinione, è un crimine».

Eccoci qui, alle prese con la spinosa questione di una rotonda incostituzionale. Ora, le vie ad Almirante sono sempre causa di scontro politico e divisioni. Però vanno ricordate alcune cose: – È vero che Almirante ha aderito alla Repubblica sociale, ma soprattutto, dopo la guerra, è stato leader della destra italiana per circa vent’anni e deputato della Repubblica per quarant’anni ininterrotti, dal 1948 al 1988, dalla prima alla decima legislatura. – È vero che Almirante ha scritto articoli antisemiti, ma questa parte del suo passato l’ha più volte rinnegata in maniera chiara e netta, come peraltro diversi ex fascisti poi diventati guru della sinistra…
– I progressisti e i membri dell’Anpi di Sant’Anastasia dovrebbero rileggersi quello che di Almirante ha detto, per esempio, l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: «Almirante è stato espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio». Correva l’anno 2014. Allora un Capo di Stato ex comunista certe cose poteva dirle. Oggi non si può più, bisogna solo insultare. È il rischio delle rotonde, quando si sbaglia strada può capitare di tornare indietro…

PER NON DIMENTICARE

«Il Giorno del Ricordo è arrivato tardi, drammaticamente tardi: 60 anni dopo e con tanta fatica (l’ iter parlamentare è durato 10 anni)». A scrivere un lungo e vibrante intervento è Roberto Menia, il papà della legge che istituì il 10 febbraio come data per ricordare. Una data simbolo “per seminare memoria, recuperare dalla polvere della storia vicende nascoste, occultate, dimenticate, mai raccontate, infoibate anch’esse”. Il senatore di Fratelli d’Italia rammenta su Libero quanta  fatica sia costata arrivare a questo. Figlio di un’esule istriana, oggi afferma «Adesso il debito morale dell’Italia è in parte sanato». Ma quanta fatica e quanto tempo ci sono voluti per approdare ad un momento di pietas collettiva.

Menia: “Il Giorno del Ricordo è arrivato drammaticamente tardi”

“Richiesta di giustizia, amore, umanità, rispetto. E quando si semina prima o poi si raccoglie”, scrive Menia. Ma i rimpianti non si dissolvono:  il “Giorno del Ricordo” è arrivato tardi. “E molto, moltissimo, è andato perduto. I tesori della memoria di tanti vecchi, la cantilena della lingua del dolce sì, i profumi, lo spirito, le tradizioni. Troppi, donne e uomini, hanno chiuso gli occhi seppellendo con loro le vecchie care memorie. Le città hanno cambiato nome e quasi nessuno, oggi, in Italia conosce più Parenzo, Pola, Fiume, Zara: le chiamano Porec, Pula, Rijeka, Zadar”.

Menia, il bilancio: “In tanti hanno saputo quel che non sapevano”

“Convenienze politiche di ordine interno e internazionale indussero a cancellare dalla coscienza e dalla conoscenza degli italiani questa grande tragedia nazionale – scrive Roberto Menia-. Una tragedia che per decenni è rimasta confinata nelle memorie private delle nostre famiglie; lassù, in quell’angolo d’Italia alla frontiera orientale”. A quasi vent’anni dall’istituzione del giorno del ricordo, il bilancio che trae  Menia è in parte positivo: “è giusto dire che quella legge ha almeno in parte sanato il debito morale dell’Italia tutta nei confronti della tragedia giuliano -dalmata. Tanti hanno saputo quel che non sapevano. Nelle scuole si è iniziato a studiare, parlare, conoscere; città e paesi d’Italia hanno intitolato vie, parchi e percorsi alla memoria delle foibe e dell’esodo”.

“I negazionisti, piccole sacche condannate dalla storia”

Certo, non tutto è positivo: “Rimangono ancora, confinati fuori dal presente e da quel sentimento di umanità che dovrebbe legare ogni connazionale, i negazionisti in servizio permanente effettivo. Ma sono piccole sacche, condannate dalla storia. Oggi, 10 febbraio, l’Italia, quella dolce e orgogliosa di cui noi, figli dell’esodo, siamo innamorati, si riconcilia. E riconosce nella sua compiutezza il valore della grande prova che i giuliano -dalmati le seppero offrire.

IL GESTO DI ALMIRANTE E BERLINGUER – Frascati 12 Febbraio ore 17.30

Il dibattito politico per essere tale ha bisogno di tutti gli attori protagonisti in campo. La nostra visione della politica è differente e improntata alla dialettica per analizzare temi e prospettive passate e future.Vi aspettiamo a Frascati, presso il Palazzo Comunale  “Sala degli specchi”, Lunedì 12 Febbraio alle ore 17::30.

 


Fascismo ed ebrei, le idiozie (anche a destra) hanno stufato

Riceviamo da Caio Mussolini la lettera da lui inviata al giornale on line  ” il Primato Nazionale “.Ci sembrano delle considerazioni  molto equilibrate e lo condividiamo volentieri con gli amici della Fondazione

PN     il Primato Nazionale 

Roma, 1 feb – Pubblichiamo un commento espresso  da Caio Mussolini sul tema del fascismo e degli ebrei, in contestazione aperta con quanto asserito da alcuni esponenti di FdI, suo stesso partito. La questione storica e la mancanza totale di lucidità sull’argomento rendono necessario approfondirla con serietà, ma soprattutto con un minimo di logica.

Fascismo ed ebrei, un po’ di buon senso contro i deliri storici che divampano anche a destra

Gentile Vice Direttore Fergola,

Vi scrivo per poter condividere alcune riflessioni in merito all’evento tenutosi a Roma e riportato nell’articolo a firma di Alessandra Parisi, non essendomi stata data l’opportunità di farlo direttamente dalle pagine del Secolo d’Italia.

Prendo spunto dall’importante evento tenutosi la settimana scorsa a Montecitorio e realizzato con l’obiettivo di preservare la memoria riguardante le tragedie del XX secolo subite dal popolo ebraico. Iniziativa lodevole e condivisibile che si collega alla nostra tormentata storia del XX secolo, e proprio per questo motivo un ponderato e attento uso delle parole sarebbe stato auspicabile, specialmente da parte di chi ricopre importanti cariche istituzionali.

Mi permetto subito di evidenziare, citando proprio Hannah Arendt che il fascismo non è stato “totalitarismo”. Infatti il F. non è mai riuscito a controllare completamente la vita dello stato perché la Chiesa e la monarchia si sono mantenute autonome rispetto ad esso. Inoltre il F. non ha praticato il terrore né lo sterminio di massa e per questi motivi lo si può definire “imperfetto”. Invero i due totalitarismi europei erano quello nazista e quello comunista dell’Unione Sovietica. Basta leggere il libro della stessa scrittrice “Le origini del totalitarismo” di Einaudi, per capire le grandi differenze tra la dittatura fascista e i due totalitarismi.

Il fascismo, contrariamente a quanto sostenuto dal relatore, non ha “sistematizzato giuridicamente l’annientamento del popolo ebraico per poi eseguirlo”. Invero sino al 8 settembre 1943 è stato il contrario, vedi la Delasem, le partenze da Trieste (città definita Sha’ ar Zion) in nave effettuate sino al 1943 verso Israele organizzata da Misrad ha sochnut ha yehudit; vedi Primo Levi che ha potuto laurearsi normalmente in chimica a all’università di Torino nel 1941, o basta leggere cosa scriveva lo storico ebreo Léon Poliakov per indicare la protezione posta in essere da Benito Mussolini a favore degli ebrei (non solo italiani), che usò l’espressione  “Scudo protettore” (Léon Poliakov, “Il nazismo e lo sterminio degli ebrei”, pagg. 219-220). Questo scudo si ergeva non solo in Italia, ma in Croazia, in Grecia, in Egeo, in Tunisia, in poche parole ovunque penetrassero le truppe fasciste.

Anche lo studioso israelita Menachem Shelah nel libro intitolato Un debito di gratitudine (verso l’Italia) evidenzia il forte contrasto e aperto conflitto tra la linea italiana e quella tedesca nei confronti degli ebrei.
Finanche un autore antifascista come Mario Avagliano riconosce che: “in Francia, Jugoslavia e Grecia i comandi italiani intervengono spesso a difesa degli ebrei, e sottraggono molti di loro ai tedeschi, salvandoli dalla persecuzione e dalle deportazioni”.

Le leggi razziali, profondamente sbagliate e ingiuste poiché le comunità ebraiche erano presenti da secoli in Italia e perfettamente inserite nel tessuto sociale, nonostante le discriminazioni e ingerenze nella loro vita nei secoli che venivano storicamente da oltre Tevere. In aggiunta, molti ebrei avevano partecipato con entusiasmo alla Marcia su Roma, mentre tanti altri avevano avuto incarichi apicali nell’amministrazione pubblica (es. Finzi, Jung, Rava, Toeplitz, Almansi, Del Vecchio…). Tuttavia, le leggi razziali “discriminavano” e non perseguivano, e fino al 25 luglio 1943 nessun ebreo fu perseguitato né tantomeno deportato. Sarebbe sempre importante anche contestualizzare il periodo storico, basti pensare che la “grande democrazia” degli USA nel 1939 non permisero l’attracco della Nave Saint Louis procedente dal porto di Amburgo con più di 900 ebrei che scappavano dalle persecuzione naziste o ricordare che le loro leggi razziali vennero abolite col Civil Right Act solo nel 1964!

Il relatore conclude il suo intervento citando il libro di Hannah Arendt La banalità del male, che immagino abbia letto. Deve essergli tuttavia sfuggito cosa l’autrice scriveva proprio in merito al governo fascista e agli italiani nelle pagine finali, da 182 a 187, dove ad esempio riportava che: “Il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti – quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania e anche quello di Franco in Spagna. Finché l’Italia seguiva a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri stati satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto“.

Poi arrivò l’infame 8 settembre, il “più grande tradimento della storia” (non lo dico io, lo scrisse il Mar. Montgomery nelle sue memorie, e quando citato in giudizio in Italia a metà degli anni ’60 vinse la causa, arrivando il sostituto procuratore di Milano dr. Bonelli a chiedere e ottenere dal Consigliere Istruttore Dr. Palma il proscioglimento del Maresciallo con l’archiviazione del procedimento) e tutto cambiò. Con la destituzione di Mussolini da Capo del Governo, l’egemonia militare tedesca in Italia e la guerra civile venne meno quella “protezione”, con le tragiche e sciagurate conseguenze che tutti conosciamo.

Spero con queste mie riflessioni di aver dato un piccolo contributo riguardante la verità storica, oggi necessaria più che mai se si vuole raggiungere una visione condivisa su quel complesso, drammatico e articolato periodo che ancora oggi ci perseguita.

Ringraziandola per lo spazio concesso, la saluto cordialmente.

Caio Mussolini

Bugie su Almirante: dal Pd ignobili accuse al leader missino in Senato. Balboni: “Fango e ignoranza”

Il tentativo di infangare il nome di Giorgio Almirante da parte del senatore del Pd Dario Parrini è stato ignobile. “Fango puro” commenta il senatore di FdI Alberto Balboni. Sono riecheggiate in Senato accuse infondate e strillate in maniera vergognosa. Almirante stragista, golpista, antidemocratico. L’aula di Palazzo Madama non meritava di udire considerazioni squallide come quelle che sono risuonate.  Lo spoloquio delirante è nato dopo che il senatore emiliano, a capo della commissione Affari costituzionali della Camera, è intervenuto ricordando la lezione del segretario dell’Msi: a commento del voto positivo a Palazzo Madama sull’autonomia differenziata.

Accuse vergognose su Almirante in Senato. Balboni: “Fango puro”

Giorgio Almirante vide il rischio che si potesse arrivare alla secessione- ha  rintuzzato le isterie della sinistra- . Parlò dieci ore in occasione della istituzione delle Regioni a statuto ordinario”. “Vide il rischio che dal centralismo dello Stato si passasse a 15 centralismi bonsai”. E dette “un contributo a cui tutta l’Italia dovrebbe rendere onore, pensava a un regionalismo federale, fu un grande uomo”. E ha aggiunto che “chi ha avuto come leader Almirante non può tradire l’unità del Paese. “Chi viene da questa storia non può rinunciare né all’unità nazionale, né al sentirsi italiano in qualsiasi parte dell’Italia abiti”. Per Balboni Almirante ha contribuito “a quel processo di pacificazione nazionale indispensabile, specialmente nei momenti difficili, per garantire la coesione sociale in qualsiasi Nazione”.

Scintille su Almirante tra Balboni e Parrini: il dem al delirio

Una pacificazione della quale si è dimostrato del tutto indegno il senatore del Pd Dario Parrini. Al quale è partita la brocca. Almirante ” difensore della democrazia, come dice lei? Credo sia un errore: nel 1970 ci fu il Golpe Borghese;  nel ’72 il Msi portò in parlamento Ciccio Franco e Mario Tedeschi, tra i finanziatori della strage di Bologna”. Accuse gravissime e destitute di fondamento. Lo sproloquio è proseguito: “Nel 1972 tre carabinieri furono uccisi a Peteano, e solo una amnistia salvò Almirante dall’accusa di favoreggiamento”. Poi tocca il ridicolo assicurando “che stiamo parlando di fatti incontrovertibili”. Non è vero. “E’ fango puro, sono falsità”, si sfoga con noi Balboni. Rintuzzando una per una i fantomatici “capi d’accusa” che il dem tira fuori contro ogni veridicità storica.

Balboni: “Con il golpe Borghese Almirante non c’entra nulla: gli ripugnavano le scorciatoie”

Cominciamo col dire che se Almirante fosse stato tutto ciò di cui il senatore dem lo accusa, ci dovrebbe spiegare come mai una donna delle istituzioni come Nilde Iotti, allora presidente della Camera, rese omaggio alla sua salma. Si va a dare l’estremo saluto a uno stragista e golpista? Si trasmettono in diretta Rai le esequie di uno descritto come il ricettacolo di tutti i mali? Ridicolo. “Col golpe Borghese Almirante non c’entra nulla”, dice Balboni-. Non c’è nulla agli atti, è fango puro. Tra l’altro, l’ipotesi golpista si colloca agli antipodi del pensiero almirantiano. Lui era contro ogni ‘scorciatoia’, gli ripugnavano: perché credeva profondamente nella  dialettica democratica. Tra l’altro, l’Italia dovrebbe essergli grata per avere guidato una comunità verso questo percorso democratico e istituzionale”. Ricordiamo a tal riguardo i tanti scritti dedicati da Almirnte alle riforme istituzionali.

Su Peteano gli storici Baldoni e Gennaccari smontano le accuse

Molto gravi e “false” da parte di Parrini le accuse ad Almirante sulla strage di Peteano. Il senatore dem ignora del tutto  – essendosi fermato all’amnistia – “che il processo proseguì ed arrivò a sentenza nel 1989. Quella sentenza- ricorda Federico Gennaccari che con Adalberto Baldoni ha scritto volumi su volumi sulla storia della Destra-  ha fatto cadere completamente l’accusa nei confronti di Almirante. Come spiega bene Baldoni  in “Destra senza veli”:

Su Almirante teoremi andati in frantumi

«L’accusa di favoreggiamento contro Almirante, allora segretario  del Msi-Dn, e contro Eno Pascoli, allora segretario provinciale missino di Gorizia, si basava sul trasferimento in Spagna di 34 mila dollari da parte di Pascoli per consentire a Carlo Cicuttini, ritenuto il ‘telefonista’ della strage, di effettuare una operazione alle corde vocali. Gli accertamenti processuali del 1989 hanno dimostrato che il trasferimento di denaro in Spagna era connesso con la professione di avvocato di Pascoli; che Almirante non era al corrente di tale trasferimento perché esso non “era riferibile alle attività politiche dello stesso Pascoli”; che “a Cicuttini non è mai stata effettuata alcuna operazione alle corde vocali” e che “la lettera con la quale Cicuttini avrebbe chiesto ad Almirante un aiuto finanziario non è in realtà mai esistita”». Teorema andato in frantumi. Il senatore del Pd non legge, non si informa, fa figuracce e infanga senza ritegno.

Figuraccia  Pd, il senatore racconta balle e i colleghi applaudono

I due storici confermano che il nome di “Ciccio Franco non risulta proprio nella strage di Bologna”. E quanto a Tedeschi “è stato tirato in ballo da morto”. Alla faccia del garantismo, commenta Balboni. Poi il senatore del Pd ha toccato il ridicolo: “Almirante in quegli anni aveva simpatia per Pinochet, per i colonnelli in Grecia“. Balboni è sconcertato: “Noi che lo abbiamo frequentato non abbiamo mai udito pronunciare parole simili: mai sentito parlare di simpatie verso queste figure. Chissà dove ha letto queste cose…”. Il fatto è che il Pd è alla frutta e non guarda in faccia nessuno, neanche i defunti. Per questo applaudono il collega senza cognizione di causa. Squallore.

7 Gennaio 1978 Franco , Francesco e Stefano

Riportiamo il discorso tenuto da Giorgio Almirante il 10 gennaio 1978 alla Camera dei deputati . Come sempre le sue non sono parole di vendetta ma di pacificazione nazionale

“Questa atmosfera di rispetto, in molti casi di sincero cordoglio, che il martirio di tre giovani di destra ha determinato, rende meno arduo il mio compito; che è pur sempre difficilissimo, perché si tratta di comprimere e di reprimere stati d’animo, pur legittimi e comprensibili, sentimenti, risentimenti; per nobilitare e responsabilizzare questa discussione, come comandano i giovani puliti e cari che sono morti per la libertà di tutti, come comandano i loro familiari, dalle labbra dei quali non è uscita la minima invocazione alla vendetta, ma una chiara, ferma, severa, richiesta di giustizia e di pace: la richiesta, soprattutto, che da questo sangue altro sangue non esca, la richiesta che sia finalmente rotta la spirale dell’odio e della guerra civile. A questo punto il discorso che occorre fare è il discorso delle responsabilità, passate, presenti e future; il discorso delle responsabilità morali e civili, delle responsabilità politiche, delle responsabilità esecutive, sia in termini di prevenzione che di repressione”.
“Le responsabilità civili e morali sono le più gravi, perché nel tempo hanno determinato e aggravato le altre. Oggi, al cospetto di questo triplice crimine, tutti o quasi si inducono a parlare di pace e a smettere la propaganda dell’odio. Ma quanti parlavano tale linguaggio, sereno e responsabile, fino a qualche giorno fa? Quanti tra voi, quanti tra noi tutti, hanno veramente contribuito nei mesi e negli anni passati a disintossicare l’atmosfera, a educare alla pace e alla comprensione le giovani generazioni? Io non mi voglio presentare in veste di giudice; ma in veste di testimone sì, ho il diritto di farlo, perché da trent’anni non partecipo e non partecipiamo alle responsabilità e nemmeno alle possibilità del potere. Invece, quale gravame di responsabilità morali pesa su coloro che hanno gestito il potere a tutti i livelli, su coloro che hanno controllato e controllano la radio, la televisione, lo spettacolo, la scuola, il sindacato, la stessa cultura! Persino in questi giorni la radio e la tv sono state faziose, rifiutando di dare per esteso le nostre comunicazioni, che pure erano intese a placare gli animi, rifiutandomi la possibilità di lanciare un appello ai giovani nel nome della pace! Persino in questi giorni è stata chiusa e faziosa la scuola, nelle responsabilità politiche di vertice, non dando ascolto alla nostra richiesta di proclamare un giorno di lutto nelle scuole, in memoria dei giovani assassinati, di tutti gli studenti assassinati. D’altra parte lei stesso, signor ministro dell’Interno (Francesco Cossiga, ndr) ha parlato il 6 ottobre, nell’aula di questo ramo del Parlamento, il linguaggio dell’odio, della provocazione, della istigazione a delinquere contro la nostra parte, contro i nostri stessi giovani, e anche il linguaggio della calunnia, tanto è vero che i ragazzi che lei ha mandato in galera per quei fatti non debbono più rispondere di omicidio, né di concorso in omicidio, né di concorso morale in omicidio, né di rissa ma soltanto di presunti reati politici e di opinione”.
“Quanto alle responsabilità politiche, voi tutti avete costituito in questi ultimi mesi un regime, perché avete tentato di appropriarvi delle guarentigie costituzionali. La logica dei regimi, di qualunque colore essi siano, è la discriminazione; e con la discriminazione la violenza, e con la violenza l’odio e la spinta verso la guerra civile. Ora siete in crisi; e allora: o lo sbocco della crisi sarà ancora il patto a sei, il compromesso storico allargato, e in tal caso dovrete tener conto del fatto che noi siamo la opposizione; e che il tentativo di criminalizzare o di soffocare o comunque di discriminare la opposizione in quanto tale equivale alla riapertura di quella spirale dell’odio e della vendetta che in questi giorni dite di voler spezzare; o lo sbocco della crisi sarà il fallimento del compromesso storico e del precedente patto a sei, e allora non si dovrà parlare di governo di emergenza ma di governa di salute pubblica nazionale; cioè di una formula di reggimento del paese che non escluda alcuna componente, non già in termini di partecipazione alla maggioranza, al governo o al sottogoverno, e alle conseguenti lottizzazioni, ma in termini di corresponsabilizzazione, e quindi di pacificazione nazionale, come noi la vogliamo e la intendiamo. Ciò significa che la pacificazione nazionale, la salvezza della Nazione, non si può realizzare senza o contro i nostri ragazzi, senza o contro la nostra famiglia umana…”.

L’ultimo delirio della Schlein: proposta di legge per vietare di intitolare strade ad Almirante

Secolo d’Italia  4 Ott 2023  – di Monica Pucci

Con un Pd a pezzi, il valzer delle correnti che lo scuote, la minoranza interna che si prende gioco della segreteria e le liti quotidiane con gli “alleati” grillini, Elly Schlein prova a riprendersi il partito con un “evergreen“, l‘antifascismo moderno. Quel “mantra” politico che già aveva condotto la sinistra a una pesante sconfitta alle elezioni Politiche, visto che agli italiani, dell’enunciazione ideologica di una parte politica, non frega nulla, soprattutto se da quel fronte non arriva uno straccio di proposta percorribile e credibile. Ma Elly si mette la camicia della partigiana e tira fuori due proposte di legge “necessarie per fare i conti fino in fondo con la storia, perchè senza memoria non si possono porre le basi per un futuro migliore”. La Schlein vuole la linea dura contro la minaccia della “propaganda fascista e nazifascista” e annuncia pene con reclusione fino a un anno e sei mesi. Ma c’è di più, il delirio arriva a voler vietare i ricordi del grande leader di destra Giorgio Almirante, con il “divieto di intitolare strade, piazze, monumenti o sacrari a esponenti del partito o dell’ideologia fascista”. E’ chiaro che l’obiettivo è lui, vista la propaganda che la sinistra, da quando c’è la Meloni al governo, ha lanciato ogni qual volta un Comune “di destra” ha votato per l’intitolazione di una via al leader missino scomparso.

La Schlein vuole “cancellare” Almirante…

“Non una operazione nostalgia ma vogliamo tutelare una memoria collettiva”, ha spiegato la capogruppo dem a Montecitorio Chiara Braga. “E’ importante riattualizzare la legge Scelba/Mancino”, ha spiegato invece il responsabile Cultura e informazione Sandro Ruotolo che si è rivolto alla Meloni: “Cerca di presentarsi come moderata in Europa, sostenga le nostre proposte di legge antifascista. Da che parte sta?”. “Non vogliamo limitare la libertà, è tutto il contrario. Vogliamo contrastare un fenomeno eversivo, un pericolo per la democrazia”, ha detto il deputato dem Andrea De Maria, che si è concentrato sulla Pdl sulla toponomastica: “E’ indecente nominare vie e piazze a gerarchi o esponenti del fascismo. Oggi non c’è un provvedimento che impedisce di farlo. Noi individuiamo figure specifiche e se la legge fosse in vigore non ci potrebbe essere nessuna strada dedicata a Almirante…”.

E la segretaria, con faccia tosta, ribadisce: “Noi come Pd ci opponiamo a ogni tentativo di riscrittura della storia. La Costituzione è antifascista, saldata attorno a principi in gran parte ancora non attuati nel Paese. Come il diritto alla Salute, negato nel momento in cui ci sono persone che ricevono appuntamenti per una visita tra due o tre anni. Come sul lavoro. La Costituzione deve guidare politiche pubbliche che producono giustizia sociale e invece siamo a fronte a una maggioranza che sembra orientata a principi altri”. Di questo passo e con questi argomenti triti e ritriti, la sinistra prepara la sua prossima sconfitta, alle Europee…

Grosseto, sì della Prefettura a via Giorgio Almirante: si scatena la gazzarra della sinistra

Nascerà via Giorgio Almirante a Grosseto. La Prefettura ha dato il nulla osta dopo tre mesi dalla richiesta partita dall’amministrazione comunale guidata da Antonfrancesco Vivarelli Colonna, il sindaco della cittadina toscana che ha deciso di intitolare una strada sia allo storico segretario nazionale del Msi, sia ad Enrico Berlinguer, come esempio di pacificazione nazionale. Il via libera da parte del massimo organo governativo non ha spento, però, le polemiche.

Il sindaco: “Fatta giustizia”

Il progetto di toponomastica dell’amministrazione comunale parte da via della Pacificazione nazionale e arriva sino a via Enrico Berlinguer Berlinguer e via Giorgio Almirante. L’idea del primo cittadino grossetano è quella di costruire, attraverso i simboli storici, condivisioni politiche che spazzino via risentimenti e rancori. Vivarelli Colonna ha più volte ricordato che la proposta di intitolazione delle strade ad Almirante e Berlinguer è stata approvata per ben due volte dal consiglio comunale. Ma tutto questo non ha spento le polemiche speciose di alcuni settori della sinistra.

“No ad Almirante a Grosseto”

 Reazioni isteriche sono arrivate puntualmente dalla sinistra. Parla di “revisionismo storico” la capogruppo alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra, Luana Zanella, citando un passo di uno scritto di Almirante pubblicato su “La Difesa della Razza” in cui scriveva che “il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti”. Dal Partito Democratico, invece, accusano la prefetta, per mezzo del deputato dem Marco Simiani, “di non avere sensibilità. La pacificazione non si impone con la toponomastica ma con il rispetto di tutte le posizioni politiche e non dimenticando fatti tragici causati dalla violenza nazista e fascista”. Anche l’Anpi non si tira indietro, annunciando che “faremo le nostre valutazioni rispetto all’eventualità e ai contorni di un ricorso al Tar”.

La prima via al leader del Msi trent’anni fa da un esponente della sinistra

La prima via intitolata a Giorgio Almirante in Italia fu ad opera, nel 1993, di Costantino Belluscio, per anni deputato del Psdi e segretario particolare di Saragat al Quirinale, sindaco di Altomonte, in provincia di Cosenza. Non ci furono polemiche, nessuno si scandalizzò. In Italia ne esistono oltre duecento. Il passo indietro compiuto in tutto questo periodo è il sintomo di una regressione culturale impressionante. Almirante è stato il simbolo dell’onestà politica, deputato per 40 anni, capace di un gesto simbolico forte come la presenza ai funerali di Berlinguer. Una figura politica che molti elettori della sinistra rispettano come rappresentante di idee e azioni improntate sulla coerenza e sull’etica.

Le amnesie di un antifascismo insopportabile

Guardare alla storia con gli occhi del presente è sempre un esercizio sterile. Le obiezioni su Almirante e sul manifesto della difesa della razza sono strumentali e ambliope. Rileggendo gli articoli di Eugenio Scalfari, Enzo Biagi, l’adesione di Dario Fo alla Rsi(solo per citare alcuni dei totem della sinistra passati per il fascismo e autori di scritti non certo edificanti in quel periodo), bisognerebbe adottare lo stesso metro di giudizio. Decontestualizzare senza operare un distinguo tra prima e dopo serve solo ad alimentare un antifascismo inutile. Da Grosseto arriva un messaggio di superamento di steccati e contrapposizioni che trent’anni fa sembravano non esistere più. E che oggi paiono l’espressione di una triste involuzione culturale.