Seduta del 10 gennaio 1975

Nel 1975 il regolamento della Camera consentiva i discorsi-fiume, anche in occasione dell’esame dei decreti-legge. Con decreto-legge il governo volle approvare una proposta di riforma, in pejus, della Rai-Tv. Il Msi-Dn decise ed attuò una battaglia ostruzionistica che travolse il decreto-legge. Il successo fu dovuto anche all’ampiezza degli argomenti portati a sostegno dell’opposizione al decreto. Giorgio Almirante, già segretario del partito, partecipa in prima persona a questa battaglia diretta ad impedire la legalizzazione della lottizzazione ed a consentire, quindi, il continuare della disinformazione

La battaglia contro 
la lottizzazione della Rai-Tv

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, vi prego di non sorridere di me se, nonostante la mia lunga esperienza di quest’aula sono un veterano confesso che immaginavo diverso l’inizio di questo dibattito sulla riforma della RAI-TV. Ero giustificato nell’immaginario diverso perché non solo se ne è parlato in tante occasioni negli scorsi anni, ma se n’è parlato da parte di tutti i settori di questa Camera auspicando (di anno in anno, sia allorché la vecchia convenzione scadeva e veniva prorogata, sia, prima ancora che la convenzione scadesse, dal 1960 in poi, con discussioni ripetute appassionate e approfondite) il gran giorno in cui si sarebbe giunti alla riforma della RAI-TV. Se ne è parlato in guisa seria e impegnata sia da parte di coloro che ritenevano che la riforma dovesse essere una riforma di fondo, una ristrutturazione vera e propria, sia da parte di coloro che ritenevano che poco o nulla dovesse innovarsi ma che nondimeno si dovesse passare da una situazione provvisoria ad una situazione definitiva. Siamo giunti al gran giorno, si apre il dibattito sulla riforma della RAI-TV e l’aula è vuota. Non sono così presuntuoso da ritenere che l’aula sia vuota in questo momento perché parla il segretario del MSI- Destra nazionale, in quanto ho l’impressione che l’aula continuerà ad essere vuota o semivuota anche quando parleranno gli illustri colleghi delle altre parti politiche. Ho anche l’impressione che non soltanto l’aula continuerà ad essere vuota ma anche esternamente, in quegli ambienti giornalistici che ancora nelle scorse settimane si occupavano con tanta passione e intensità di questi problemi, si tenga a cloroformizzare, a morfinizzare usiamo una parola alla moda, e soprattutto una parola che si addice a taluni giornali come Il Messaggero di Roma a drogare la situazione di guisa che tutto scivoli e questa riforma di regime passi in un ovattato silenzio e in un largo conformismo.

Naturalmente, dico questo senza aver né l’autorità, né l’intenzione di deplorare tutti i lettori di questo Parlamento e ogni settore dell’opinione pubblica; ognuno ovviamente è padrone di assumere o di non assumere le proprie posizioni e le proprie responsabilità. Mi permetto soltanto di osservare che nel nostro paese si è fatto e qualche volta giustamente molto chiasso per l’appropriazione o per la vendita o per la cessione di qualche testata giornalistica, mentre in questo caso si tratta di cedere al regime la testata dei giornali radiotelevisivi. Altro che Corriere della sera, Il Messaggero, Il Tempo, o tutta insieme la nostra stampa: qui si tratta di una formidabile appropriazione di testate giornalistiche che influenzano la pubblica opinione. Osservo, di passaggio, che da uno dei tanti appunti che ho avuto modo di leggere nei giorni scorsi risulta che, su 20 milioni circa di ascoltatori del telegiornale delle ore venti, 12 milioni (secondo le statistiche-campione) non leggono alcun quotidiano. quindi vi sono almeno 12 milioni di italiani che come solo giornale hanno a propria disposizione il giornale televisivo delle ore venti. Ora questa testata viene ceduta; e non con i soldi di Cefis, di Agnelli o di qualche altro potentato economico, ma con i soldi del contribuente italiano. Viene ceduta, e nel momento in cui i soldi al contribuente italiano vengono estorti per questa operazione in misura maggiore che in precedenza (siamo di fronte ad una contribuzione forzosa, imposta, direi, con pessimo gusto), e il regime non spende una lira, ma incassa i leciti e gli illeciti guadagni, l’aula parlamentare rimane vuota. Così come sono assenti molti dei colleghi della stampa che, fra l’altro, sono direttamente o indirettamente interessati: taluni infatti sono dei diretti o indiretti beneficiari, ma molti altri sono direttamente o indirettamente colpiti e lesi moralmente, professionalmente e materialmente da questo atto di appropriazione indebita; eppure l’aula è vuota. E l’opinione pubblica viene indotta a tacere, a non occuparsi di questo problema o addirittura viene indotta, come, ad esempio, dal Messaggero di questa mattina, ad occuparsi di altro, visto che nei titoli di testata di questo quotidiano si parla, oltre che di quello che avviene oggi e di quanto potrebbe avvenire fra qualche giorno, quando il Presidente del Consiglio, sembra, verrebbe a porre la fiducia per stroncare o tentare di stroncare l’ostruzionismo, anche dello sciopero generale del 23 gennaio prossimo, la cui durata a Roma sarebbe raddoppiata «contro la violenza fascista».

A proposito della qual violenza fascista informo l’aula vuota, il Presidente e il cortese rappresentante del Governo, che stamane sono stato svegliato dall’ annun cio che due nostre sedi, a Roma, sono state distrutte col tritolo alle 2,30 di questa mattina. I giornali non ne hanno ancora potuto dare notizia; sembra che non vi siano vittime, ma queste sono le ultime notizie. A Roma lo dico di passaggio, perché non ho intenzione, io, di divergere o di cercare alibi, voglio parlare del tema e vi ritornerò subito, ma l’animo a questo punto è pieno di tale indignazione che mi si consenta un accenno, signor ministro, a questo episodio che le dedico quale rappresentate del Governo nella città dei fratelli Mattei, quei fratelli Mattei dei quali la televisione non ha offerto le immagini perché indubbiamente non erano telegenici nel momento in cui morivano bruciati, nella città nella quale otto nostre sedi sono state devastate, nella quale molti nostri ragazzi sono stati mandati all’ospedale (uno è ancora all’ospedale in pericolo di vita, e non lo intervistano perché non è telegenico nemmeno lui, mentre è telegenico il giovane di sinistra abbondantemente intervistato e che, grazie a Dio, lo dico con profonda soddisfazione, sta per uscire dall’ospedale), nella città dei fratelli Mattei, dicevo, non è lecito giocare, da parte di giornali «teledrogati», con la sensibilità, con la umanità, con la civiltà dei cittadini della capitale d’Italia.

Chiusa questa iniziale parentesi, di cui chiedo vivamente scusa al Presidente della Camera, e tornando al tema, sembra che questo dibattito non interessi. E io non attribuisco al nostro più che legittimo (e apertamente proclamato dal presidente del nostro gruppo) ostruzionismo, e quindi all’ostruzionismo più che legittimo degli altri settori, purché naturalmente condotto nel rispetto del regolamento, l’assenza di tanti colleghi dall’aula o il silenzio di quasi tutti i gruppi, come si è verificato ieri a proposito della risposta alle nostre pregiudiziali di costituzionalità. Anzi, se gli altri settori volessero non dico legittimare, ma mobilitare in termini politici e in termini di correttezza parlamentare il loro antiostruzionismo, essi dovrebbero cogliere l’occasione per star qui, per far sì che questo dibattito significasse qualche cosa sotto tutti i punti di vista. Soprattutto dovrebbero essere presenti e tentare di cogliere le nostre eventuali contraddizioni, i punti deboli delle nostre argomentazioni, per dimostrare che la nostra è soltanto una posizione ostruzionistica e non è una posizione corroborata da dati di fatto, da considerazioni serie, da posizioni profondamente meditate, valide nell’interesse della nazione e non certo nell’interesse esclusivo del nostro gruppo. Ma avete visto ancor ieri quello che è successo: e desidero sottolinearlo perché il mio discorso non può non partire dalle premesse di carattere costituzionale.

Beninteso, non ho la minima intenzione di ripetere e vedrete che non lo farò gli argomenti che sono stati sostenuti assai validamente, e aggiungo assai brillantemente, ieri dagli onorevoli Roberti e Guarra e dal nostro relatore onorevole Baghino. Non ho intenzione di ripeterli perché certo farei ciò in modo meno brillante, meno perspicuo soprattutto darei l’impressione di voler perdere del tempo; ma debbo cominciare di lì, perché questa è una legge di riforma, ed è una legge di riforma che attiene alle libertà costituzionali, alla Costituzione nel suo significato fondamentale. Non si può non prendere questo punto di partenza, anche perché non credo che ieri l’onorevole Bressani abbia risposto alle pregiudiziali di costituzionalità, che erano molto articolate e motivate, a nome di tutto l’«arco costituzionale», naturalmente escluso il gruppo liberale, il quale si è nobilmente comportato e al quale mi permetto di rivolgere il mio ringraziamento per quanto l’onorevole Quilleri ha sostenuto con tanta capacità. Non credo che l’onorevole Bressani abbia ieri potuto parlare anche a nome di altri gruppi: credo che egli abbia parlato soltanto a nome del gruppo della Democrazia cristiana; al massimo, posso immaginare che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali del Partito repubblicano e forse quelle del Partito socialdemocratico (con ciò mi riferisco a taluni precedenti). Non penso che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali ammesso che ne abbia del Partito socialista italiano, e certamente non si è potuto fare portavoce delle testi costituzionali del Partito comunista.

Il silenzio, nel dibattito di ieri, dei rappresentanti del gruppo comunista è grave e significativo, è un fatto politico e, più ancora che un fatto politico, costituisce un dato di regime. Il gruppo comunista è naturalmente padronissimo di contrastare il nostro ostruzionismo; l’onorevole Natta se io sono bene informato nella Conferenza dei capigruppo ha dichiarato che tutto ciò è perfettamente legittimo. Il gruppo comunista è padronissimo di coadiuvare la maggioranza nel portare innanzi al più presto possibile e al peggio possibile questa riforma della RAI-TV che, per i motivi che mi permetterò successivamente di enunciare, giova soprattutto al Partito comunista; ma, nel momento in cui il Partito comunista rinuncia ad avere una propria tesi sui problemi costituzionali a questo riguardo, esso rinuncia con ciò ad esprimersi su questo argomento, quando il non esprimersi su tale questione significa non pronunciarsi sulla riforma. I dati di fondo sono in questo caso dati costituzionali, e si riferiscono soprattutto alla interpretazione dell’articolo 21 della Costituzione, cioè alla interpretazione del significato di libertà di manifestazione del pensiero in un paese democratico e moderno. Nel momento in cui il Partito comunista tace a questo riguardo, esso, anche costituzionalmente, si inserisce nel regime. Io ringrazio il Partito comunista per questa sua posizione, perché essa è molto significativa e importante per l’opinione pubblica e per gli orientamenti di quelle masse lavoratrici di cui il Partito comunista si ritiene il rappresentante; ed è importante altresì che tale partito, forse per la prima volta, combatta una battaglia di retroguardia, mentre noi combattiamo una battaglia di avanguardia. Infatti, questa è la realtà: ci troviamo di fronte a due interpretazioni del dettato costituzionale. Una è l’interpretazione affermata coraggiosamente, anche se con molti ritardi, con qualche esitazione ed anche con alcuni recenti errori, dalla Corte costituzionale; l’altra è l’interpretazione del regime, che è per il monopolio, anzi lo documenterò è per un monopolio possibilmente inteso in senso più restrittivo di quanto sia stato fino ad ora e di quello che si dovrebbe instaurare. L’interpretazione della Corte costituzionale è contro il monopolio o, più esattamente, per il riconoscimento e l’accettazione del monopolio obtorto collo, per uno stato di necessità e per motivi tecnici (come ha ben spiegato l’onorevole Roberti) dovuti più ad una mancanza di informazione e di approfondimento dei motivi stessi, che ad una loro reale esistenza. Comunque sia, la Corte costituzionale è per l’accettazione obtorto collo, come stato di necessità, di un monopolio, limitato per altro soltanto alla televisione via etere ed escluso per la televisione via cavo e per l’importantissimo settore, del quale si tace, dei ripetitori televisivi stranieri all’interno del nostro paese. II contrasto è qui, il problema che si deve discutere è questo. Il silenzio del Partito comunista a questo riguardo significa che il Partito comunista ritiene di avere vinto in termini di regime la battaglia costituzionale, ma di poterla vincere solo tacendo. Se il Partito comunista parlasse, se ieri i rappresentanti del gruppo comunista avessero parlato e avessero contrastato le nostre tesi dal loro punto di vista rispettabilissimo punto di vista, ma comunistico e totalitario, sia detto senza alcuna riserva essi non avrebbero polemizzato con noi, ma con la Corte costituzionale, avrebbero contestato l’interpretazione corretta della Costituzione. Il Partito comunista, che finora si diceva interprete di una avanzata concezione della Costituzione, di una interpretazione «progressista» della Costituzione, avrebbe polemizzato con la Corte costituzionale accusandola di essere andata troppo avanti e riportando indietro l’interpretazione della Costituzione per consolidare, attraverso una concezione involutiva e regressiva della Costituzione, il monopolio della RAI-TV come monopolio di regime.

Questa mi sembra sia la realtà della situazione. Se dobbiamo esaminare il merito del problema, non serve aver rilevato agli effetti costituzionali le responsabilità della Democrazia cristiana. L’onorevole Bressani è naturalmente assente come tutti gli altri: non gliene faccio un addebito, ma non si può fare a me un addebito se, in sua assenza, gli dedico qualche cortese osservazione. L’onorevole Bressani era stato incaricato di rispondere a noi e all’onorevole Quilleri, e non poteva farne a meno. Lo ha fatto da par suo, con la sua personale capacità e abilità; ma alle tesi esposte dall’onorevole Roberti il collega Bressani non ha risposto. L’onorevole Bressani ha difeso la costituzionalità dell’adozione del decreto-legge ad opera del Governo. Se avete notato, non avevamo molto insistito, nel quadro delle pregiudiziali, sugli inesistenti motivi di necessità e di urgenza. Non vi avevamo insistito perché è veramente inutile insistere su una eccezione di questo genere in presenza di Governi (non alludo sarebbe ingeneroso all’ appena nato Governo Moro, ma a tutti i Governi di centro-sinistra) i quali hanno ormai instaurato la disinvolta prassi della decretazione legislativa, passando sopra non al dettato della Costituzione, ma talora, come la sorte infausta di tanti «decretoni» e «decretini» ha dimostrato, al buon senso, e persino all’interesse obiettivo del Governo e della cosa pubblica.

Non abbiamo insistito: anzi, siamo così generosi che in questo caso bisogna pur riconoscere che il governo Moro si è trovato ad ereditare una situazione di necessità, provocata dai precedenti Governi, composti dagli stessi uomini, e dalle precedenti maggioranze, composte dagli stessi partiti, ma formalmente diverse e quindi gravate ciascuna da una sua responsabilità. Pertanto, se avessimo troppo insistito sull’eccezione di incostituzionalità relativa alla forma del decreto-legge, avremmo sbagliato. Per il resto, l’onorevole Bressani non ha speso una parola a proposito di quanto l’onorevole Roberti, aveva detto sull’articolo 1, sull’articolo 3, sull’articolo 21, sugli articoli 24, 42 e 43 e sull’articolo 94 della Costituzione. In questo caso si tratta di brani della nostra carne, come parlamentari, come modestissimi studiosi di queste discipline, ma soprattutto come cittadini italiani, se è vero che l’articolo 1 vuole dire democrazia o non democrazia, che l’articolo 3 vuole dire parità e non discriminazione, se vero che l’articolo 21 vuole sancire la libertà di pensiero! Siamo, dunque, di fronte al vecchio discorso da cui è sanguinosamente cominciata, 30 anni fa, tutta questa vicenda. Siamo, dunque, di fronte al discorso delle libertà. Attraverso questa riforma, signor ministro, lo Stato si guarda allo specchio; dopo 30 anni esso riconosce la propria impotenza ed il proprio fallimento. Lo Stato non può, o addirittura non vuole, garantire ai cittadini l’accesso alla libertà di informazione. Dopo aver promesso la libertà per 30 anni, lo Stato, ricorrendo alla necessità (nella migliore tra le ipotesi) o per volontà prava (nella peggiore ma più realistica ipotesi), nega di fatto nel campo dell’informazione radiotelevisiva la libertà che, a parole, da tanti anni va promettendo. Lo Stato si trova di fronte al primo grande impegno costituzionale, perché, mi si consenta, tutte le altre riforme, da quella sanitaria a quella edilizia, sono importantissime, ma senza dubbio lo sono molto meno di questa al nostro esame, poiché nessuna fra tutte le altre riforme, di cui tanto si parla, attiene come questa alle fondamenta del vivere civile. Ripeto, in questo caso lo Stato si guarda allo specchio. Attraverso questa riforma esso confessa il proprio fallimento, la propria impotenza, la sua volontà contraria all’adempimento dei propri fondamentali doveri. Vi sono, peraltro, considerazioni politiche più pertinenti, sempre in riferimento al dettato costituzionale e alla sua interpretazione.

Signor ministro, da qualche mese, forse dal maggio dell’anno scorso credo di non sbagliarmi dalla data cioè della presentazione del disegno di legge dell’onorevole Togni, suo precedessore, ci siamo trovati su un piano inclinato con una serie di avvenimenti significativi. Il disegno di legge Togni non ebbe tempo di far parlare troppo di sé, perché, immediatamente successive, intervennero le sentenze della Corte costituzionale la n. 225 e la n. 226 e vi fu una specie di terremoto. Tale disegno di legge era stato preceduto, oltre che da intese a livello di maggioranza e di Governo, da altre più vaste. Vale a dire da intese dell’«arco costituzionale»: erano stati interpellati i comunisti e i liberali. Il disegno di legge Togni, presentato attraverso il promesso, sia pur condizionato, assenso dei comunisti e dei liberali, aveva potuto rappresentare un temporaneo ancoraggio per quella maggioranza, per quel Governo e per tutto l’«arco costituzionale». Successivamente si scatenò la tempesta delle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale e la stampa (ne darò qualche documentazione) fu attentissima nei riguardi di tale problema e imbastì una speculazione e una discussione di gran fondo. Si parlò addirittura di terremoto.

Poi ripresero, approfondite, le trattative di vertice; in tempi piuttosto brevi, durante e nonostante la crisi anzi, come elemento di dibattito nel quadro di essa si pervenne, scivolando, alla formulazione di questo decreto-legge da convertire in legge. Vi si arrivò, si badi bene, non andando avanti a seguito degli impegnativi confronti determinati dalle travolgenti è stato scritto sentenze delle Corte costituzionale: vi si arrivò, per quanto riguarda le questioni di fondo che sono la libertà, la parità e la non discriminazione, andando indietro e realizzando sulla pelle di questa riforma il primo esempio palese (se non fosse palese, l’atteggiamento comunista in quest’aula ieri, oggi e certamente domani, fino alla conclusione del dibattito, lo chiarirebbe) di una esperienza legislativa e costituzionale di attuazione del «compromesso storico»: perché a ciò si è giunti. Né si dica al segretario del MSI-Destra nazionale che queste sono nostre motivazioni di speculazione: sarebbe molto imprudente se dai banchi del Governo o della Democrazia cristiana o dei partiti che l’appoggiano ufficialmente si sostenesse che non è così: molto probabilmente si alzerebbe, come ha fatto in un recente passato, l’onorevole Amendola, per esortare i demo-cristiani alla cautela e alla moderazione. Egli direbbe ai democristiani: andateci piano, perché se questo decreto-legge non ci piacesse, non passerebbe; se non ci fosse stato almeno parzialmente gradito, non avreste potuto nemmeno presentarlo; non avreste potuto nemmeno concepirlo, se non fosse stato preceduto da colloqui e contatti con la nostra parte.

Questo decreto-legge è l’atto formale attraverso il quale il Partito comunista entra nel suo neo-regime, si installa al vertice di esso avendo come giaciglio le libertà degli italiani malamente vendute da una maggioranza che si dichiara democratica e si permette di discriminare chi combatte dall’opposto verso per la libertà. Ho parlato di una marcia verso la libertà da parte della Corte costituzionale. Spero che il presidente del mio gruppo non mi condanni, se mi permetto qui di parlare della Corte costituzionale con il massimo rispetto, ma anche con una certa libertà di giudizio. Non ci siamo sempre compiaciuti per talune decisioni anche recenti della Corte; soprattutto non ci siamo sempre compiaciuti per dichiarazioni di cui il presidente della Corte stessa avrebbe in taluni casi potuto fare a meno. La nostra è una posizione assolutamente obiettiva, serena e distaccata, anche e soprattutto nel momento in cui ci sembra di poter dire che il regime, attraverso il sostegno offerto a questo decretolegge, abbia voluto un po’ sovvertire la storia. Evidentemente, ci troviamo di fronte ad un nuovo schiaffo a Bonifacio… e non credevo che un nuovo schiaffo a Bonifacio potesse provenire dal clerico-marxismo: è una nuova interpre-tazione della storia, e me ne dispiace; né dirò che il presidente della Corte costituzionale se lo sia meritato; mi dispiace sinceramente.

Che cosa intendo quando dico che la Corte ha marciato costantemente, anche se lentamente e con indugi pesanti e responsabili, verso la libertà? Intendo dire che sulla Corte costituzionale, a nostro avviso, hanno pesantemente influito tre elementi di cui bisogna tener conto per i motivi che mi permetterò subito di illustrare. Il primo di essi è costituito dal progresso tecnologico, il quale ha modificato, se non addirittura capovolto, le situazioni e le posizioni in tutto il mondo e quindi, seppur virtualmente, anche in questo ritardatissimo paese progredito che è l’Italia democratica. Il secondo è dato dalla negativa esperienza della gestione monopolistica. Il mo-nopolio, infatti non ha trovato un solo difensore; non c’è un collega che abbia il coraggio parlo ai banchi, ma se l’aula fosse piena potrei ripetere tranquillamente, senza essere interrotto da alcuno, quello che sto dicendo di difendere l’esperienza del monopolio radiotelevisivo così come essa si è verificata e manifestata in Italia nel corso del dopoguerra, tanto è vero che, essendomi riletto attentamente tutti i precedenti dibattiti, non ho trovato un solo collega il quale si sia levato per difendere in toto il monopolio. Tutti coloro che sono stati chiamati alle pur legittime e doverose difese d’ufficio se la sono cavata proprio come il classico difensore di ufficio. Il monopolio, cioè, è un delinquente, ma ha delle attenuanti: questo è il massimo cui si è arrivati. Non si poteva, perciò, pensare che un’esperienza ormai quasi trentennale e negativamente giudicata da tutti i partiti, da tutto l’arco parlamentare, dall’intera opinione pubblica, da tutti gli ambienti di stampa mancasse di influire sui giudizi e sulle decisioni della Corte costituzionale.

Non è poi da sottovalutare l’ondata di opinione pubblica che si è via via montata contro quello che viene definito lo scandalo della RAI-TV. A questo riguardo e mi rimetto sempre alla cortesia del signor ministro perché si faccia relatore, io spero, delle opinioni che esponiamo state attenti, perché vi sono fatti di opinione che, nel loro montare e nel loro accentuarsi (non è il caso che si alzi la voce, signor ministro: dico amabilmente queste cose, anche se ritengo siano abbastanza gravi), travolgono qualsiasi regime. Si è parlato molto dei risultati del 12 maggio come fatto di opinione: io convengo che tali risultati abbiano pesato sull’opinione pubblica italiana e quindi sui relativi eventi politici. D’altra parte eravamo stati i soli ad ammonire in precedenza tutti i settori dell’opinione pubblica italiana circa le conseguenze pesantissime che si sarebbero determinate politicamente ed in termini di opinione proprio a seguito di un certo risultato del referendum. Non crediate perciò di uscirne con una riforma di questo genere senza che la pubblica opinione registri questo dato e, via via, lo vada montando, a meno che questa pessima legge non partorisca un ottimo monopolio. È prevedibile ciò? È pensabile che aggravando ed accentuando, se possibile, le precedenti discriminazioni, perfezionando le precedenti lottizzazioni, rendendo ancor più putridi i precedenti mercati, contaminando ancora di più la già contaminatissima atmosfera della radiotelevisione italiana si giunga a risultati che l’opinione pubblica possa apprezzare, con la differenza che prima ella, signor ministro, è democristiano le altri parti politiche avevano un capro espiatorio (non è vero? Si trattava di Bernabei, di Fanfani…), ma da adesso in poi il capro espiatorio sarà il regime? E se per caso qualcuno fosse indotto a non accorgersene, la destra nazionale farà sì che tutti se ne accorgano. Voi potete discriminarci nei comitati, nelle commissioni, soprattutto ve lo consiglio nei consigli d’amministrazione; voi potete stabilire, attraverso questa legge, norme in base alle quali una formula come i «quattro quinti» intende significare che il Partito comunista non deve essere escluso ed una formula quale i «tre quarti» che socialisti e comunisti sono determinanti, nel consiglio d’amministrazione, quando si deve approvare il bilancio. Voi potete fare tutto ciò, ma state in guardia contro una campagna di civile disobbedienza scatenata dalla destra nazionale! Voi non avete idea, probabilmente, di quel che possa essere una campagna che non ho definito di disobbedienza civile, ma opposta, di civile disobbedienza, scatenata da una forza come la nostra! Sbagliate quando pensate che gli italiani, colpiti da voi nell’onore, nel diritto, nella sensibilità, raggiunti e perseguitati nei propri domicili ogni sera, colpiti scandalosamente attraverso una legge che è anche di profitti di regime (scandalosa legge di profitti di regime), colpiti attraverso una legge che è anche, indirettamente, legge fiscale iniqua; sbagliate dicevo quando pensate che gli italiani non possano essere da noi raggiunti nei loro domicili, nelle case, nelle piazze, nelle strade, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Siamo nella condizione di raggiungere milioni di italiani, molti di più dei non pochi che finora ci hanno votato.

Sbagliate, quando ritenete di intraprendere contro la destra nazionale una battaglia di questo genere senza tener conto delle implicazioni e delle conseguenze di opinione. Dovrei financo dirvi ma non lo penso, perché il problema è troppo grave e non si presta a speculazioni che vi ringraziamo, perché ci collocate in questo modo al vertice della opinione pubblica italiana, come soli difensori della libertà che conta, la libertà di essere informati (non voglio dire di essere formati, poiché intendo attribuire all’intiero popolo italiano la capacità di formarsi autonomamente attraverso la libertà dell’informazione). Voi negate la libertà dell’informazione e rispondete come ha fatto ieri il pur valido collega Bressani, alla nostra eccezione di incostituzionalità, dimenticando che esiste la concorrenza come garanzia di libertà; dimenticando che, quando chiediamo che la libertà venga tutelata, non domandiamo che lo Stato rinunzi al servizio informativo e formativo della televisione e della radio.

Chiediamo soltanto che si dia modo ad altre fonti, in concorrenza tra loro e con lo Stato, di far sì che gli italiani abbiano informazioni complete. Chi darà ai cittadini di Roma, ad esempio, ai numerosi cittadini di Roma che non leggono quotidiani, o che non leggono certi quotidiani, o che non leggono il nostro quotidiano, le notizie che le ho riferito poco fa, signor ministro, circa grosse bombe esplose questa notte? E perché i cittadini di Roma non debbono poter essere informati anche di quelle notizie, salvo farsene un giudizio autonomo? Un giudizio che in taluni casi può esserci favorevole, e in molti altri casi forse ci contrasta. Quando, per altro, una forza di Governo arriva a negare, concettualmente, il principio della concorrenza, siamo in pieno regime, siamo anche in un regime oso dirlo poco intelligente. Ma come? Avete tentato di combatterci, di metterci all’indice, siete riusciti perché non dirlo? a crearci delle difficoltà, per lo meno propagandistiche, abbastanza notevoli, reiterando, con il sistema tipico del bourrage des crànes, il tema del nostro presunto totalitarismo e della nostra incapacità di inserirci in un quadro di libertà e di democrazia; avete, fino all’ossessione (l’ ho ricordato rispondendo al signor Presidente del Consiglio nel dibattito sulla fiducia), insistito sul vieto tema, ormai stinto, spento e ridicolo, del fascismo-antifascismo; ci avete appiccicato (o tentato di appiccicarci) addosso le qualifiche più ripugnanti proprio a questo riguardo: avete fatto tutto questo e ora ci date una etichetta, una bandiera, un gonfalone di libertà in ordine ad un problema che interessa tutti gli italiani perché è il pane della mensa di tutti gli italiani! Pertanto noi entreremo in tutte le case grazie a questo vostro atteggiamento, ogni giorno, ogni sera, ed ogni italiano, a cui ripugnerà la televisione di regime, troverà un solo riferimento nell’animo suo, nel suo sentimento e nelle sue speranze. Non ci sarà antifascismo che tenga, non ci saranno campagne al-larmistiche che tengano, e non ci sarà più la possibilità di dire che è inutile la posizione della destra nazionale. Se non ci fossimo noi in questo momento, chi sarebbe in quest’aula a difendere i diritti dei cittadini italiani? Chi sarebbe in quest’aula a promuovere una campagna, onorevole ministro, che stamane devo dare atto qualche solidarietà esterna ha cominciato a raccogliere? Era molto tempo che la stampa quotidiana non del tutto contraria alla destra non assumeva posizioni in favore di nostre tesi o di nostri atteggiamenti. Posso dire che erano mesi, forse debbo risalire al 1973 per ricordare una qualche campagna di stampa indipendente anche larvatamente favorevole alle tesi e alle posizioni da noi sostenute.

Stamane ci sono diversi quotidiani che prendono posizione o apertamente o meno apertamente in nostro favore; stamane il nostro ostruzionismo viene definito da taluni giornali indipendenti, con articoli di prima pagina, come un ostruzionismo positivo a difesa dei diritti delle libertà. Voi credete che questo conti poco? Che sia un errore di poco momento? Voi, che vi accingete a far venire in quest’aula un già traballante, anche se neonato come tale Presidente del Consiglio, a porre la questione di fiducia su questa imposizione, non pensate che questo sia un errore colossale? Voi che attraverso i vostri gruppi state convocando la Giunta per il regolamento per tentare assurdo tentativo, ma proprio per questo più sciocco ed iniquo di travolgere i regolamenti parlamentari, nel momento in cui il regime anche in questa aula vorrebbe imporre la sua legge sopraffattrice cosa che per la verità da trenta anni a questa parte è stata più volte annunciata, ma non è stata perpetrata non vi rendete conto che anche in quest’aula, dove non potete spegnere né bloccare la nostra voce, vi coprite di ridicolo e di infamia attraverso posizioni di questo genere? Perché lo fate? Per il motivo che ho detto poco fa: perché siamo all’attuazione del «compromesso storico», perché questa è la logica del «compromesso storico». Perché erano stolidi coloro tra voi, che io ritengo in buona fede e ritengo anche molto numerosi, i quali ritenevano che il «compromesso storico» in definitiva si potesse realizzare con poco costo e con molto profitto.

In fondo il loro ragionamento era che i comunisti avrebbero approvato le loro leggi, avrebbero regalato loro dei voti per coprire i vuoti che i «franchi tiratori», sempre più numerosi, determinavano nelle loro file; il tutto in cambio di due posti, secondo la spartizione della torta che abbiamo letto sui giornali. Due posti nel consiglio d’amministrazione, cioè un posto in meno dei socialisti, contro i sette dei democristiani, i due dei socialdemocratici, il posto assegnato ai liberali lasciamo andare questa faccenda che non è molto decorosa e il posto assegnato ai repubblicani. In pratica il ragionamento dei democristiani era che i comunisti li avrebbero aiutati a far passare le leggi e a bloccare l’ostruzionismo della destra nazionale perché essi democristiani soli non hanno la necessaria forza di presenza e di resistenza. In definitiva, il nuovo staff della RAI-TV assomiglierà come due gocce d’acqua al precedente staff, tranne qualche inserimento; del resto il dottor de Feo disse e documentò che i comunisti erano ben presenti e in gran numero. E non solo ci sono, ma ci mangiano! Per esempio, da tanto tempo attendiamo una risposta ad un intervento dell’onorevole Giuseppe Niccolai, il quale documentò in quest’aula che l’onorevole Terracini, «ninfa egeria» di tutti i regimi e di tutte le libertà, si fa pagare quando concede una intervista alla TV (son cose che forse agli altri colleghi non accadono). I comunisti, in definitiva, ci danno l’appoggio, lasciano passare la legge, dentro ci sono già, ci mangiano… Eh, no! I comunisti, fra i tanti vantaggi di minor conto, talora di poco conto, hanno un vantaggio, signor ministro, che è il vantaggio tipico dei partiti e dei regimi totalitari: mettono il bollo!

Dall’approvazione di questa legge, uscirete tutti bollati (ella in testa, onorevole ministro, come responsabile di questo settore) con un bel timbro. E sul timbro sarà scritto: totalitarismo. Ve lo sentirete dire, ve lo sentirete ripetere e, ahimè, ve lo sentirete dimostrare, purtroppo, negli anni e nei mesi che verranno, finché questo obbrobrio non sarà travolto. E ho sbagliato quando ho parlato di mesi e di anni, perché questo obbrobrio sarà abbastanza presto travolto, se torniamo al discorso di fondo che stavamo facendo, a proposito della marcia verso la libertà della Corte costituzionale. E allora che farete? Discriminerete la Corte costituzionale? Scioglierete la Corte costituzionale! Leggeremo sui muri: sciogliere il MSI-Destra nazionale, la DC che lo protegge e la Corte costituzionale che li sorregge. Oppure sarà omessa la DC e ci saranno soltanto MSI-Destra nazionale, come al solito, e la Corte costituzionale? Fa anche rima, signor ministro. Perché, se non arriverete a questo, il conflitto scoppierà abbastanza presto e la legge, qualora non riuscissimo a mandarla noi a rotoli con la nostra più che legittima battaglia, verrà mandata a rotoli tra qualche settimana o fra qualche mese, al primo incidente che sarà sollevato presso la Corte costituzionale. E ne sia certo: qualche cittadino che sollevi l’incidente ci sarà. E ci sarà non appena la legge sarà stata, eventualmente e sfortunatamente, varata. Vuole qualche argomento a questo riguardo, onorevole ministro? Ecco, mantengo quel che ho detto, non ripeterò una parola di quanto hanno detto ieri l’onorevole Roberti, l’onorevole Baghino e l’onorevole Guarra. Farò solo qualche considerazione aggiuntiva per chiarire questo punto, e cioè che la Corte costituzionale andrà innanzi, e non può ormai non andare innanzi.

Consideri qualche dato. Sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1960, di cui tanto si è parlato. Ieri, i nostri valorosi colleghi hanno accennato al fatto d’altra parte, ovvio che alla sentenza della Corte si giunse perché in precedenza era stata dichiarata non manifestamente infondata la relativa eccezione di illegittimità costituzionale. Vediamo un po’ come mai era stata dichiarata non manifestamente infondata, cioè donde si era partiti. Si era partiti, nel 1960, da un’ordinanza del Consiglio di Stato secondo cui il monopolio è di ostacolo all’attuazione dell’articolo 21 della Costituzione sotto il profilo qualitativo e quantitativo, perché lo Stato ed è il linguaggio del Consiglio di Stato (vi mettete contro, probabilmente, un po’ tutti gli organi istituzionali per lo meno quegli organi istituzionali che per forza mantengono ancora il loro prestigio e sono decisi, sembra, a difendere il quadro istituzionale democratico) perché lo Stato, dunque, dice testualmente il Consiglio di Stato «potrebbe escludere dalla diffusione in base a propri criteri ideologici una determinata corrente di pensiero». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che all’attenzione del Consiglio di Stato nel 1960, quando eravamo ancora lontani dalla logica di regime che purtroppo sta travolgendo le istituzioni era già chiaro che lo Stato italiano di questo dopoguerra tanto poco è Stato, nel senso democratico, pregnante e garantista del termine e tanto è legato all’esecutivo, al Governo, ai partiti politici, che potrebbe escludere, in base a propri criteri ideologici, una corrente di pensiero. Il problema di fondo è questo. Quando si dice che la riserva allo Stato in termini di monopolio, è legittima per difendere gli interessi della collettività in quanto tale, evidentemente si fa riferimento ad uno Stato che non ha propri criteri ideologici diversi da quelli che discendono da una corretta e, non dico unanime, ma molto ampia interpretazione del dettato costituzionale. Se invece lo Stato viene ritenuto dal Consiglio di Stato capace di far prevaricare propri criteri ideologici su correnti di pensiero legittimate nel paese, evidentemente esso degrada, secondo il giudizio del Consiglio di Stato, a parte: non è più garanzia; necessitano, anzi, garanzie contro quella come contro qualsiasi altra parte.

A questo punto il monopolio cade, cade nella sua legittimazione di principio, non ha più senso. La Corte costituzionale neppure nelle sentenze n. 225 e n. 229 è giunta ancora ad un siffatto livello di chiarezza, ma non può non arrivarci, perché queste cose montano. Come vede, siamo ancora al 1960, ai precedenti di queste ultime sentenze; è il Consiglio di Stato che parla, un organo molto meno autonomo, molto più condizionato di quel che può essere una Corte costituzionale nel quadro delle sue garanzie e delle sue possibilità; però si afferma già questo concetto. Voi non avete il diritto perché non ne avete la capacità di parlare in nome dello Stato e come Stato: siete una parte, e tanto più lo diventate quando vi scoprite poi come Stato che discrimina, e quindi come regime. Sa, onorevole ministro, come si difese nel 1960 l’avvocatura dello Stato, dello Stato come abbiamo chiarito esso era, e come purtroppo, degradando e peggiorando, continua ad essere? L’avvocatura dello Stato, in contrasto, sostenne che la inidoneità del mezzo televisivo ad assicurare la parità dei diritti di tutti i cittadini porta a convincere che la TV non rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 21 della Costituzione. L’avvocatura dello Stato, di questo Stato (ed eravamo al 1960, ripeto), trovava cioè questa sola difesa: l’articolo 21 non è attuabile per quel che riguarda la televisione, il mezzo televisivo, e pertanto la libertà dell’informazione, l’obiet-tività dell’informazione, la pienezza dell’informazione non possono essere garantite a quei milioni e milioni di cittadini i quali, come unico veicolo di informazione, hanno per l’appunto, come stato di necessità e per imperio di regime la radiotelevisione di Stato. Siamo nel 1960, ma le tesi, una volta affermate, hanno una loro logica, un loro determinismo, montano, portano a delle conseguenze: siamo, signor ministro, ad un dibattito globale, come piace affermare all’onorevole Ugo La Malfa. Solo che l’onorevole La Malfa sbaglia: il dibattito globale non è e non può essere quello pure importantissimo socio-economico; il dibattito globale è quello sulla libertà. Questo è il nodo da sciogliere, è la questione di fondo; ecco, ripeto, la ragione del nostro impegno in questo caso. La Corte che cosa ne dedusse nel 1960? Validamente, ma timidamente, essa si limitò ad affermare l’esigenza di leggi destinate ad assicurare imparzialità ed obiettività. Timidamente. Però quando la Corte Costituzionale, già nel 1960, affermava l’esigenza di leggi atte ad assicurare imparzialità ed obiettività, che cosa voleva rilevare, non solo in ordine all’articolo 43, ma anche e soprattutto all’articolo 21 della Costituzione? Non solo che lo Stato, in quanto tale, non è garante di imparzialità ed obiettività, ma che contro lo Stato, così come esso è, in quanto tale, occorrono le garanzie, per legge, di imparzialità e di obiettività. Principio molto importante, che ha lavorato nel tempo e attraverso il quale siamo arrivati alle nuove sentenze.

A proposito delle sentenze n. 225 e n. 226, l’onorevole Roberti ieri ha molto validamente sostenuto che la Corte costituzionale è caduta in un imbroglio in quanto si è affidata ad una perizia di parte, alla perizia redatta a cura del Ministero che ella, senatore Orlando, ha l’onore di dirigere, quando altri ne era il titolare. Ho letto su un giornale, a questo proposito, uno spiritoso commento: chiedere una perizia di quel genere a quell’organo ministeriale è la stessa cosa che chiedere all’acquaiolo se l’acqua è fresca.

Come, infatti, poteva rispondere quell’organo ministeriale, se non nella guisa in cui ha risposto? Il che mi induce e ne chiedo scusa all’onorevole Roberti a ritenere che la Corte costituzionale si sia un po’ lasciata imbrogliare, si sia adagiata nell’imbroglio, perché non mi risulta che quando si tratta di discutere una causa importante il giudice si affidi ad una perizia di parte; penso che il giudice debba piuttosto chiedere una perizia d’ufficio. Non sono avvocato, ma ho l’impressione che si usi così. Altrimenti, tanto valeva, da parte della Corte costituzionale, accettare per detto il parere dell’avvocatura dello Stato, la quale si presenta almeno credo ai dibattimenti di fronte alla Corte per sostenere i suoi avvisi, ma non con la presunzione di farla prevalere solo perché li ha affermati lo Stato. Lo Stato può portare, a convalida delle sue tesi, una perizia, ma non è che quella perizia debba risultare l’elemento determinante e decisivo: è molto strano che la Corte costituzionale non abbia chiesto una controperizia. Cosa che, del resto sarebbe stata molto facile, perché, se per avventura all’interno dei confini del nostro arretrato e progreditissimo paese non si fossero trovati dei tecnici o degli esperti, indubbiamente molti ne esistono in ogni parte del mondo, così come in ogni parte del mondo oltre agli esperti esistono le esperienze. Come si fa a sostenere che l’Italia non dispone di un certo numero di bande (credo che si chiamino così), se ogni paese al mondo e anche paesi molto meno importanti e qualificati (o squalificati) del nostro le possiede, le utilizza, le fa utilizzare? Ciò non significa che dobbiamo accettare i sistemi o i moduli di quei paesi; ciò non significa che quei paesi abbiano ragione e non torto: può anche darsi che, pur disponendo degli stessi strumenti, noi si ritenga, per il bene del nostro paese, di utilizzarli diversamente. Ma non è assolutamente accettabile che nel 1974-1975 una commissione ministeriale ci venga a raccontare che in Italia non è possibile disporre di bande di frequenza se non in numero talmente limitato da dar luogo per forza a degli oligopoli di potere (poi vorrei pur discutere su questa faccenda degli oligopoli, che ci venne raccontata per la prima volta dall’onorevole Riccardo Lombardi in quest’aula ai tempi della non mai abbastanza lodata nazionalizzazione dell’energia elettrica). Ne abbiamo tante, di bande! Proprio queste ci mancano? Costituitele !

Mettetevi d’accordo con l’ultrasinistra! Siamo pieni di bande e banditi, ma ci mancano proprio le bande della libertà. Bande della sovversione e della violenza ognuno le ha, in questo regime, ma quelle della libertà no! Oppure «ce ne sono poche». Vorrei sapere che cosa significa. Ce ne sono due, tre o quattro? Poche in rapporto a che? Si vorrebbe una banda per ogni cittadino? Per ogni utente? Per ogni provincia? Per ogni regione? Per ogni città? Oppure se ne vuole una per ogni organizzazione sindacale, naturalmente facente parte della «triplice»? Oppure una per ogni partito? Oppure la Democrazia cristiana vorrebbe una banda per ognuna delle sue correnti? Oppure il Partito socialista vuole la banda De Martino, oltre alla «banda Mancini», che opera in Calabria da tanto tempo con così eccelsi risultati? Spiegatemi che cosa si vuole e facciamola finita, come ho detto prima, con questa storia dell’oligopolio. Se per avventura si chiarisse che è possibile dare luogo a due, tre, quattro, cinque televisioni libere in concorrenza con la televisione statale, di cui nessuno, meno di tutti noi, negherebbe la legittimità, perché gli italiani dovrebbero essere condannati a vedere il Telegiornale democristiano o quello socialista? Non potrebbero vedere il giornale televisivo diffuso da un gruppo qualsiasi? Dite che si tratterebbe di un oligopolio. E voi che cosa siete? Non siete oligopoli? Non siete oligopoli consociati temporaneamente, consorziati? Il Governo della Repubblica non è consorzio di oligopoli? Che cos’altro è? E che differenza fa? E perché non collaudare questi oligopoli nella ricerca della verità in concorrenza con altri oligopoli? Diceva l’onorevole Bressani: ma come farebbero i contadini e gli abitanti delle campagne e delle piccole città (perché gli oligopoli nascerebbero nelle grandi città)? E quando avete voluto costituire consorzi, Federconsorzi, Federterra per consociare gli interessi dei contadini o, per dir meglio, per sovrapporre leciti e illeciti interessi politici e amministrativi vostri e di partito a quelli del mondo dell’agricoltura, come vi siete comportati? Non facciamo ridere! E siccome argomenti risibili non reggono, è evidente che l’imbroglio è passeggero. Le perizie arriveranno alla Corte costituzionale. Potrei dire che le nuove perizie stanno già arrivando. La Corte costituzionale (alla quale mi sono permesso di fare un addebito, ma alla quale ho riconosciuto il coraggio di una marcia indubbia verso la libertà) da un lato si è lasciata bloccare, ma dall’altro ha colto l’occasione proprio delle perizie, cioè dello stato del progresso tecnologico, per dire: siccome il progresso tecnologico si è affermato per quanto riguarda la TV-cavo e i ripetitori esteri, in questi settori non vi può essere monopolio. Anzi la Corte costituzionale ha detto qualche cosa di più a proposito dei ripetitori: niente autarchia delle fonti di informazione. Come la mettiamo? Io ho sempre saputo, onorevole ministro, che l’autarchia verso l’esterno è il riflesso del totalitarismo all’interno. Mi sembra di non sbagliare: non può vivere l’ una se non vive l’altro. Anche in termini di politica economica, come potrebbe un regime adottare una politica autarchica verso l’esterno se non avesse organizzato monopolisticamente e totalitariamente il sistema economico all’interno? Un regime che all’interno sia di libera concorrenza non può determinare, per definizione, l’autarchia verso l’esterno. E quando la Corte costituzionale afferma che non vi può essere autarchia delle fonti di informazione, che cosa vi dice? Vi dice che occorre perseguire la libertà delle fonti di informazione. La Corte costituzionale si blocca, per ora, o, per dir meglio, si lascia bloccare, perché ì vostri tecnici di parte le hanno detto che non ci sono bande. Ma siccome i vostri tecnici di parte non hanno potuto dirle che non si possono installare i ripetitori delle trasmissioni straniere, la Corte costituzionale ha detto che in questo settore non vi può essere autarchia. E non appena i tecnici, non di parte, ma d’ufficio (quelli seri), avranno detto che ci sono le bande, o che possono esserci, la Corte costituzionale non potrà non dirvi ex ore suo: niente autarchia delle fonti di informazione verso l’esterno, libertà delle fonti di informazione all’interno. Tra l’altro, ci metteremmo nella condizione, per esempio, di sentire la televisione francese che comunica agli italiani che il Movimento sociale italiano-Destra nazionale ha tenuto a Roma una grande manifestazione. Io penso di dover ricorrere, tra qualche mese, a televisioni straniere.

Io non ho, come tanti tra voi vantano di aver avuto, l’animo del fuoruscito. Io credo che le battaglie si debbano combattere nel proprio paese. E se qualche cosa caratterizza gli uomini tutti gli uomini della destra nazionale, questi miei cari amici, è proprio questa volontà indiscutibile, di combattere qui le più dure battaglie, di farci discriminare qui, di farci combattere qui, di reagire con tutti i mezzi che la legge ci consente, ma non di andarcene. Ma, pur non avendo l’animo del fuoruscito, visto che le televisioni straniere, non so se lo sappiate (soprattutto alcune come la francese, le tedesche, l’olandese, la belga, la norvegese, la svedese, l’inglese, le svizzere), richiedono ogni 15-20 giorni interviste ai dirigenti del nostro partito, noi avremo l’onore di fare degli accordi e gli italiani avranno la mortificazione siete voi che riceverete lo schiaffo di sapere una parte della verità e delle informazioni attraverso le televisioni straniere, le quali, fra l’altro, essendo a colori, essendo probabilmente meno «mangerecce» e quindi meglio fatte, essendo meno noiose, presentando dei volti cui gli italiani, almeno per qualche mese, non si saranno così maliziosamente assuefatti da domandarsi come ci stiamo domandando se siano i veri volti oppure le imitazioni di Noschese, costituiranno un ottimo veicolo per la libertà d’informazione degli italiani all’interno del nostro paese.

Sono queste le situazioni alle quali vi esponete attraverso una riforma di questo genere. La Corte costituzionale, ripeto, è stata chiarissima a questo riguardo circa la libertà della televisione via cavo. Avete cercato di porre limitazioni, di frenare in qualsiasi modo questo processo, ma sapete benissimo che esso non può essere frenato perché è legato a grossi interessi. Qualcuno tra di voi ha avuto il coraggio di dire che si trattava di impianti installati a scopo di lucro: ma voi questo servizio lo prestate forse gratuitamente? Voi costate molti soldi agli italiani. Io ho i dati relativi ai costi orari della televisione italiana in rapporto a quella svizzera. E siete forse così costosi perché i vostri collaboratori si fanno pagare cari? Ma no, io non indulgo a queste argomentazioni scandalistiche che hanno poco interesse. Siete costosi perché avete bisogno di numerose équipes di collaboratori, e perché, non essendo d’accordo tra di voi, costituite un regime che non ha neppure il vantaggio o il pregio dei regimi seri, che è quello dell’unità di comando. Voi avete l’unità di imbroglio nella varietà dei comandi, dei sottocomandi, delle «cosche», delle «mafie». E tutto questo costa caro. Avete ridotto la televisione ad una grande «mafia» di Stato, ad una «cosca» dì Stato con i bosses che sparano ne parleremo tra poco palle infuocate l’uno contro l’altro. Naturalmente, tutto questo costa caro al popolo lavoratore italiano.

Ma la Corte costituzionale, andando avanti verso la libertà, ha fatto qualche cosa sulla quale non so se ella, onorevole ministro, abbia meditato. La Corte costituzionale è stata concepita dall’Assemblea Costituente in guisa tale da poter cassare una legge, ma non da poter riempire gli eventuali vuoti. Consapevole di questo suo stato di minorazione rispetto al Parlamento, la Corte costituzionale di solito, in passato, si è limitata, cassando delle leggi o facendo cadere dei principi, a dare dei generici e sfumati consigli e indirizzi al legislatore. Questo, infatti, la Corte stessa ha fatto nel 1960 (sentenza n. 59), in ordine alla riforma della RAITV. Questa volta la Corte costituzionale non si è fermata a questo, ma ha voluto stabilire, con le sentenze n. 225 e n. 226, non solo dei principi e degli indirizzi, ma dei limiti e delle direttive precise cui avete cercato, in parte riuscendovi ed in parte no, di sfuggire. La Corte costituzionale, questa volta, non si è limitata a dichiarare illegittime le norme finora vigenti, ha precisato che le nuove norme debbono attenersi ai principi da essa indicati. Ed ha fatto qualche cosa di più: fra i principi ne ha indicato uno (e questa è l’unica cosa che io ripeto di quanto ha detto l’onorevole Roberti, perché mi interessa più di ogni altra) affermando che la TV deve essere aperta imparzialmente ai gruppi nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società. Mi pare che questa sia una indicazione tassativa; e qui casca l’asino, signor ministro, perché una eccezione di incostituzionalità relativa a questo preciso indirizzo sarà certamente sollevata, e la legge farà appena a tempo ad essere varata che ci troverete a dover dimostrare l’impossibile, cioè di avere ottemperato a questa indicazione tassativa, proprio nel momento in cui l’avete spudoratamente, sfacciatamente violata. E non solo la violate nella legge, ma andate oltre, o almeno qualcuno di voi va oltre. Leggetevi il comunicato del gruppo socialista!

Il gruppo socialista poteva benissimo, nel quadro di discussioni o di dibattiti interni, come spesso accade, assumere questa o quella posizione, dire «no» a determinate profferte o richieste che venivano da altre parti della maggioranza. Ma quando il gruppo socialista, relativamente ad un tentativo di attenuare la discriminazione sancita in questa riforma, dice ufficialmente di no e lo dice durante il dibattito parlamentare, e ritiene di doverlo pubblicare in un comunicato, ebbene, questo per un giudice costituzionale rappresenta una occasione anche troppo facile per smascherare non soltanto i vizi di incostituzionalità, ma le colpe, il dolo. Qui c’è la manifesta volontà di truffare, insieme con la Corte costituzionale, le libertà degli italiani. Infine la Corte costituzionale questa volta ha indicato i fini cito testualmente perché «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». Diametralmente opposti!

Quando, pertanto, all’inizio di questo mio intervento, mi sono permesso di rilevare che vi è un indirizzo di libertà, un indirizzo innovatore, un indirizzo di interpretazione aperta della Costituzione che viene portato avanti da noi, essendo stato portato molto coraggiosamente e perspicuamente avanti dalla Corte costituzionale, e che vi è un contrastante indirizzo di regime, mi riferivo, con esattezza, a una affermazione della Corte costituzionale la quale, ancora prima di conoscere quel che sarebbe accaduto in sede di regime, ancora prima di conoscere quel che avreste fatto e le conseguenze che avreste dedotto dalle sue sentenze n. 225 e n. 226, ha ammonito (è una specie di lapide): «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». A questo punto, occupiamoci per il momento delle vostre posizioni attuali, riferendoci alla relazione della maggioranza.

Io ho molta simpatia per l’onorevole Bubbico, che ho sempre considerato un uomo d’ordine. Conosco meno l’onorevole Marzotto Caotorta, ma penso di non offendere la sensibilità e il garbo né dell’uno né dell’altro non è nella mia intenzione se mi permetto di dedicare loro una battuta (prendetela, per favore, come una battuta). Ho il Bubbico… che sia un po’ Caotorta questa vostra relazione della maggioranza. E il Bubbico mi viene,… il dubbio mi viene quando attentamente, come è mio dovere e come è mio piacere, io la leggo: perché vedo le firme di Bubbico e di Marzotto Caotorta, ma io ci sento il Fracanzani, altro collega nei riguardi del Quale, naturalmente, ho la massima simpatia e deferenza. Ci sento il Fracanzani, perché è un uomo d’ordine come l’onorevole Bubbico e un personaggio come l’onorevole Marzotto Caotorta (un uomo con due cognomi,per giunta), difficilmente senza una

ispirazione fracanzanea, o granellesca, non so, scriverebbero cose di questo genere.Vi cito (e ciò sia detto fuori di un mal concepito moralismo): «In nome di un corretto rapporto tra potere politico e azienda televisiva, rapporto da non considerarsi sempre e comunque elemento di corruzione e di corrompimento, da ricostruire responsabilmente» vi prego di fare attenzione «nella pratica quotidiana, fuori degli interessi autogeneratisi dal sistema dei partiti». Questa frase è meravigliosa. Non so se ci si riferisca agli autogeneratori di corrente, che possono essere necessari in caso di uno sciopero dell’ENEL. È poi da notare: il sistema, gli interessi, «come spinta» (ecco Fracanzani: quando trovo la parola «spinta», io penso sempre ad una ispirazione democristiana di sinistra) «ad una maggiore maturazione dei “quadri”, al di là di un asettico aziendalismo». Questo è il tocco finale: «asettico aziendalismo». Questo asettico aziendalismo, nel quadro degli interessi autogeneratisi, costituisce veramente un quadro di ambiente democristiano 1974.

Non desidero tuttavia cavarmela in questo modo. Voglio rilevare e non mi sarà difficile dimostrarlo che la risposta che questa maggioranza ha dato alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale dimostra che «l’arco costituzionale» volta le spalle alla Corte costituzionale. È questa una tesi che, espressa a freddo e a vuoto, potrebbe anche sembrare generica o addirittura provocatoria, mentre si tratta di una tesi che, nel quadro delle considerazioni che sto svolgendo, mi sembra assolutamente valida. Ora, la maggioranza ha risposto alle sentenze della Corte costituzionale con un decreto-legge, prendendo lo spunto dallo stato di necessità e dalle condizioni forzate che io stesso poco fa ho riconosciuto. Fin qui poco da obiettare, a costo di essere censurato dai più scrupolosi costituzionalisti. Ma questo è soltanto il modo della risposta. Tuttavia quando ci troviamo davanti ad una sentenza della Corte costituzionale (di molti mesi fa) la quale costituisce un impegno in termini di libertà, non possiamo poi prescinderne anche nella sostanza.

Vediamo invece qualche tratto non umoristico della relazione della maggioranza. Dicono i relatori, a pagina 5, che «il lungo, complesso cammino della riforma della RAI-TV, opportunamente collegata con la regolamentazione della TV-cavo locale e dei ripetitori stranieri, è contraddistinto da un parallelo impegno della Corte costituzionale». Se «parallelo» è un termine da voi usato una volta tanto in senso matematico-geometrico, allora voi avete perfettamente ragione; ma se, per avventura, avete scritto questa parola nel senso ormai invalso dal 1960-61 nella politica italiana, nel senso cioè di parallele che si incontrano, allora, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta, la Corte costituzionale ha marciato in un senso e voi in quello opposto. C’è ancora qualche altra cosa interessante nella vostra relazione. Voi parlate e ne avete tutto il diritto delle opposizioni che si sono manifestate contro questa riforma, e così vi esprimete a pagina 6: «Sembra quasi che una certa sfiducia nel sistema dei partiti unisse forze imprenditoriali, movimenti extraparlamentari, partiti di destra nel tentativo estremo di “liberalizzare” la televisione». Insomma, voi ritenete che il tentativo di liberalizzare (anche se la scrivete tra virgolette, la parola ha un suo significato non oppugnabile) sia un tentativo colpevole, nel quale si sono associati dei complici, che voi indicate nelle forze imprenditoriali, nei gruppi extraparlamentari e nei partiti di destra. Io non ho il diritto di chiedere una spiegazione, che vi deve chiedere invece l’onorevole Malagodi. Tra i partiti di destra questa volta avete messo anche il suo! Penso che il Partito liberale dovrà tener conto in questa fase, nel momento in cui entra nel consiglio d’amministrazione, di questo vostro giudizio che lo accomuna a noi (passi: ne siamo onorati), che lo accomuna a gruppi imprenditoriali e a movimenti extraparlamentari. Penso che alludiate a movimenti extraparlamentari di sinistra, perché io non conosco movimenti extraparlamentari dì destra che si occupino di questi problemi. Mandano messaggi, e non credo che facciano gran che di diverso. Ho chiesto lo scioglimento di tutti i movimenti extraparlamentari, e almeno in questo penso di essere inteso con semplicità e con chiarezza! Secondo i relatori di questa legge di regime, di questa importantissima riforma, quindi di un testo che ha un’importanza non dico storica, ma parlamentare di primo piano, vi è un’alleanza fra gruppi imprenditoriali (chi volete intendere: Agnelli, Cefis, Girotti, Marzotto, lo scià di Persia?), i movimenti extraparlamentari, la destra nazionale, il Partito liberale) per liberalizzare il servizio radiotelevisivo. Vorrei sapere per quale ragione dovrebbero esservi alleanze di questo genere, quando si tratta evidentemente di un dibattito che interessa tutti i cittadini italiani, tra i quali potranno anche esservi coloro che preferiscono il monopolio di Stato, ma tra i quali sono assai numerosi coloro che gradirebbero avere in casa propria una scelta tra diverse reti televisive, tra quella di Stato e quelle liberalizzate o libere.

Si aggiunge: «Il mantenimento del monopolio in una società come la nostra non appare certo come strumento di coercizione nei confronti delle minoranze, ma di tutela e di garanzia per la libertà di espressione di tutti, specie dinanzi ad un quadro economico e sociale ove le soluzioni alternative non potrebbero necessariamente emergere e coagularsi, se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato». Qui siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Questa è una interpretazione marxista non della società italiana come essa è (perché i marxisti, che sono normalmente seri, anche se arcaici forse seri perché arcaici ne darebbero una interpretazione più approfondita, meno abborracciata), ma è una interpretazione marxista per quanto attiene alla concezione dei rapporti sociali, economici, politici e democratici in una qualsiasi società! Che significa affermare che nell’attuale società italiana le soluzioni alternative, cioè televisioni in concorrenza, non potrebbero emergere e coagularsi se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato? Il solito Fracanzani ce lo dovrebbe spiegare! Che cosa significa? Che per costruire impianti televisivi occorrerebbero concentrazioni capitalistiche? Forse che anche la vostra non è una concentrazione capitalistica, con i capitali dei cittadini? Nel momento in cui si sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera e soprattutto sì sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera in ordine ai problemi della informazione e della formazione culturale, siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Siamo fuori di una qualsiasi riforma della RAI-TV che in un regime democratico possa essere discussa, accettata, respinta, gradita o no! Tocchiamo un problema che è persino più grave del grave problema della discriminazione, che ci interessa, che interessa milioni di cittadini fuori di qui e ancora di più ne interesserà.

Forse l’avete scritta con la mano sinistra questa relazione. Non voglio recarvi offesa, poiché forse l’avete scritta senza rendervi conto di quello che scrivevate. Ve ne voglio dare la prova attraverso un altro passo della relazione, dove si parla della libertà di manifestazione del pensiero affermando: «In questa prospettiva si è sostenuto nella più recente dottrina che i termini del problema vanno invertiti, attribuendo rilevanza prevalente alla collettività nella acquisizione delle notizie, con conseguente funzionalizzazione della situazione dei soggetti che provvedono a diffondere le medesime». Si afferma, quindi, che l’acquisizione delle notizie e la loro diffusione rappresentano un interesse della collettività e funzionalizzano, al servizio della collettività, i soggetti che provvedono a diffonderle. Si tratta dei giornalisti della RAI-TV. In tal senso vengono totalmente ignorati gli oggetti non chiamiamoli soggetti che hanno diritto alla ricezione e anche alla presentazione delle informazioni stesse.

A questo punto, non siamo solo al marxismo, ma siamo a qualcosa di più. Voi, infatti, avete già realizzato attraverso passi simili non so se ve ne siete resi conto un marxismo che si spinge più in là di quello attuato in alcune parti del mondo. Attraverso alcun nostre frasi voi siete arrivati a quello Stato perfetto, non più esistente, vaticinato da Lenin nei suoi testi; siete al marxismo stalinista postsovietico; siete arrivati ad una società in cui non esiste il senso della collettività e nella quale i destinatari delle informazioni non sono nemmeno ipotizzati come oggetti. Da parte vostra non si è discusso nemmeno se i cittadini abbiano il diritto di essere informati…. “

BUBBICO: “Mi riservo di risponderle dopo, in sede di replica, onorevole Almirante.”

ALMIRANTE: “Ne sono lieto, onorevole Bubbico. Siamo qui proprio per stimolare i chiarimenti. Tuttavia ad una lettura attenta e deferente dei vostri testi infatti io non ho voluto parlare senza tenere conto delle vostre tesi mi sono trovato, non senza sorpresa, di fronte a tesi che vanno oltre quello che perfino un relatore comunista avrebbe avanzato per difendere questo decreto-legge. Infatti non mi sembra assolutamente necessario abolire la categoria dei cittadini anche come oggetti. Non è pensabile quanto voi sostenete qui: che cioè quello che voi affermate è sostenuto anche dalla più recente dottrina. Spero, onorevole Bubbico, che ella avrà la cortesia di citare in sede di replica i testi cui vi riferite. Saremo lieti di conoscere qual è la «più recente dottrina» che stabilisce che le parti si sono invertite e che è la collettività stessa che deve captare e trasmettere le informazioni. Tutto finisce, quindi, in questa funzionalità della collettività che, attraverso i suoi soggetti, trasmette le informazioni ad una massa inerte, addirittura inesistente di cittadini.

In Russia vi è il dissenso: vi è per essere mandato in Siberia, e vi è anche per far filtrare la sua voce. Quindi neppure nell’Unione Sovietica, neppure in Cina tutto è funzionalizzato fino al punto da negare la funzione del cittadino, il quale deve essere informato, formato, deve poter prendere la parola, essere rappresentato e avere quel diritto di accesso che a parole voi concedete attraverso questa legge, ma poi negate nei fatti a parti cospicue della rappresentanza politica e sociale del nostro paese. Infine (non desidero ripetere quanto detto ieri) alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale avete risposto, mediante questo decreto-legge, con posizioni come quelle che ora ho indicato, con norme di legge che rappresentano un passo indietro rispetto al disegno di legge Togni. L’onorevole Roberti lo ha dimostrato: nella nostra relazione di minoranza, per la quale ringrazio l’amico onorevole Baghino, si attesta che dopo le due succitate sentenze la maggioranza ha ripreso per intero il disegno di legge Togni che precedeva quelle sentenze; e, quando lo ha modificato in ordine ai problemi della libertà, lo ha modificato in peggio.

Quando, all’inizio di questo mio intervento, ho affermato che l’«arco costituzionale» ha voltato le spalle alla Corte costituzionale, mi sono riferito non soltanto a posizioni di principio, ma anche a posizione legislative di cui vi siete assunta la responsabilità. Ciò premesso, sono costretto a questo punto a pronunciare una brutta parola non inventata da noi: lottizzazione. Da molti anni si parla di lottizzazione a proposito della RAI-TV. Il fatto che questo vocabolo sia stato adeguato alla realtà dell’informazione radiotelevisiva presenta contenuti morali che indubbiamente non vi sfuggono. Vogliamo rapidamente rinverdire la storia della lottizzazione, per renderci conto delle ragioni e dei modi con cui si è giunti al punto in cui siamo? Non è difficile. Per cominciare correttamente, mi riferisco all’intervento svolto dall’onorevole Delfino il 28 maggio 1969, nel corso di uno dei tanti dibattiti sulla riforma della RAI-TV. Il nostro collega fece un’osservazione obiettiva cui nessuno ebbe modo di replicare: se esaminate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle poste) e l’ente radiofonico, relativamente al 1952, e consultate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle comunicazioni) e l’EIAR del 1927, vi accorgete che le due convenzioni si assomigliano in maniera impressionante. La storia, ecco, è cominciata con la proroga di una norma fascista dal 1952 al 1972, secondo la convenzione, e dal 1972 al 1974-75, secondo ulteriori provvedimenti. Io non me ne impressiono, anche se taluno se ne è impressionato. Qualcuno si è impressionato quando il procuratore generale della Cassazione, dottor Colli, giorni fa, ha rilevato l’identica cosa a proposito dei codici in vigore da circa trent’anni a questa parte, salvo alcune modificazioni. È interessante rilevare che anche la storia della convenzione tra lo Stato e l’ente radiofonico, la storia del monopolio e della concezione monopolistica, è cominciata da dove ho detto, ed è continuata tranquillamente nel corso di un trentennio. Non mi scandalizzo, e non me ne diverto: tutt’altro. Infatti non è divertente assistere a simili contraffazioni, denunciare simili manchevolezze, nel quadro di una polemica che vede la nostra parte accusata da voi di tenere perennemente gli occhi rivolti al passato. Sono costretto a rivolgere gli occhi al passato proprio per la vostra incapacità di guardare nel presente e verso l’avvenire. Ancora una volta combattiamo battaglie di avanguardia mentre voi continuate a combattere squallide battaglie di retroguardia. La storia è cominciata così.

E come è continuata? È continuata nel solito modo, cioè inserendo nella persistente logica di norme di un regime totalitario i comodi di un regime democratico. Ecco, il regime totalitario ha mantenuto, anche a questo riguardo, le sue strutture iniziali; per 22 anni una convenzione fascista è rimasta in piedi e ha regolato i rapporti delicatissimi fra lo Stato ed i mezzi di informazione radiotelevisivi. Però, in questo giaciglio, non si sono accomodati, evidentemente, i gerarchi del vecchio regime, bensì i gerarchi, i manutengoli, i clienti, i prosseneti del nuovo regime. Questa è la realtà! La lottizzazione è questa: la torta è rimasta lì, l’avete tenuta in frigorifero voi che parlate di frigorifero nei nostri riguardi e ogni tanto ne avete tirato fuori una fettina per aggiudicarla a questo o a quel cliente. Niente di strano, per carità, niente di scandaloso, tranne il fatto che di volta in volta, a seconda del costituirsi o del dissolversi dell’una o dell’altra maggioranza, sono diventati «Catoni censori» i profittatori di ieri e sono diventati profittatori di oggi i «Catoni censori» di ieri. Non credo di essere indiscreto se dico che, prima dell’inizio di questa seduta, ho avuto spero di non nuocergli un breve e cordiale colloquio con un parlamentare comunista di tutto rilievo (ora non è più deputato: lo hanno punito), l’onorevole Lajolo, che io ricordo come uno dei primi e più intelligenti colleghi che si siano occupati di questi problemi quando entrambi facevamo parte della Commissione interni di questo ramo del Parlamento (poi passammo insieme alla Commissione affari costituzionali). Fra le mie carte ho trovato un intervento dell’onorevole Lajolo del 28 maggio 1969 nel quale egli malinconicamente diceva: «Ebbene, il Partito repubblicano ha fatto queste due proposte, valide, nell’unico momento in cui è stato lontano dal Governo. Quando si sentiva all’opposizione ha presentato la proposta di legge e ha chiesto l’inchiesta parlamentare, ma non appena è andato al Governo ha imitato il Partito socialista non dando più seguito a quelle proposte, che sono scomparse dalla circolazione». Ebbene sono passati quasi sei anni è scomparso dalla circolazione, come parlamentare, l’onorevole Lajolo, il Partito comunista è entrato praticamente nella maggioranza e tiene bordone al Partito repubblicano che è entrato nel Governo e agli altri partiti che nel Governo o nella maggioranza sono entrati o sono rimasti. Fra qualche settimana, o qualche mese, qualcuno dei soci di Governo si distaccherà, ricominceranno le geremiadi delle denunce e degli scandali delle lottizzazioni, vi riunirete e concederete qualche altro posticino. Qualcuno dell’onorevole Paolicchi non si parla più annuncerà clamorose dimissioni (che non darà, perché fino ad oggi non abbiamo avuto seguito al riguardo), dimissioni relative, fra l’altro, alla SIPRA (un ente ancor più «mangereccio» di quanto non sia la stessa RAI-TV), e poi, dopo qualche articoletto o corsivetto sui giornali, ci sarà qualche promozione a sottosegretario o a ministro, visto che lo abbiamo udito ieri in quest’aula un sottosegretario può, anche come funzionario di Governo, continuare ad assolvere le sue funzioni pur se la Camera ha concesso, per peculato, l’autorizzazione a procedere a suo carico..

Questa della polemica sulle lottizzazioni è una storia malinconica: ed io ne ho ricavato soltanto qualche fioretto, qualche piccolo stralcio, tanto per distendere, a modo mio, l’ atmosfera.Ad esempio,io ebbi l’onore di conoscere, proprio alla televisione (mi pare due anni fa),una persona,divenuta poi parlamentare repubblicano, l’ onorevole Bogi, il quale forse, fra tutti i parlamentari, è quello che ha dimostrato maggiore interesse per la riforma al nostro esame. Egli se ne è occupato con indubbia competenza, per aver fatto parte, per fare tuttora parte, dello staff dirigenziale della RAI-TV.Anche l’ onorevole Bogi, in un recente passato si è concesso qualche licenza.Per esempio, quando ha preso parte ad un convegno del Partito comunista a Roma- marzo 1973- sui problemi della riforma della RAI-TV, ed ai comunisti (state a sentire, onorevoli collegi,perché è veramente un pezzo impagabile e rilevante) ha detto: Stiamo attenti tutti!La Democrazia cristiana ora, formalmente, è sulla posizione di difesa del privilegio di potere riservato all’ esecutivo. E’ una posizione battuta. La Democrazia cristiana ha, secondo me, un secondo disegno: ed è quello della caduta sul ParlamentoÖCioè, diceva Bogi nel marzo del 1973, la Democrazia cristiana farà finta di togliere all’ esecutivo i controlli sulla RAI- TV per portali al Parlamento, rientrando così dalla finestra poiché gli uomini sono sempre quelli, perché di partiti si tratta, perché quello è il partito che conta, perché è il partito che comanda, tanto a livello di Parlamento quanto di esecutivo. State attenti, dunque, diceva l’onorevole Bogi: la Democrazia cristiana ha un secondo disegno, quello della caduta sul Parlamento! State accorti, amici comunisti, egli ripeteva. (Sai come ridevano tra di loro i comunisti, quando l’onorevole Bogi diceva di stare attenti alla Democrazia cristiana, di stare attenti che il loro progetto non fosse magari quello della Democrazia cristiana? Ma guarda!) «…perché un Parlamento continuo nella lettura che abbia il ruolo di tutela verso il servizio radiotelevisivo, che eserciti il doppio ruolo di direttiva e di vigilanza, non sia poi in definitiva l’obiettivo di un grande partito, quantitativamente presente in maniera pesante nel paese, che è la Democrazia cristiana. Stiamo attenti, cioè, ad impostare una lotta che la DC non possa accettare in partenza; perché, se può accettare la spartizione sulla base dei tre quinti» ma guarda, l’onorevole Bogi sapeva già dei tre quinti…. «o sulla ripartizione dei seggi regionali», sapeva anche questo nel marzo del 1973 «allora la nostra battaglia, al di là del clamore, è una battaglia perduta». Onorevoli colleghi, nei fatti, voi siete destinati a fare i comprimari. Il gioco grosso è quello tra democristiani e comunisti. È evidente! Salvo a vedere prognosi riservata chi soccomberà. Salvo, evidentemente, a rendersi conto delle future relazioni ufficiali «fracanzanee» che ci troveremo dinanzi. Questo, però, è il gioco.

Ai liberali, che ancora una volta desidero ringraziare, dal nostro punto di vista, per l’atteggiamento che almeno ieri hanno tenuto, mi permetto di dire: state attenti anche voi! Quando vi capitò, infatti, di poter inserire un vostro rappresentante, un uomo molto qualificato, fra l’altro non di partito, ma un giornalista che tutte le correnti di opinione giudicano egregio e valido, pur contrastandolo e combattendolo magari, vi ricordate come fu trattato? Forse non vi torna in mente che, nella seduta del 6 febbraio 1973, l’onorevole Donat-Cattin in quest’aula così si espresse a proposito dell’inserimento di Enrico Mattei al vertice della TV: «Inutile sgarbo nei confronti dei socialisti…; immissione nel comitato direttivo di un giornalista specializzato nella calunnia politica verso uomini e partiti che non riscuotono la sua simpatia, e che può soltanto rappresentare un malinconico decentramento culturale del Partito liberale». Questo è il modo con cui personaggi a livello di Governo si permettono di parlare di problemi relativi alla libertà di informazione e alla libertà di giudizio da parte dei giornalisti. Ripeto che mi sono limitato a cogliere fior da fiore, per farvi rilevare l’ ho già fatto precedentemente, a proposito della Corte costituzionale alcune cose sulla stampa quotidiana italiana. Ho già notato con soddisfazione che questa mattina almeno una parte dei quotidiani che di solito ignorano le nostre tesi si sono dichiarati o approssimativamente o abbastanza apertamente in nostro favore. Tenete presente, signori del Governo e della maggioranza del regime, che la stampa italiana, quotidiana e periodica, è molto interessata a questi problemi; e che, per quanto essa possa essere ammorbidita per i noti e arcinoti sistemi di cui un regime si serve per ammorbidire la stampa, oltre un certo ammorbidimento non si potrà andare. Non voglio farvi perder tempo, ma debbo ricordarvi che di recente un giornale, non certamente nostro amico, il Corriere della sera, ha pubblicato cose assai dure a proposito di questa riforma. Ho sotto gli occhi una copia del Corriere della sera del 30 novembre 1974, dove si può leggere: «A questo criterio, il criterio che informa la riforma, bisogna opporsi con nettezza. La nostra opinione è che il paese, al contrario di quanto si vuol far credere, ha mostrato in varie occasioni di essere maturo per autonomia di giudizio e quindi per l’esercizio della libertà».Un giornale ancora più lontano dalla nostra parte, La Stampa di Torino, si è poi espresso molto duramente sul conto della riforma e, in particolare, a proposito del sistema del doppio telegiornale e del triplo giornale-radio.

Tenete presente che vi è un movimento di stampa e un movimento di opinione che non riuscirete a fermare. Anche in relazione ad un’osservazione fatta abbastanza recentemente, il 24 gennaio 1974, da un valoroso parlamentare liberale, il senatore Valitutti, il quale, parlando della riforma della RAI-TV, osservava che l’Italia è forse il solo paese con libere istituzioni e fondato sul pluralismo politico, in cui il monopolio del mezzo tecnico televisivo si congiunga al monopolio della formazione di programmi senza limiti e senza attenuazioni. Persino nella Francia, tradizionalmente accentratrice, il duplice monopolio televisivo, tecnico e culturale, è meno compatto e meno monolitico di quello italiano. E ha citato la Francia come caso-limite, perché negli altri paesi liberi dell’occidente il problema non si pone addirittura, o si pone in termini attenuati anche rispetto alla situazione francese.

Che cosa intendo dire? Intendo dire che, quando si agitano campagne di stampa contro questa riforma, esse non sono mosse e non sono riconducibili soltanto a quelli che voi definite interessi, che d’altra parte sono interessi perfettamente legittimi; non sono riconducibili alla legittima o non legittima riserva allo Stato ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione; non sono riconducibili alla gestione di potere in termini economici. Sono riconducibili alla gestione del potere, in questo caso, in termini di valutazione e lievitazione di programmi. È questo il nodo. E a questo nodo la Corte costituzionale ha tentato di dare una misura o per lo meno una possibilità di scioglimento. Il regime a questo riguardo si è irrigidito; noi riteniamo ancora che abbiate commesso un gravissimo errore. Ho parlato delle responsabilità dei vari partiti politici; consentitemi di riferirmi in particolare (questa non è né una rivalsa né una vendetta, ma un legittimo esercizio di critica politica) a due fra i partiti del cosiddetto «arco costituzionale», il Partito socialista e il Partito comunista, dei quali, sempre per rapidi accenni, vorrei esaminare un momento le posizioni assunte nel corso di questi anni.

Comincio con un fiorellino. Vi dirò subito dopo chi è stato ad esprimersi in questo modo alla Camera, nella seduta del 23 maggio 1969. Cito tra virgolette: «Se mi si consente l’espressione, del tutto paradossale, direi che dovremmo dar vita ad una sorta di “magistratura della verità”, per quanto riguarda la televisione, la cui nomina potrebbe avvenire con i criteri non dirò uguali, ma analoghi, che in un campo più alto e più generale, vengono usati per la Corte costituzionale». Chi lo ha detto? Un uomo della destra nazionale? Un liberale? Un democristiano di destra? Lo ha detto l’onorevole Bertoldi (è un fiorellino!). Il 23 maggio 1969 l’onorevole Bertoldi si è svegliato ed è venuto qui per dire che alla televisione avrebbe dovuto esservi una «magistratura della verità», con guarentigie addirittura! simili a quelle che presiedono alla formazione della Corte costituzionale. Perché l’onorevole Bertoldi si esprimeva in quella guisa? Evidentemente perché la ragione politica generale, il 23 maggio del 1969, lo collocava in un quadro esterno al regime dominante la RAI-TV, e quindi in una posizione di onestà intellettuale.

Ritroviamo l’onorevole Bertoldi, a non molta distanza di tempo, il 6 febbraio del 1973, in quest’aula. Sono passati tre anni e mezzo: vediamo che cosa dice il Bertoldi «edizione 1973». Questo Bertoldi non si presenta più come un sacerdote della magistratura della verità, ma si presenta come un frate penitente (sono due fra gli atteggiamenti tipici dei socialisti nostrani), e dice: «Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che la direzione del nostro partito può avere anche seguito la vicenda della RAI con scarsa attenzione in passato; è un’autocritica che riguarda anche me stesso, perché sono da molti anni membro della direzione e della segreteria del PSI. Probabilmente, non abbiamo seguito con sufficiente attenzione quello che avveniva all’interno e al vertice della RAI-TV; non abbiamo avuto il tempo, dati i frangenti, di approfondire un problema che stava marcendo, che è marcito ed oggi è esploso». Ci si era seduto sopra, l’onorevole Bertoldi, quale frate predicante, e quale frate penitente aveva sentito lo scoppio, per fortuna restando illeso nelle parti sedenti, perché le parti raziocinanti non avevano avuto il tempo di occuparsi e neppure di accorgersi di quello che era accaduto. E aggiungeva: «Per quanto riguarda la permanenza di Paolicchi alla SIPRA» perché nemmeno di questo, stando seduto, egli si era accorto «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» Bertoldi era infatti penitente al cospetto dei comunisti, non al cospetto della propria coscienza, o del proprio partito, o del Governo, o della maggioranza: i comunisti, come ora vedremo, gli avevano tirato le orecchie «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» diceva l’onorevole Bertoldi «e anche al Presidente del Consiglio» per carità, prima all’onorevole Galluzzi, e poi anche al Presidente del Consiglio! «che il collega Paolicchi si dimetterà anche da amministratore delegato della SIPRA, perché tale carica è collegata con quella di amministratore delegato della RAI o, per lo meno, in via di prassi, è collegata nella stessa persona, e le dimissioni da amministratore delegato dell’ente comportano anche le dimissioni dalla SIPRA».

Ora, io credo di non sbagliare dicendo che l’onorevole Bertoldi, come frate penitente, diceva il falso, in quanto l’onorevole Paolicchi non si era affatto dimesso, e non si è dimesso neppure successivamente da amministratore delegato della SIPRA; e quindi, oltre tutto, c’è anche questo. Ma quello dell’onorevole Bertoldi non è un caso isolato: queste sono le posizioni tipiche del Partito socialista, della classe dirigente del Partito socialista, che talvolta è fuori del Governo, oppure vuol far cadere il Governo: ed allora ecco le posizioni di santità, le «magistrature della verità», la democrazia (sempre dando un’occhiata complice al Partito comunista, per sentire quali siano il suo avviso e il suo indirizzo). Quando, poi, i socialisti rientrano, si siedono, e allora sono occupati, sono occupati nel sedere, non possono vedere quel che capita intorno, e neppure quello che capita sotto. Marcisce tutto? Marcisca pure, ma immarcescibile rimanga la faccia tosta dei dirigenti del Partito socialista, che riprendono immediatamente a predicare, annunziano le dimissioni di chi non si dimette, la fine di una mangeria che continua ed incalza. E poi, avanti, verso la nuova riforma: ci sono i posti? Sì, ed allora tre posti al Partito socialista, e due al Partito comunista. Sono quei tali posti che consentono di determinare una maggioranza in occasione della votazione del bilancio, che è l’unica cosa che conti in quel consiglio di amministrazione. Siamo a posto, tutto va bene. Ed anzi, i «missini» osano fare l’ostruzionismo? Si convochi la Giunta per il regolamento, perché i «missini», nemmeno alla Camera, debbono poter parlare troppo di questi così troppo delicati argomenti. Eccolo il Partito socialista, nelle sue vere espressioni e manifestazioni di potere. “

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, desidero precisare che non è stata convocata la Giunta per il regolamento. “

ALMIRANTE: “La ringrazio molto, signor Presidente, di questa precisazione; e colgo il significato di questa sua cortese interruzione. La ringrazio moltissimo. “

Applausi a destra).

PRESIDENTE: “È una constatazione che non merita l’applauso. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, se me lo consente, anche riferendomi ad antichi, ma non dimenticati, nobili episodi di comportamento della Presidenza, questo merita l’applauso di un deputato e di un uomo libero. Nient’altro che questo: credo che questo non manchi di buon gusto e sia opportuno. Se queste, non rampogne per carità, non ne ho l’autorità ma constatazioni e considerazioni di fronte ai modi di comportamento di certa parte della classe dirigente del Partito socialista provenissero soltanto da noi, avrebbero un valore polemico, e magari di documentazione, ma non di più. Ma tali richiami vengono da sinistra. Il Mondo, il giornale radicale che non è molto contento di questa riforma per determinati motivi, che fanno parte della logica del fronte o del frontismo di sinistra, non ha esitato a scrivere, il 9 maggio 1974, che «i socialisti su questo problema della RAI-TV hanno dato pessima prova»; ed ha aggiunto: «quando il loro rappresentante in seno alla RAI-TV, lo scrittore Giorgio Bassani, fu invitato a dare le dimissioni per lasciare il posto a Luciano Paolicchi, venne affermato che l’avvicendamento era dovuto a ragioni molto precise: si trattava di introdurre nella roccaforte un elemento politico che sapesse combattere dall’interno per la riforma del sistema». Ecco le cure culturali, intellettuali della sinistra socialista; lo scrittore Bassani non si dirà certamente che io difendo una causa nostra: per altro si tratta di un uomo di tutto riguardo deve lasciare il posto all’uomo di partito, ad uno che veda, che non si lasci imbrogliare. L’uomo di partito «vede» nel modo che abbiamo potuto constatare, e lo riducono al punto che l’opinione pubblica e il Partito comunista gli chiedono di andarsene; non se ne va egualmente, e il suo partito afferma il falso dicendo in piena aula che si è dimesso. Mi sembra che questo sia per il Partito socialista un patrimonio di credibilità davvero ragguardevole! E perché come dicevo poco fa l’oratore socialista si riferiva al Partito comunista e precisamente all’onorevole Galluzzi, prima ancora che al Presidente del Consiglio? Perché l’onorevole Galluzzi, a nome del Partito comunista, non era stato certo molto tenero nei confronti dei socialisti e dei loro modi di comportamento; ora che filate il perfetto amore, è bene che queste cose si dicano, anche perché potrà capitare che qualche socialista integro ce ne sarà qualcuno dica oggi o domani ai comunisti quello che i comunisti si sono divertiti a dire ai socialisti nei periodi in cui non erano ancora d’accordo nello spartirsi la torta. L’onorevole Galluzzi parlò duramente nei confronti dei socialisti a proposito della RAI-TV in almeno due occasioni, il 6 maggio 1971 e il 13 dicembre 1972. Dico duramente, perché ascoltate bene disse: «La realtà è che i compagni socialisti alla RAI-TV non hanno saputo in alcun modo caratterizzare, al di là delle affermazioni verbali, il loro ingresso ai vertici dell’azienda nel senso di spingere avanti un profondo rinnovamento dei metodi e degli indirizzi, ed hanno finito per ricadere nel gioco di potere, per subire, accettando di rinchiudersi nella gabbia del quadripartito» una gabbia dorata! «della politica di regime, finendo così per accettare la prevalenza ed il dominio del partito più forte». E ancora. Il 13 dicembre 1972 i comunisti dicevano: «Abbiamo preso atto che vi siete resi conto, voi socialisti, che la politica del condizionamento all’interno è finita e si è tradotta in una copertura delle scelte della Democrazia cristiana e dei suoi diretti rappresentanti al vertice dell’azienda». Ora siete tutti quanti insieme ed è evidente che il discorso cambia, tanto è vero che lo stesso settimanale radicale che citavo poco fa, e che critica così apertamente le posizioni e le responsabilità del Partito socialista, mette in luce anche le posizioni e le responsabilità del Partito comunista.

Vorrei occuparmi di questo argomento, perché mi sembra che, politicamente, sia l’argomento di fondo. Vorrei cioè aiutare me stesso a comprendere quali sono le contropartite reali, i motivi di fondo, le spinte (come dice il Fracanzani) che hanno suggerito al Partito comunista di tenere un atteggiamento che è di copertura e di appoggio (non voglio neppure dire di complicità) verso una riforma in favore della quale noi non sappiamo ancora se il Partito comunista arriverà ufficialmente a pronunciarsi e a votare, soprattutto se verrà posta, come potrebbe darsi, la fiducia da parte dell’onorevole Presidente del Consiglio. Io sono rispettoso delle posizioni altrui soprattutto quando tali posizioni vengono assunte apertamente. Non penso quindi che il Partito comunista sia entrato nell’ ordine di idee di favorire il passaggio (e addirittura il rapido passaggio) di questa riforma soltanto per l’offerta dei due posti nel consiglio di amministrazione. Certo, queste sono cose che hanno il loro peso e la loro importanza. Ma, come per noi (se permettete, gente seria) hanno peso e importanza fino a un certo punto, possono cioè pesare e certamente pesano in relazione ai modi di comportamento, ai modi di sviluppare una opposizione, ai modi di portare l’opposizione fino all’ostruzionismo, ma non fino al punto di annebbiare le nostre idee sul quadro generale della riforma, così io non posso permettermi di pensare che il Partito comunista un partito serio -ritenga che due o tre posti possano modificare il suo giudizio di fondo sul conto di questa riforma. Anche perché è un giudizio che il Partito comunista, come ogni altro, sarà chiamato d’ora in poi a portare dinanzi alla pubblica opinione per chiarirlo, per giustificarlo. Questo non è un problema sul quale non si possano e non si debbano fare i conti ogni giorno con la pubblica opinione. la RAI-TV del regime, così come la detesta il «missino», e che si sentirà dire nei prossimi giorni che il suo partito è stato favorevole a questa riforma, vorrà pure dei chiarimenti: potranno i colleghi comunisti andare a raccontare che hanno avuto due posti? Certamente, no. Ci vuole qualcosa di più. Vediamo ora di capire di che cosa si tratta, attraverso i testi dello stesso Partito comunista o in genere i testi della sinistra che ho cercato di consultare.

Diceva ancora Il Mondo, dando una prima interpretazione, il 9 maggio 1974: «Nella sostanza» (ci si riferiva al disegno di legge Togni, che però conteneva, grosso modo, per quanto riguarda la televisione via etere, tutte le norme contenute in questo decreto) «il PCI ha avuto soddisfazione su almeno tre punti: ha visto l’accesso al video assicurato alle regioni, il che gli permetterà di compensare altri squilibri; è stata confermata l’esclusione dal mezzo radiotelevisivo dei raggruppamenti politici che non hanno rappresentanza parlamentare, come per esempio gli odiati radicali; il PCI, infine, farà parte, con i suoi rappresentanti, del nuovo comitato nazionale per la radiotelevisione e con ciò partecipa anch’esso alla lottizzazione, negandosi così come forza di opposizione». I radicali individuano così tre motivi del soddisfacimento, o parziale soddisfacimento, comunista: l’accesso delle regioni, l’esclusione al vertice dei partiti non rappresentati in Parlamento, l’ingresso nella lottizzazione (negandosi così il Partito comunista come partito di opposizione).

Le regioni. Penso che i comunisti ne parleranno e ne parleranno anche altri, se interverranno in questo dibattito. Io non vorrei sembrare a questo riguardo né irriverente nei confronti di una realtà che c’è, che abbiamo combattuto prima del suo sorgere ma che indubbiamente esiste, né dimentico del peso che questa realtà obiettivamente può avere. Ma, quando nel quadro istituzionale di questa riforma ci si riferisce alle regioni, allora non facciamo ridere!, perché non ci si riferisce alle regioni, ma ci si riferisce ai designati da ciascun consiglio regionale per entrare a far parte degli organi dirigenziali della RAI-TV; designati i quali altro non sono se non i rappresentanti dei vari gruppi politici, secondo i numerini stabiliti nel protocollo aggiuntivo e negli accordi più o meno segreti. Non facciamo quindi ridere e non ci si venga a dire che entrano le regioni. No, entrerà, in rappresentanza della regione Emilia, il mio vecchio amico e commilitone di Repubblica sociale, oggi presidente della regione Emilia – Romagna, avvocato Guido Fanti, nella sua qualità di tesserato al Partito comunista italiano. Non penso proprio che la voce di Guido Fanti, in quanto rappresentante della regione, sarà molto diversa dalla voce dell’onorevole Napolitano o dell’onorevole Galluzzi che vi entrano in quanto membri del Parlamento. Questa storia secondo cui il Partito comunista avrebbe vinto una grande battaglia perché entrano le regioni, andatela a raccontare a qualcun’altro, non a noi, perché non ha grande rilievo. Questo è semplicemente il coro dell’Aida. Entrano i sindacati, voi direte che hanno ottenuto un’altra grande vittoria perché entra la «triplice», entrano i lavoratori. Perché, il dottor Lama è «i lavoratori»? Il dottor Lama è un iscritto al Partito comunista, ed è la cinghia di trasmissione di una volontà politica: con intelligenza, con capacità, con bravura, con bonomia che nessuno gli vuole negare, anche se sono trucchi che non incantano più nessuno.

Non venite a raccontare che avete aperto alle forze culturali. Ma come? Quando si è tentato, nel corso dell’elaborazione di questa riforma, di fare posto alle rappresentanze culturali, ho letto nei testi sacri (Accademia dei Lincei, per carità, chi si permette di proporlo?), nei vostri testi non soltanto di sinistra, ma anche democristiani, essere assurdo che ci si riferisca agli enti culturali; e non ho letto che alcuno abbia scritto, per esempio: riferiamoci all’ordine dei giornalisti perché designi qualche giornalista come tale al vertice della RAI-TV per occuparsi dei programmi, del gradimento, della capacità di comunicare con la gente. Per carità, siano tutti degli asini bardati, purché rappresentanti dei partiti. Via coloro che possono contare qualche cosa intellettualmente, perché occorre la rappresentanza dei partiti. E poi andate a raccontare che il Partito comunista ritiene di aver vinto perché porta le regioni e i sindacati! Porta i suoi iscritti, per carità, degnissimi, che faranno il proprio dovere di iscritti al Partito comunista, che porteranno avanti la tesi partitocratica e di regime del Partito comunista, e questo è tutto. Che poi i comunisti abbiano fatto questa battaglia per escludere i radicali, lasciamolo sostenere ai radicali. Sono cose che fanno molto ridere, anche perché abbiamo visto che la relazione Bubbico e Marzotto Caotorta è più radicale che democristiana e quindi evidentemente i radicali, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra. Mentre è seria l’ultima considerazione, la sola seria: il Partito comunista, nel nuovo comitato, parteciperà alla lottizzazione negandosi così come forza di opposizione. Che le cose stiano in questo modo lo dimostra tutta la tattica del Partito comunista, il quale ha sempre combattuto e denunziato la lottizzazione finché la lottizzazione avveniva senza di esso. Entratone a far parte, ritiene che essa sia un dato positivo. Ma questo non è tutto. Per cercare di capire quale sia il vero atteggiamento del Partito comunista, credo si debbano mettere a confronto due testi ufficiali. Mi riferisco a Rinascita del 10 maggio 1974 e all ‘ U – nità del 2 dicembre 1974. Essi fanno riferimento, ufficialmente, al parere del Partito comunista in ordine alla riforma della RAI-TV. Rinascita si riferisce al testo del disegno di legge Togni, per intenderci, prima delle sentenze della Corte costituzionale, mentre l’Unità si riferisce al nuovo accordo dopo, nonostante e contro le sentenze della Corte costituzionale stessa. Non ho l’impressione che la stampa quotidiana italiana si sia soffermata su questi due testi e li abbia messi a confronto, perché la cosa sarebbe stata edificante: infatti, essi esprimono due pareri contrapposti.

Rinascita esprime il parere contrario del Partito comunista, riferendosi al progetto di legge Togni, mentre l’Unità esprime il parere quasi del tutto favorevole del Partito comunista, riferendosi ai successivi accordi. Se non vi fosse altro documento, il confronto fra questi due testi sarebbe sufficiente a dimostrare che siete potuti arrivare, nonostante e contro la Corte costituzionale, alla presentazione di questo disegno di legge solo perché il Partito comunista ha cambiato avviso.

Il Partito comunista, su Rinascita del 10 maggio 1974, spiegava i motivi della sua opposizione, e diceva: «Anzitutto viene mantenuto il rapporto Stato – società concessionaria, invece di risolvere il problema come era stato indicato non solo da noi, ma anche dai socialisti e da vasti settori democristiani, eliminando ogni equivoco, ogni scappatoia privatistica: dando cioè vita ad un ente di Stato». Questa tesi, che si dovesse e si debba dar vita ad un ente di Stato (i colleghi comunisti me ne possono dare atto) è stata sempre la tesi del Partito comunista in quest’aula da quando l’onorevole Lajolo, per primo, ebbe a presentare un apposito progetto di legge. Era, ancora fino al maggio del 1974, la tesi del Partito comunista, il quale criticava duramente ed era una critica preliminare e di fondo, di quelle che portano al «no» più netto e più rigido la possibilità che si dovesse persistere nell’equivoco nel quale, invece, si è voluto insistere. Aggiungeva ancora Rinascita: «Rilevavamo nella relazione presentata al nostro progetto di legge che l’ente non era per noi una semplice alternativa formale al Governo, che gestisce la RAI tramite l’ IRI, ma la fine della politica delle concessioni e delle gestioni di tipo privatistico in settori decisivi della vita dello Stato e insieme l’esigenza di un profondo rinnovamento strutturale e democratico della pubblica amministrazione».

Ora, i casi sono due: o il Partito comunista, nel corso di questo dibattito, riprende la tesi esposta su Rinascita del 10 maggio 1974 (e si tratta di una tesi, dal punto di vista comunista, del tutto legittima, non solo perché coerente con i precedenti indirizzi di tutto il dopoguerra, ma perché coerente con quelle più generali del Partito comunista), o, come sembra, il Partito comunista molla su questo punto e non ne fa un motivo ostativo ad un suo atteggiamento di sostanziale favore nei riguardi di questo disegno di legge. Ma allora che cosa significa tutto questo? Significa forse che il Partito comunista si accontenta perché ha due posti, oppure i tre quinti? No, certamente. Significa che il Partito comunista ritiene il passaggio di questa riforma in questi termini talmente importante e qualificante ai fini della marxistizzazione della società e quindi della marxistizzazione della informazione, e quindi della negazione della libertà e quindi della capacità di dominio o per lo meno di accentuata precisione del Partito comunista su tutta la società in tutti i sensi, da non dar più peso al particolare perché diventa a questo punto un trascurabile particolare della società privata o della mano pubblica. Questa è la realtà. Cioè di privato non c’è più nulla; il Partito comunista sa che non c’è più nulla perché è riuscito, attraverso la sua penetrazione politica, a contaminare tutto quel che di privato c’era.

Siamo alla favola di Mida in senso opposto: qui si trasforma in piombo, per cattive rotative, tutto quello che poteva brillare come oro. Questa è la realtà. Il Partito comunista si trova a suo agio nel quadro di questa riforma, perché questa è una riforma marxista, è la base per la riforma in senso marxista o per l’antiriforma in senso marxista di tutta la società italiana, il che costringe il Partito comunista a smentire se stesso, ma mette noi, soli, per vostra inedia, inerzia e mi permetto di dirlo per vostra viltà, nella condizione di denunziare il Partito comunista nello stato di flagrante contraddizione, di flagrante tradimento di quegli interessi che esso ha sempre detto di difendere. Ancora una volta, se non ci fosse la posizione chiarificatrice non ostruzionistica in senso gretto, chiarificatrice fino all’ostruzionismo della destra nazionale, queste tesi nessuno le metterebbe in luce. E vi assicuriamo, assicuriamo i comunisti che le metteremo in luce in ogni parte d’Italia. E torniamo ancora a Rinascita del 10 maggio 1974: «A questo punto compare nelle trattative di Governo il fantomatico “protocollo di gestione”, sottoscritto dai quattro partiti e interpretativo della legge. Che si sia dovuti ricorrere ad esso è indicativo delle carenze del provvedimento…». Io vorrei sapere, se il Partito comunista il 10 maggio 1974 riteneva illecito, vergognosamente illecito il metodo del protocollo di gestione, cioè della sostanza della legge approvata fuori del Parlamento, resa addirittura esecutiva fuori del Parlamento, senza che il Parlamento ne fosse o ne sia minimamente informato, come mai a distanza di meno di un anno, di pochi mesi, il Partito comunista non ne parla più, «glissa». Evidentemente questa volta il protocollo porta anche la sua firma. Siamo a questo punto: non soltanto più all’assemblearismo, all’appoggio, alla complicità, ai voti mendicati in corridoio e offerti in aula; qui siamo all’intesa extracostituzionale, anticostituzionale. Cioè l’«arco costituzionale» si realizza in quanto realizza fuori e contro la Costituzione, fuori della potestà e della vigilanza del Parlamento, le proprie intese ai danni della nazione.

Questa è la situazione in cui si è collocato o si sta collocando il Partito comunista. Continua infatti Rinascita del 10 maggio 1974, con parole che noi possiamo sottoscrivere, ma che i comunisti non possono ripetere più: «Tutta la parte gestionale è nel protocollo. Nel protocollo si parla di due reti e di due telegiornali; nel protocollo si assegnano anche le cariche direttive della RAI, presidente e direttore generale dei due programmi e dei due telegiornali. Dal protocollo apprendiamo che vi saranno un presidente socialista, un direttore generale democristiano, due direttori di reti e di telegiornali democristiano e socialista. Il cosiddetto pluralismo interno è dunque affidato al protocollo, è un accordo tra i quattro partiti e anch’esso, come nasce, così può finire. Ma neppure il protocollo, che formalmente il Parlamento «ignorerà» per fortuna ci siamo noi, altrimenti lo avrebbe ignorato! «chiarisce quale rapporto vi sarà tra il direttore generale e i direttori dei telegiornali. E dire che non chiarisce è già essere ottimisti. Il testo dice che il direttore generale coordina le varie proposte presentando un programma organico al consiglio di amministrazione, che le informazioni giornalistiche saranno fornite da due telegiornali, il direttore di ciascuno dei quali…» eccetera. Continua Rinascita: «Che significa tutto ciò? Che la piramide via via si restringe e che tutto il potere finisce nelle mani del direttore generale, anche se in parte è limitato dalle nuove strutture istituzionali e gestionali?».

E allora, comunisti, vi siete seduti sulla piramide o siete nascosti dentro la piramide, come quei cadaveri faraonici che neanche con i mezzi radar si riesce in questi tempi a individuare? Evidentemente questa piramide vi piace. Evidentemente avete mutato giudizio non essendo mutata la situazione, anzi essendo, come vi abbiamo dimostrato e come sapete benissimo, peggiorata, se è vero, come è vero, che l’Unità del 2 dicembre 1974, con firma Dario Valori, pubblica: «Siamo lieti che con senso di responsabilità altri partiti abbiano ritenuto di imboccare questa strada» (cioè la strada suggerita dai comunisti). «In tal modo, finalmente, la riforma della RAI-TV entra in una fase risolutiva per gli aspetti legislativi, e bisognerà riflettere sull’esperienza accumulata nel lungo cammino percorso, allargando sempre più lo schieramento politico» (che faccia tosta!) «e realizzando una significativa unità fra le regioni, i sindacati, gli operatori del mondo dell’informazione, i dipendenti della RAI-TV. Sulla sostanza degli accordi definiti tra i partiti di centro-sinistra, abbiamo già sottolineato come importanti proposte del movimento riformatore e del nostro stesso partito siano state recepite nel testo governativo». Ciò è falso: il testo governativo nel 1974-75 è peggiorato a confronto del testo governativo Togni; la Corte costituzionale è riuscita a determinare degli spiragli, delle aperture di libertà contro i precedenti avvisi del Partito comunista, il quale era contrario tanto alla libertà per la TV-cavo, quanto alla libertà per i ripetitori stranieri. Quindi, gli aspetti positivi per il Partito comunista sono ancor più negativi degli altri aspetti. Per il resto, si è istituita una gestione societaria, della quale parlerò tra poco, che l’IRI stesso dichiara di non accettare, e che è ancora peggiore della precedente. E, comunque sia, non si è giunti alla formula, auspicata logicamente dal Partito comunista, dell’ente pubblico. Il protocollo aggiuntivo è stato in tutte le sue parti rispettato, perfezionato e addirittura predisposto fuori del Parlamento, e il Partito comunista afferma: entrano le regioni (come ho accennato), entrano i sindacati (anche questo lo ho già detto: si tratta dei rappresentanti della CGIL, eccetera) e, pertanto, sono state accolte le proposte e possiamo guardare con soddisfazione a questa bella riforma.

Non credevo che il Partito comunista si potesse avvilire e ridurre a tanto. Avevate già a vostra disposizione tanta parte della RAI-TV! Perché vendere il vostro prestigio di Partito serio per il piatto di lenticchie di due o tre rappresentanti, i quali credetemi si metteranno a mangiare insieme con gli altri e forse sono già a tavola. Forse nel protocollo aggiuntivo è inserito anche qualche accordo preventivo per spartizioni di torta. Francamente, il vostro atteggiamento non può che lasciare perplessi.

Ho accennato pochi istanti fa alla questione IRI, che, come sapete, è di grande rilievo. Non so se sia vera la notizia che circola, secondo la quale il presidente Petrilli avrebbe scritto in proposito una pesante lettera al Presidente del Consiglio. Qualora ciò fosse vero, la notizia non potrebbe che trapelare nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore; ma anche se, per caso, il presidente Petrilli non fosse arrivato a tanto, ho l’impressione che egli si sia egualmente espresso, e non certo a titolo personale, con estrema chiarezza, anzi con durezza. Affrontiamo per ordine, per brevi accenni, questo problema il quale, da solo, a mio parere, meriterebbe un intero dibattito. La Corte dei conti, nel trasmettere alle Camere, nel 1973, la sua relazione sulla gestione finanziaria della RAI-TV, così si esprimeva: «L’IRI, nella qualità di azionista di maggioranza, ha preso in esame nel corso di varie riunioni degli organi deliberanti la gestione della società. Le valu-tazioni dell’Istituto trovano esternazione nella relazione programmatica del Ministero delle partecipazioni statali del 1973, nella quale è affermata, nella ipotesi di rinnovo della concessione, l’imprescindibile necessità che si ristabiliscano nella loro integrità, e non solo nominalmente, i poteri di intervento e le funzioni attribuite dalla legge all’Istituto, quale ente di gestione e azionista di maggioranza della concessionaria, in ordine alla conduzione aziendale e alla economicità della gestione, dovendosi constatare che si sono superati largamente i limiti dei criteri di economicità che caratterizzano la impostazione di fondo delle attività imprenditoriali del gruppo IRI». Vi era dunque fin dal 1973 questa posizione, che non era di riserva, ma addirittura di condanna da parte dell’IRI, massimo socio partecipante, nei confronti della gestione dell’azienda RAI-TV. A questo punto nel dibattito tra le varie tesi (azienda pubblica, azienda privatizzata, azienda irizzata) prevale la tesi indubbiamente singolare secondo cui l’azienda diventa una azienda IRI e pertanto dovrebbe diventare un’azienda pubblica, ma viene gestita come società privata, accollando all’IRI tutto l’onere e non consentendo all’IRI i controlli, le guarentigie, le condizioni di agibilità, che dovrebbero essere concessi.

Si era parlato in proposito di un accordo di superficie. Si era detto lo ripeto per averlo udito che di questa manovra aveva accettato di far parte anche il professor Petrilli in relazione all’avvenire dell’IRI o ad altre contropartite che all’IRI potessero essere concesse. Non è evidentemente così, e che non sia così lo abbiamo imparato per gradi dall’ interessato. L’allarme è stato dato dal Fiorino, che il 1° dicembre 1974 pubblicava i retroscena relativi ad una specie di alterco, per lo meno ad una discussione molto vivace, tra il professor Petrilli e l’onorevole La Malfa. Il Fiorino chiariva che il pro-fessor Petrilli aveva dovuto fare un energico passo presso il Governo, in quanto tutta la dirigenza dell’IRI era assolutamente contraria alla situazione che andava determinandosi. Per qualche giorno non se ne seppe più nulla. Poi, stimolato da un’indagine che veniva pubblicata sul settimanale L’Europeo, il professor Petrilli ha inviato a questa rivista una lettera, in cui erano contenuti dei chiarimenti. Scriveva il professor Petrilli: «Non eravamo quindi, come non siamo mai, latori di istanze che non siano rigorosamente circoscritte alla nostra responsabilità di gestori di un’azienda, alla quale si è ritenuto opportuno conservare lo status giuridico, invero soltanto apparente, di società per azioni».

Ci si deve spiegare che cosa significhi «status soltanto apparente di società per azioni». Non ho né la capacità né la competenza né la voglia di parlare di questo problema in termini giuridici. Ne parleranno altri colleghi ed è opportuno che lo facciano; per quanto mi riguarda, ne parlo in termini squisitamente politici e di responsabilità, ne parlo cioè come cittadino, come deputato, come segretario di partito, il quale vuole capire perché l’ IRI debba avere il cento per cento delle azioni di una società e questa società debba mantenere lo status di società privata. Perché? Da ignorante penso che se si giunge ad una formula anomala, così vistosamente anomala, debba esservi un motivo. E da ignorante, non da malizioso, sono indotto o costretto a pensare che il motivo non sia di quelli che possono essere proclamati sui tetti, perché altrimenti non si sarebbe messo un personaggio importante, serio e responsabile come il professor Petrilli nella condizione penosa in cui egli è stato messo. Penso quindi che vi sia un motivo non confessabile. Il motivo di questo caso da ignorante, lo ripeto può identificarsi in un tentativo di sfuggire a determinati controlli. Lo dico in termini politici, i miei colleghi lo esprimeranno molto meglio in termini giuridici, ma evidentemente si vuole sfuggire uno status per mantenerne un altro solo fittiziamente, in quanto si vogliono ottenere i requisiti e i vantaggi del nuovo status, mantenendo però i vantaggi e i requisiti del precedente. In questo modo si vuole dar vita, anche in questo caso, ad un sistema statale in senso totalitario e di regime, conservando però, sotto il profilo dei controlli, il più comodo status di società a gestione privata. Questo è ignobile; è questa la parte più sporca di tutta la riforma, che nulla può giustificare. Non si può accettare nessun protocollo aggiuntivo, nessuna manovra dietro le quinte, dal momento che qui si gioca con la coscienza e con i soldi degli italiani. Voi fate tutto questo, ma almeno abbiate il coraggio delle vostre azioni! E invece: tutte le azioni all’IRI, tutte le azioni allo Stato, pur trattandosi sempre di una società privata. Queste cose non le fanno nemmeno i magliari, non le deve fare il Governo, né la maggioranza, né la gente rispettabile. Non si mette una persona, anch’essa rispettabile, come il presidente dell’ IRI, nelle condizioni di fare queste figure. Tant’è vero che i rappresentanti che TIRI deve eleggere sono 6 ed a quest’ora, nel protocollo aggiuntivo, sono già scritti i nomi delle persone che il presidente Petrilli deve nominare. Bella figura!

Dice ancora Petrilli, sempre in quella lettera, che, dato il carattere del tutto atipico della RAI-TV, nella quale l’ingerenza dell’azionista è limitata alla corretta conduzione aziendale, senza facoltà di intervento o di interferenza sul prodotto, ossia sui programmi e sulla loro impostazione, l’assolvimento di questi compiti presenta tratti veramente ardui. L’azionista, come ho già detto, e quindi anche il possessore del 100 per cento delle azioni, non può interferire sui contenuti e sui prodotti. Non si tratta in questo caso di una fabbrica di automobili. In questo caso si produce pensiero, coscienza, informazione, cultura, ignoranza, si produce spettacolo, faziosità, si produce violenza. Su tutte queste cose il presidente dell’IRI e la società privata non hanno alcuna facoltà di intervento. Petrilli, sempre in quella lettera, affermava che era veramente arduo risolvere il problema ed aggiungeva di avere sempre espresso le più vive preoccupazioni per una gestione amministrativa progressivamente allarmante. Egli concludeva quella lettera affermando che nel caso specifico della RAI-TV sarebbe pura astrazione, alla luce della realtà, attribuire all’IRI un qualsiasi potere. Senonché il professor Petrilli…. “

ROBERTI: “Se il professor Petrilli continua ad insistere, sarà eliminato! “

ALMIRANTE: “Anch’io ho questa impressione, perché a prescindere dalle voci di una lettera che egli avrebbe indirizzato al Presidente del Consiglio se la notizia corrisponde a verità, tale lettera verrà alla luce ci sono le considerazioni dello stesso professor Petrilli in sede parlamentare, vale a dire dinanzi alla Commissione bilancio della Camera. Anche in questo caso, posso rispondere, a quei giornalisti che hanno parlato male della destra nazionale, che se non ci fossimo stati noi, il professor Petrilli non avrebbe rilasciato certe dichiarazioni a proposito della RAI-TV e della riforma; non le avrebbe certamente rilasciate se non gli fossero state rivolte le domande dell’onorevole Delfino.

Gli è stato chiesto sono costretto a rifarmi al giornale del nostro partito, mancando ancora i testi stenografici dell’intervento come egli valutasse il decreto-legge di riforma della RAI-TV. Il professor Petrilli ha risposto: «L’IRI valuta negativa-mente il decreto-legge di riforma della RAI-TV». Avendogli il nostro parlamentare fatto notare che l’IRI avrebbe un potere diminuito, il professor Petrilli ha risposto: «Ella, onorevole Delfino, ha parlato di un potere diminuito dell’IRI nella RAI-TV, ma forse ha voluto fare dell’umorismo, in quanto l’ IRI potere effettivo non ne ha mai avuto. Figuriamoci ora che su 16 membri del consiglio di amministrazione ne avrà solo 6, …senza nemmeno sapere se potrà liberamente nominarli, o se gli saranno imposti. In questa cosiddetta società per azioni» ha proseguito «l’IRI non potrà esercitare alcun controllo e, trattandosi di un ente pubblico nella sostanza, sarebbe preferibile che lo fosse anche nella forma». Ora vogliamo sapere dal Governo, ma soprattutto dai settori di sinistra, se hanno l’intenzione, almeno dopo queste dichiarazioni del professor Petrilli, di portare avanti fino in fondo la battaglia che i comunisti da tanto tempo, dal loro punto di vista legittimamente, avevano intrapreso per la nazionalizzazione della RAI-TV e per la costituzione di un ente di Stato. La nostra lo sarebbe altrettanto, non voglio dire di più. Quella dell’ IRI è diventata una posizione impossibile: se continuasse ad essere tale, diverrebbe indecorosa e scandalosa. Finalmente la magistratura si sta movendo anche per i casi di peculato: sono finalmente state rispolverate 46 denunce che erano ferme da tanto tempo. Come si pentiranno coloro che, attraverso i protocolli aggiuntivi, ambiscono in questo momento ad entrare nei vari organi, dai quali vogliono escluderci! Quante denunce di peculato verranno fuori! Non c’è dubbio che ciò accada. Quando una amministrazione è incontrollabile, non c’è posto per le persone per bene, le quali cominciano in anticipo a sentir odore di bruciato… Le persone per bene tentano di trarsi di impaccio, e fanno quello che credo stia per fare il professor Petrilli. Non è possibile che una persona per bene accetti di entrare in una società che gestisce migliaia di miliardi dello Stato e del contribuente, sapendo a priori che si tratta di una società la quale non è pubblica e nemmeno privata; sapendo che i controlli non vengono esercitati, come in anticipo dichiarano coloro che dovrebbero esercitarli, traendosi fuori della questione. Questo è peggio di un calderone: altro che lottizzazione! Fin da questo momento potete lottizzare i peculati: cominciate a distribuirli! Non ci fermeremo soltanto ai ricorsi alla Corte costituzionale: come cittadini ed utenti, attraverso la promozione di apposite associazioni, attraverso la civile disobbedienza di cui vi abbiamo parlato, noi vi manderemo tutti quanti in galera, se parteciperete a questo imbroglio!

Questa volta l’imbroglio non è solo perpetrato, ma è anche smaccatamente dichiarato: vi siete scoperti senza malizia. Con qualche espediente tecnico, avreste potuto coinvolgere la responsabilità del presidente dell’IRI, e invece lo avete posto in condizione di lavarsene le mani, prima ancora che la faccenda cominciasse. Come vi salverete, quando vi troverete con ogni probabilità disgiunti anche da quelle responsabilità dell’IRI? Vi salverete in termini di regime: perché il regime ha ragione, perché potete permettervi tutto con la coscienza degli italiani, forse, ma un po’ meno con le tasche degli italiani. Machiavelli insegna tante cose: qui le tasche c’entrano quanto le coscienze. Penso che il vostro calcolo possa essere radicalmente sbagliato.

Non sto facendo un discorso ostruzionistico: come vedete, tratto solo una parte delle molte cose di cui dobbiamo parlare. Debbo aggiungere qualcosa in tema di moralizzazione, perché anche a questo riguardo l’atteggiamento delle sinistre disturba. Una volta gli scandali a questo riguardo erano promossi abbastanza validamente dal Partito comunista. L’onorevole Pajetta proprio alla televisione fece, se non altro, la sua prima campagna elettoralmente efficace, in termini di scandalismo, parlando di mille miliardi. Ci provò, anni fa, anche per quanto riguarda la televisione. Ho qui davanti a me un intervento (non molto lontano nel tempo, del 18 maggio 1969) dell’onorevole Giancarlo Pajetta, nel quale egli così si esprimeva: «L’onorevole Giorno ha parlato di coloro i quali devono il loro posto soltanto alla funzione che svolgono nei partiti. Noi abbiamo chiesto e tale nostra richiesta era contenuta nel testo delle interrogazioni da noi presentate che venisse pubblicato l’elenco dei collaboratori». Quante volte abbiamo chiesto l’elenco dei collaboratori! Ne parlò l’onorevole Roberti, ne parlarono gli onorevoli Giuseppe Niccolai e Calabrò, ne hanno parlato un po’ tutti i nostri; per la verità ne parlavano anche i comunisti. «Di quelli proseguiva Pajetta che prendono più di sei milioni l’anno» (cifra che va riferita al 28 maggio 1969) «chiedendo di sapere se avessero un doppio lavoro, presso quali uffici, studi, segreterie di partito, uffici stampa». Siccome, nel frattempo, molti di essi si sono trasferiti nella segreteria e negli uffici del Partito comunista, quest’ultimo l’elenco non lo chiede più. Questa sarebbe stata certamente un’informazione interessante, ma non l’abbiamo avuta. «Onorevoli colleghi continua l’onorevole Pajetta senza nulla concedere all’ amore del paradosso, che pur non nascondo, devo dire che qualche volta i meno dannosi sono i funzionari politici che vengono pagati dalla RAI e non lavorano presso la RAI, quelli che vengono pagati soltanto perché uno dei partiti chiede di ottenere un canonicato e quindi uno stipendio. Questi sono i meno deleteri. Ci rubano il denaro perché questo è quello che si deve dire ma accontentiamoci, perché ci rubano solo il denaro, mentre gli altri ci rubano anche i minuti della televisione (e questo è più grave)». Chissà se l’onorevole Pajetta ha voglia di ripetere interventi di questo genere o se qualcuno dei suoi amici è disponibile per dire queste cose. “

ROBERTI: “Ora ci sono le nuove leve! “

ALMIRANTE: “Chissà se, ora che il Partito comunista fa parte della lottizzazione, i famosi elenchi dei collaboratori verranno fuori. E, come ho già detto precedentemente, chissà se, ora che il Partito comunista può dare informazioni dirette, si saprà quanto vengono pagate le interviste a Umberto Terracini, a Lelio Basso, a Paolo Vittorelli (sarebbe molto importante sapere queste cose). Chissà se il dottor De Feo, che in altri tempi sollevò nuvoloni e polveroni, almeno attraverso la sua denuncia di comunistizzazione della RA -TV, sarà contraddetto col vigore del passato dai comunisti nelle occasioni che potrebbero verificarsi. Sono riusciti a liquidarlo proprio perché ha fatto il suo dovere. Comunque sia, verranno fuori, questa volta, gli elenchi dei collaboratori, le loro retribuzioni! E le denunce per peculato, senza alcun dubbio, si estenderanno. Onorevole ministro, la pregherei di darci, nella sua replica, qualche notizia sulla SIPRA, che rappresenta un problema essenziale. Altri esponenti della mia parte politica parleranno in maniera approfondita della questione della pubblicità; io non mi ci soffermo se non per dire, come giornalista professionista, che il problema della SIPRA non può non essere esaminato e deve essere risolto. E non può essere risolto «a babbo morto», cioè dopo; occorrono per lo meno in questa sede, soprattutto se dovesse essere posta la questione di fiducia, impegnative dichiarazioni del Governo e, se possibile, a parte la questione di fiducia, del Presidente del Consiglio. Perché dico questo? Perché sul problema pubblicità radiotelevisiva o, più vastamente, sul problema pubblicità in generale come ella sa, signor ministro sono caduti dei Governi? Perché? Perché ed io le parlo come giornalista professionista il problema della sopravvivenza della stampa quotidiana e di larga parte della stampa pe-riodica è legato alla soluzione del problema della pubblicità. E se ella avrà l’amabilità di rispondere, signor ministro, ci fornisca, per cortesia, i dati reali. Ho qui una tabella che risale al 1973 ed è di fonte comunista; alla stessa non dovrei, pertanto, prestare ascolto, ma proprio per tale sua natura la prendo in esame. È stata pubblicata in allegato al bel volume di studio del Partito comunista sul convegno relativo alla riforma della RAI-TV tenutosi nel marzo 1973, a Roma. Da tale tabella che, ripeto, proviene da quella fonte, risulta che nel 1963 la TV incassò l’11,2 per cento dei proventi pubblicitari e nel 1970 il 16,9 per cento degli stessi. La stampa quotidiana, invece, dal 1963 al 1970 è passata sempre secondo quei dati dal 38 al 28 per cento. Cioè, mentre la TV ha guadagnato il 5,7 per cento, la stampa quotidiana ha perduto il 10 per cento. La stampa periodica avrebbe guadagnato ma subito dopo, onorevole ministro, le fornisco di ciò una spiegazione passando dal 25,3 al 33,4 per cento. La stampa nel suo insieme ha, tuttavia, perduto, passando dal 63 al 61 per cento. Sa perché, onorevole ministro, la stampa periodica ha complessivamente guadagnato negli anni che ho considerato? Perché la SIPRA «non si limita» (leggo su un giornale) «ad avere questo soltanto; vuole di più ed invade tutti i settori pubblici-tari. Ha più di 40 testate di giornale, ha 2.400 sale cinematografiche, si occupa di pubblicità con aerei, e il che è una chiara violazione dello statuto che regolava la sua azione». Sicché, che cosa è successo? Che il Partito socialista, volendosi impa-dronire di una testata, non di quotidiano ma di periodico, Tempo illustrato, tanto per non fare altri nomi, è arrivato ad un contratto con la SIPRA; il tutto, per sostenere un periodico che nessuno leggeva perché mal fatto, perché crollato, non perché socialista. A questo punto, nei proventi pubblicitari della stampa periodica risulta un incremento, trattandosi di quattrini che sono pur entrati nelle casse della stampa periodica, ma che vi sono entrati in tal guisa. Li sottragga, dunque, onorevole ministro! Sottragga questi e molti altri denari; si faccia informare, dunque, sulla vera situazione delle testate dei quotidiani e, soprattutto, di taluni periodici ad altissima tiratura. Andate a leggere nei bilanci potete farlo e vedrete quel che la SIPRA fa, traffica, procura, vende, mercanteggia; vi addentrerete in una specie di letamaio da cui risulta come attraverso tale grossa, colossale direi, operazione, si tenti di imbavagliare quel che rimane di libero nella stampa italiana, quotidiana e periodica. Glielo dico, onorevole ministro, come giornalista. Non fate passare questa occasione senza informare il Parlamento sulla situazione degli accordi RAI- SIPRA, sulla situazione di gestione di quest’ultima, sulla situazione relativa alla presidenza ed alla direzione della società, sulle presenze socialiste (non so se anche di altri partiti) al vertice della stessa: perché questo è, o si avvia ad essere, in una nazione così ricca di scandali, forse il più grosso tra quelli nazionali.

A questo punto, onorevoli colleghi, desidero tornare a noi per concludere. Desidero, cioè, dire con franchezza qual è la nostra posizione, che non si esaurisce in un «no» e neppure in termini dell’ostruzionismo parlamentare, ma continua per una battaglia che dal Parlamento porteremo nel paese, con tutti i mezzi a nostra disposizione e con decisione estrema. Vi dico questo coonestando la nostra posizione con testimonianze indubitabili. La RAI-TV, nell’ormai lunga esperienza di esercizio monopolistico, ha determinato non malcontento ma disgusto, signor ministro. Le cito una testimonianza, molto lontana, oserei dire quasi la più lontana, in termini politici, dalla nostra: Panorama del 20 dicembre 1973, a firma Giorgio Galli. Titolo: «Umiliati dalla RAI-TV». Ed è una denominazione che credo di poter accettare, moralmente. Come cittadini, siamo tutti quanti al di là e al di sopra delle parti. Forse, quel che ci unisce in Italia, oggi, è il senso di prostrazione e di umiliazione che la TV porta nelle case di tutti quanti noi. «Umiliati dalla RAI-TV». Dice Giorgio Galli in questo articolo: «Mentre scrivo, ascolto i comunicati delle varie agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radiotelevisivi leggono come se fossero notizie». Ripeto: i comunicati delle agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radio-televisivi leggono come se fossero notizie. «Abbiamo perfino perso il senso della notizia, lo dico da giornalista, il gusto della notizia. Ascoltare la TV significa perdere la certezza della notizia e quindi del fatto, significa non avere riferimenti. In questo modo squallido e anonimo di imbrogliare i cittadini italiani che la pagano, infonde una tale indignazione che occorre poi recuperare la propria lucidità di osservatore per ricordare che la RAI-TV occupa anche eccellenti operatori culturali che mettono a punto programmi che possono venire collocati anche all’estero per il loro notevole livello». E aggiunge: «Non c’è banale espressione di qualsiasi autorità costituita che non venga presentata e letta come se fosse un testo di Emanuele Kant. Quanti telegrammi (non alludo), quanti telegrammi alla televisione! Non c’è inutile cerimonia che non venga annunciata come momento cruciale della storia italiana. Figuratevi il 1975 che cosa sarà a questo riguardo. Il conformismo si appaia all’ignoranza. Mi è capitato di sentir dire più volte in un giorno, in occasione del trattato ceco-tedesco, che l’accordo di Monaco cedeva la Boemia alla Germania. Chi inganna così i suoi concittadini non potrà mai governarli bene. I fatti e l’economia non possono essere trattati con il disprezzo con il quale la RAI-TV tratta gli italiani». Potrebbe essere la dichiarazione di voto di un deputato del MSI-Destra nazionale; è una dichiarazione di disprezzo e di disistima nei confronti della gestione RAI-TV e quindi nei vostri confronti, da ora in poi, da parte di un politologo di sinistra come Giorgio Galli.

Ma io devo ricordare che nei dibattiti precedenti, in questi lunghi anni, osservazioni accurate vennero rivolte ai vari governi e alle varie maggioranze dei deputati facenti parte della maggioranza. Cito a caso. Ricordo che nella seduta del 27 maggio 1969 un democristiano autorevole, l’onorevole De Maria, ebbe a parlare esplicitamente di un sovversivismo culturale alla TV e a deplorarlo. Ricordo che il socialdemocratico onorevole Reggiani, nella seduta del 6 maggio 1971, riferendosi ad una ignobile trasmissione televisiva pro- Gheddafi e contro i nostri profughi della Libia, ebbe a deplorare il comportamento della televisione. Ricordo che l’allora ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, onorevole Mazza, il 28 maggio 1969, fu da noi costretto a deplorare la partecipazione di un giornalista comunista ad una trasmissione dedicata alla gloriosa Marina militare italiana e all’episodio di Alfa Tau. Ricordo che in molte occasioni questo tipo di cocenti deplorazioni ha avuto luogo; e quindi, quando passo a parlarvi e lealmente della nostra posizione, credo di essere autorizzato a farlo da milioni di cittadini italiani, da tutta una pubblica opinione, che può essere di destra, di centro o di sinistra, ma che non ne può più, perché non ritiene di poter essere rappresentata a questo modo. E allora veniamo a noi, parlando con chiarezza e anche perché sappiate qual è non il sottofondo, ma il fondo autentico di sentimento, sì, di sentimento e di passione e, se ci si consente, di chiara volontà politica da parte nostra quando affrontiamo questo problema. Ho letto ed abbiamo letto tutti sulla Stampa di Torino (del fatto hanno parlato anche tutti gli altri giornali, ma io cito La Stampa di Torino perché l’estrazione politica di questo quotidiano, i suoi connotati ed il suo atteggiamento viscerale contro di noi non permettono dubbi di una qualsiasi colleganza nei nostri confronti), ho letto, dicevo, l’altro giorno, il resoconto del discorso che il procuratore generale di Bologna ha pronunciato, riferendosi all’atteggiamento del ministro Taviani per la strage dell’Italicus. Egli ha detto testualmente (sono brevi frasi, ma, per i motivi che dirò, ve le devo citare): «L’ordine giudiziario non contesta al ministro per gli Affari interni la facoltà di pensare che quanto riferito dagli organi di polizia da lui dipendenti debba essere tenuto nel debito conto dai magistrati inquirenti, ma contesta decisamente il potere di indicare in Parlamento ritardi da lui arbitrariamente desunti in relazione a indagini in corso». Il procuratore si riferisce all’ I talicus. Aggiunge ancora: «È probabile che la divisione dei poteri dello Stato non sempre sia considerata immanente quando la politica interseca la strada della giustizia, ma è certo che apprezzamenti critici di organi costituzionali dello Stato non contribuiscono ad assicurare la serenità del nostro lavoro nel delicatissimo momento delle indagini preliminari. Le critiche del potere politico, specie se relative a fatti di gravità eccezionale, finiscono con l’alimentare nell’opinione pubblica non sporadiche credenze di uno scollamento del potere statuale. Sul tappeto della politica un ministro può puntare sul rosso e sul nero secondo le sue personali convinzioni, mentre sul banco della giustizia si punta soltanto sul colore della verità, che può essere messo in luce se l’animo è sgombro da preconcetti di ogni genere, specie in tempi nei quali troppi scritti anonimi circolano con accuse o millanterie autoaccusatorie».

Dopo la strage dell’ Italicus, il signor ministro dell’Interno, nell’esercizio dei suoi poteri, viene alla Camera ed offre una determinata versione, la offre senza avere avuto la possibilità di accertamenti preliminari, la offre nel quadro di un suo pregiudizio ostinato, che egli, d’altra parte, ha pagato venendo cacciato via dalla carica di ministro dell’Interno. Successivamente la televisione si impadronisce del fatto, e se ne impadronisce non per informare gli italiani sul corso delle indagini, ma per portare innanzi la tesi che il ministro ha difeso in Parlamento; e la sera delle esequie alle dodici vittime la televisione mette se stessa a disposizione per trasmettere dalla piazza di Bologna un comizio del sindaco comunista di quella città. Per questa occasione, parlando con estrema serenità, non ho nulla da dire nei confronti del sindaco comunista di Bolo-gna, il quale, facendo il sindaco, e il sindaco comunista, riteneva di servire in quel modo gli interessi del suo partito.

Alla manifestazione di Bologna erano però presenti le massime autorità dello Stato, e a questo punto ho qualche cosa da dire nei confronti del sindaco di Bologna come ufficiale di Governo, e ho molto da dire nei confronti delle autorità presenti; ma ho soprattutto moltissimo da dire nei confronti della televisione, la quale, quella sera, ha portato nelle case di tutti gli italiani non solo una versione di parte, non solo un comizio di parte, ma un linciaggio di parte, un linciaggio morale, politico e materiale di parte nei confronti di una parte politica che è quella che io mi onoro responsabilmente di dirigere. La televisione, quella sera e nei giorni successivi, ha montato l’opinione pubblica in termini di guerra civile, ha indicato dei colpevoli che sono risultati non esserlo, ha indicato dei mandanti che ancor meno possono risultare tali, ha occultato le vere indagini che si movevano o potevano muoversi in altre direzioni, si è resa complice nei confronti del ministro dell’Interno, del Presidente del Consiglio, dell’intero Governo, dell’intero cosiddetto «arco democratico» nel più sconcio e squallido tentativo di determinare in Italia… Onorevole Bubbico, stia per favore attento. Moralmente ho il diritto di chiederglielo, e di invitarla a non distrarre il ministro, perché è al Governo che io sto parlando. “

BUBBICO: “Ella non è il Presidente di questa Assemblea. “

PRESIDENTE: “Onorevole Bubbico, la prego di non disturbare il ministro, che ha il diritto-dovere di ascoltare. “

BUBBICO: “Accolgo il suo invito, signor Presidente. “

ALMIRANTE: “Dicevo che si è compiuto allora l’ignobile tentativo di determinare nel nostro paese un clima di guerra civile: un tentativo, signor ministro, che non è stato senza effetto, perché nei successivi dieci giorni posso documentarlo sono saltate per aria, per delle «bottiglie Molotov», 40 sedi del partito che ho l’onore di dirigere. Per fortuna non ci sono state vittime, perché si è trattato di attentati notturni, ma 40 sedi sono state devastate con quella giustificazione. Me la devo io prendere con i 40 gruppi di ignobili attentatori notturni? In un certo senso, sì, ma non oltre quel senso, perché sarei iniquo nei confronti financo dei teppisti; io me la devo prendere con chi ha armato le loro mani! Ho citato il caso limite, il più grave e l’ ho voluto citare perché ho avuto la testimonianza del procuratore generale di Bologna; ma ella sa, ed i pochi colleghi presenti sanno, che si tratta di una costante, che si tratta di un linciaggio al quale siamo esposti ogni giorno, che si tratta di un linciaggio che si verifica giornale radio per giornale radio, giornale televisivo per giornale televisivo, che si tratta di un linciaggio che in questi giorni sta tentando di determinare a Roma attenzione! un clima di guerra civile. Ho già detto all’inizio di fare attenzione: Roma è la città dei fratelli Mattei, che nessuno ha visto in televisione (e siamo moralmente lieti, perché i loro volti arsi erano una cosa pulita, la più pulita che io abbia visto da molti anni a questa parte, che non siano apparsi alla televisione). Tra un mese si celebra il processo contro gli assassini; e gli assassini sono stati scoperti perché è stata scoperta la figliola di un direttore di giornale. E quel giornale, il giornale della droga, è il giornale che ancora stamane monta lo scandalo, riferendosi alle recenti trasmissioni televisive contro la violenza fascista a Roma: attenzione! Non si proceda lungo questa strada; e se si procede lungo questa strada ci si renda conto che un partito politico che gode di tutti i diritti e adempie tutti i doveri non può consentire che si continui così. Ho parlato di civile disobbe-dienza: la porteremo avanti. Ho parlato di associazioni degli utenti, che promuoveremo per la difesa della libertà di informazione; ho accennato ad ambienti di stampa e di opinione che non possono non condividere le nostre tesi, non dico i nostri interessi, e quindi il nostro impegno di battaglia. Ho accennato a tre milioni di elettori, che sono almeno cinque milioni di cittadini, che la pensano così, perché avete l’inumanità di colpirli ogni giorno, di provocarli ogni giorno, di ferirli ogni giorno nei loro sentimenti, nei loro convincimenti, giusti o sbagliati che siano. Ma molto più ampiamente devo accennare, onorevole ministro, ad uno stato di insoddisfazione, di agitazione e di ribellione morale, di rivolta ideale che non può non pervadere tutti gli italiani degni di questo nome, se su questa strada si pensa di continuare. E non pensiate che noi siamo come i comunisti, disponibili per le lottizzazioni, e quindi disponibili per tacere e per non combattere sulla riforma ed a qualsiasi costo. Qui si tratta di intraprendere e di riprendere la strada segnata, non da noi, ma dalla Corte costituzionale per la libertà di informazione e di formazione della pubblica opinione, e di trovare un numero sempre maggiore di italiani, nel Parlamento e nel paese, decisamente ostili, capaci di combattere. Non voglio sembrare irriverente nei confronti di valori nei quali crediamo e nei quali abbiamo dimostrato di credere; ma penso che un Cavour 1975 potrebbe anche dire, senza bestemmia: «libera antenna in libero Stato».

Badate, i problemi della riforma sono diventati coincidenti, in uno Stato moderno, con i problemi della coscienza e della libertà di coscienza. Non è possibile combattere per la libertà di coscienza senza concedere alla coscienza la capacità di abbeverarsi alle fonti del sapere e della informazione. Voi ci concedete in questo momento ne siamo onorati, anche perché ce lo siamo duramente guadagnato il gonfalone della libertà di antenna in un libero Stato: porteremo avanti questa consegna.”

Seduta dell’8 novembre 1971

Nel dibattito sul disegno di legge governativo che prevede provvedimenti per il personale docente delle Università, Giorgio Almirante presenta una relazione di minoranza. La proposta prevede l’assunzione da parte delle Università di quel personale che, comunque assunto, presta servizio in qualità di assistente, borsista o ricercatore. Attraverso la critica diretta alla proposta, il discorso si allarga alla validità dei titoli di studio e a tutta la situazione universitaria. Il disegno di legge non fu mai approvato, per l’impegno posto dal relatore di minoranza Almirante

Una lezione di civiltà

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, quasi tutti coloro che sono intervenuti prima di me nel corso di questo dibattito hanno lamentato, dinanzi all’aula semideserta o deserta, lo scarso interessamento dei giornali, il disinteresse si dice oggi la «disaffezione» di tanta parte della pubblica opinione. Io non imiterò i miei colleghi. Intendo rilevare, al contrario, che mi sento onorato di prendere parte alla conclusione di questo dibattito che si è svolto in maniera civile e che ha dato luogo ad un interessante confronto di opinioni. Credo di poter dire le assicuro, signor ministro, e lo dimostrerò, che sono stato diligente lettore di tutti i discorsi pronunciati in quest’aula nelle passate sedute che è stato uno tra i più seri, uno tra i più approfonditi, e in qualche guisa anche uno tra i più responsabili e quindi significativi dibattiti che si siano svolti in Parlamento. È l’importanza del tema, senza dubbio, che ha indotto tutte le parti politiche ad assumere le loro responsabilità.

E poiché ho detto, signor ministro, che si è trattato di un dibattito svoltosi in termini civili, spero che ella non si dolga se io profitterò di questa occasione per dire una parola, una sola, intorno ad un argomento che riguarda la civiltà e la scuola, anche se non concerne la riforma universitaria. Credo, signor ministro, che sia stato lei personalmente l’ispiratore di una piuttosto dura nota, di quelle che si chiamano ufficiose, emessa dal suo dicastero nei giorni scorsi, in risposta ad una lettera dei presidi della quale io confesso, a mia volta, di essere stato l’ispiratore. Ebbene, signor ministro, in termini di civiltà io desidero informarla, qualora ella non lo sappia, di ciò che sta accadendo in questi giorni in tutti o quasi tutti gli istituti medi della capitale. È uno spettacolo indecoroso, è uno spettacolo preoccupante. Quanto all’indecoroso, ho il dovere di avvertirla che ci stiamo documentando fotograficamente per quanto riguarda le sue responsabilità politiche e soprattutto le responsabilità politiche, e forse anche personali, del suo collega il ministro dell’Interno; per quanto riguarda le preoccupazioni che derivano a noi, e crediamo a tutte le parti politiche e, vogliamo pensare, a tutti i padri di famiglia, io l’avverto, signor ministro, che non siamo disposti a tollerare, senza reagire, ciò che sta accadendo.

Si indicono nelle scuole medie di Roma, in questo momento, le cosiddette «assemblee aperte»: aperte non soltanto agli studenti, tanto meno ai genitori degli studenti, aperte ai teppisti. Gli studenti di tutte le parti politiche vengono attirati in quelle libere assemblee, ne escono pesti e sanguinanti. Non può durare così.

Pertanto, signor ministro, se lei è l’ispiratore e lo credo della precedente nota in risposta alla precedente lettera di cui mi onoro di essere stato l’ispiratore, rilegga quella sua nota, riveda le sue posizioni di coscienza, assuma le sue responsabilità insieme con il suo collega ministro dell’Interno prima che accada di peggio. Dopo di che vengo all’argomento, il dibattito sulla riforma universitaria, per rilevare, credo con obiettività, che l’esito della discussione generale fin qui svoltasi non è molto consolante per il Governo e per la maggioranza. Lo hanno notato altri colleghi nel corso del dibattito, non è vero, onorevole Nicosia? Io posso rilevarlo statisticamente a conclusione del dibattito. La maggioranza è intervenuta quasi silenziosamente mi occuperò poi di questa quasi silenziosa parte della maggioranza attraverso interventi stringati e non eccessivamente significativi del Partito socialista, del Partito socialdemocratico e del Partito repubblicano; per l’esattezza, un intervento del Partito repubblicano, un intervento del Partito socialista, due interventi del Partito socialdemocratico. Massiccio il peso e ci congratuliamo con i colleghi numerico, e non soltanto numerico, quantitativo e qualitativo degli interventi del gruppo della Democrazia cristiana. Quanto però agli orientamenti, su quindici interventi del gruppo della Democrazia cristiana, ivi compreso quello del relatore onorevole Elkan, io ho annotato cinque interventi, a essere benevoli, perplessi; sei interventi favorevoli con qualche riserva, a cominciare dalle riserve onestamente espresse dal relatore. Sicché, signor ministro, se dalla qualità, dal contenuto, dall’orientamento, dalle conclusioni degli interventi della maggioranza in quest’aula si dovesse dedurre, come sarebbe logico e onesto dedurre, un orientamento della maggioranza nel suo complesso, si dovrebbe ritenere che questa legge non sia destinata a passare.

Accadrà probabilmente, o quasi certamente, il contrario, ma non può essere senza peso politico la considerazione che io mi sono permesso di fare e che mi sembra del tutto obiettiva, né credo si possa dire, come è stato detto da qualcuno, che questa legge sta nascendo in Parlamento. Perché allora avrebbe un peso davvero determinante la considerazione dello scarso numero dei colleghi presenti nel corso di tutta la discussione generale e credo nei prossimi giorni anche nella discussione degli emendamenti. Sappiamo che i colleghi entreranno in aula al momento della votazione (e speriamo che i congegni elettronici funzionino e non si inceppino come è accaduto nel Belgio in questi giorni), ma se si presume che un disegno di legge di questa portata, di questa responsabilità, addirittura storico, come è stato detto da qualcuno, come direi anch’io, possa nascere dall’Assemblea, allora i banchi dovrebbero riempirsi; allora la maggioranza quasi silenziosa o assente o latitante deve assumersi norma per norma, articolo per articolo le sue responsabilità. Sta di fatto, invece, che coloro che ritengono di dover esprimere qualche cosa la esprimono in maggioranza in dissenso dal Governo e dal ministro, e gli altri preferiscono assentarsi per intervenire soltanto come votanti: modo poco decoroso per intervenire in un dibattito di questo genere. Il mio compito, comunque, signor ministro, è oggi quello del relatore di minoranza e di opposizione. Esso consiste nell’esaminare criticamente le posizioni altrui, e mi perdoneranno i colleghi ai quali mi riferirò se le mie osservazioni critiche potranno apparire, saranno anche polemiche, ma lo saranno nel pieno rispetto, per i motivi che ho detto poco fa, delle tesi da tutte le parti sostenute. Mi permetterò di ribadire anche le nostre posizioni e in ciò il mio compito è stato enormemente alleggerito dagli interventi dei colleghi del mio gruppo, che io sento il dovere di nominare e di ringraziare: con alla testa il correlatore onorevole Nicosia, sono intervenuti per noi gli onorevoli Menicacci, Turchi, De Lorenzo, Sponziello, Niccolai, Caradonna, Manco, d’Aquino. Credo che interverrà il presidente del nostro gruppo, quanto meno in sede di dichiarazione di voto. È quindi legittimo da parte del gruppo del MSI permettersi di fare le osservazioni che or ora ho fatto circa lo scarso impegno di altri gruppi, poiché noi abbiamo fatto il possibile, abbiamo cercato di chiarire le nostre posizioni anche con una relazione scritta, che se non mi lusingo sia stata letta dai colleghi, spero sia all’attenzione dell’onorevole ministro per quel poco che egli ne vorrà dedurre di positivo. Mi riferisco in primo luogo, in senso critico, agli atteggiamenti assunti dalla maggioranza democristiana. Noi abbiamo la fortuna, onorevole Elkan, di avere come relatore per la maggioranza una persona come lei, cioè un relatore garbato, discreto, tanto discreto da avere mascherato sotto una vernice non dico di indifferenza ma di cortesia, quella che si sente essere una sua sostanziale (mi perdoni, è la mia interpretazione, evidentemente)… “

ELKAN: “Cercherò di chiarire dopo il mio pensiero. “

ALMIRANTE: “…allergia a questo disegno di legge. E se io dico che sotto la vernice delle sue espressioni cortesi si sente una sostanziale sua allergia o contrarietà, Io dico perché lo afferma lei nella sua relazione. Infatti ella dice testualmente:..risultano trasparenti i limiti e le zone di ombra».

Trasparenti, dunque. Risultano tanto trasparenti che ella non si è indugiato nella sua relazione per rendere visibile del tutto, limpido, quel che è trasparente. Ella ha creduto (ha perfettamente ragione) che non valesse neppure la pena di individuare le «zone di ombra», poiché ciò l’avrebbe costretto a individuare le zone di luce, e ciò sarebbe stato veramente difficile. Noi comunque la ringraziamo per la cortesia con la quale, essendo relatore per la maggioranza, ha voluto venire incontro alle tesi della minoranza, ha voluto convalidare le tesi, le perplessità, le contrarietà della minoranza. La ringrazio anche per avere detto che la seconda parte della legge (l’onorevole ministro sa che la seconda parte della legge è piuttosto «corpulenta») «assume troppe volte aspetti normativi e regolamentari». Sicché, secondo il relatore della maggioranza, o meglio (voglio essere più corretto) secondo la mia interpretazione della relazione di maggioranza (una interpreta-zione peraltro che è ancor più trasparente di quello che traspare attraverso le trasparenze oscure della legge), attraverso quanto si evince dalla relazione di maggioranza si deduce che questo disegno di legge si compone di due parti: la prima, è ricca di zone d’ombra, la seconda, è normativa e regolamentare. Non mi pare che il giudizio, nel complesso, sia tale da lusingare eccessivamente l’onorevole ministro. E, ripeto, sono obiettivamente lieto, come oppositore nei confronti di questa legge, che un giudizio tanto sereno sia stato espresso dal relatore per la maggioranza.

Nel merito, onorevole Elkan, voglio riferirmi ad uno solo tra i problemi che ella ha ritenuto di sollevare, perché riferendomi a tale problema avrò modo di esaminare una delle questioni più gravi che emergono dal contesto della legge, la questione della quale si sono occupati soprattutto i colleghi del gruppo liberale, quella cioè della validità legale del titolo di studio. Nella sua relazione, onorevole Elkan, a questo riguardo si legge: è probabile che fra qualche anno si riproponga il problema (quello dell’abolizione del valore legale del titolo di studio o del «numero chiuso», secondo una alternativa che soprattutto in Senato dal senatore Bettiol, se non sbaglio, ma anche alla Camera dell’onorevole Gui, è stata posta in maniera molto decisa) «nell’interesse dei giovani». Questa poteva anche essere considerata una battuta, una interpolazione, o comunque poteva essere considerata una sua posizione personale di coscienza. Senonché, leggendo con attenzione gli interventi degli altri colleghi della Democrazia cristiana, soprattutto dell’onorevole Spitella ma anche degli onorevoli Rognoni e Berté, come avrò modo più avanti di documentare attraverso citazioni dirette dei loro interventi, ci si accorge che questa è una posizione del gruppo della Democrazia cristiana.

Appunto per questo desidero soffermarmi su queste argomentazioni, in primo luogo per cercare di comprendere la portata delle posizioni e delle motivazioni del gruppo della Democrazia cristiana, in secondo luogo per denunziare, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana da un lato e del Partito socialista italiano dall’altro, l’esistenza, al centro di questa importantissima legge, di quella che qualcuno di voi (non io) ha definito una «truffa»: questo termine è stato usato in polemica con il gruppo della Democrazia cristiana dal gruppo del Partito socialista italiano ed è stato ritorto nei confronti del gruppo socialista da quello della Democrazia cristiana, nel corso di uno scambio di battute, sia pure cortese, svoltosi in quest’aula nei giorni scorsi. Perché si è parlato di truffa? Lo sanno tutti, ma è bene ribadirlo in questa sede e in questo momento. All’interno della maggioranza di Governo tra democristiani da un lato e socialisti dall’altro (ai socialisti non è mancato in questa occasione il sia pure tiepido appoggio dei socialdemocratici, ma comunque il contrasto si è determinato soprattutto da democristiani e socialisti) si sono determinate nette divergenze di vedute su questo punto, essendo il gruppo democristiano, per motivi che mi sforzerò di illustrare, favorevole all’immediata abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari, ed essendo il gruppo socialista contrario a tale abolizione. Non mi scandalizzo, signor ministro e onorevoli colleghi, per il fatto che all’interno della maggioranza, su un disegno di legge di questa importanza, abbiano potuto scoppiare contrasti fra Democrazia cristiana e Partito socialista: semmai mi sarei non dico scandalizzato ma stupito del contrario. Poiché tuttavia si tratta di un contrasto che riguarda uno dei punti fondamentali della legge, e considerato che tale divergenza di vedute è emersa negli interventi di alcuni oratori della Democrazia cristiana, appare opportuno occuparsi della questione, per vedere se per avventura il contrasto sia stato davvero superato o se viceversa sia destinato a riemergere.

Ecco dunque, onorevole Elkan, le ragioni per le quali ho voluto analizzare un’affermazione così grave come quella che ella ha fatto nella sua relazione di maggioranza, allorché ha scritto essere probabile che tra qualche anno si riproponga, nell’interesse dei giovani, il problema del valore legale dei titoli. Espliciti riferimenti a tale questione ho trovato nel discorso pronunziato in quest’ aula dal democristiano onorevole Spitella, che risulta essere il capo dell’ufficio scuola del suo partito: appunto per tale sua qualifica l’oratore del Partito socialista intervenuto nella discussione ha attribuito la posizione assunta dall’onorevole Spitella al partito della Democrazia cristiana e non soltanto al gruppo parlamentare democristiano della Camera. Ebbene, su tale argomento l’onorevole Spitella nella seduta del 25 ottobre (cito dal resoconto stenografico immediato) così si è espresso: «La Democrazia cristiana avrebbe voluto, come è noto, arrivare subito all’abolizione del valore legale dei titoli di laurea, ma essa non misconosce la presenza di complesse difficoltà che tale decisione comporterebbe, tiene in considerazione le ragioni addotte dagli altri partiti della coalizione e da vari settori della vita civile contro una decisione immediata di tale genere e considera altresì l’esigenza, in questo come in altri aspetti della legge, di conseguire qualche risultato immediato». Ancora più chiare le dichiarazioni che sono state fatte allo stesso riguardo dai colleghi Rognoni e Berté, sempre del gruppo della Democrazia cristiana.

Nella seduta del 29 ottobre scorso (cito ancora dalla stessa fonte), l’onorevole Rognoni ha fra l’altro dichiarato: «A questo punto, devo dire che non mi entusiasma troppo il quesito che si poneva l’onorevole Natta quando si domandava, chiosando l’intervento dell’onorevole Gui, a quale sbocco concreto potrà condurre l’orientamento da più parti testimoniato verso l’abolizione del valore legale del titolo. È un quesito inattuale, perché, per una serie di ragioni cui si è richiamato, tra l’altro, l’onorevole Spitella, se togliere il valore legale del titolo di studio è scelta che si innesta certamente nella linea di tendenza autonomistica dell’università, è anche vero che è difficile, oggi, non ricondurre questa scelta a una precisa posizione ideologica, mentre credo che in un contesto sociale diverso essa si porrà più modestamente, ma con maggiore efficacia, come un’operazione di semplice pulizia: si tratterà, cioè, di fare ordine nella legislazione universitaria cancellando un istituto divenuto insignificante; e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria».

Fermiamoci qui. Che cosa si intende dire attraverso questo molto importante e, a mio parere, grave e dequalificante intervento dell’onorevole Rognoni? Si intende dire: manteniamo per ora in piedi il valore legale del titolo di studio universitario, perché altrimenti i socialisti ci combinano sopra una di quelle loro rituali minacce di crisi di governo oppure ci chiedono qualche altra cosa che ai socialisti in questo momento non intendiamo dare; però, non deduciamo dal mantenimento del valore legale del titolo di studio le conseguenze che si dovrebbero onestamente dedurre, cioè non tentiamo neppure, o comunque non contribuiamo a far sì che il titolo di studio universitario, mantenuto in vigore, venga qualificato o riqualificato; facciamo in modo che il titolo di studio rimanga in vigore e continui ad essere dequalificato e dequalificante, e in questa guida, fra qualche anno (ecco il senso preciso delle gravi parole dell’onorevole Rognoni), quando non più soltanto all’estero, ma anche in Italia sarà chiaro che le lauree conseguite nel 1971 o nel 1972 o per avventura nel 1975 o nel 1980 saranno davvero dei semplici «pezzi di carta» e non qualificheranno i giovani per entrare nella vita, nelle professioni, per rappresentare dignitosamente una nuova classe dirigente; quando questo sarà avvenuto, allora il titolo di studio si abolirà da sé; lasciamo che il titolo di studio si abolisca da sé, quindi truffiamo intere generazioni, immettiamole in una università sempre più dequalificata e dequalificante, accettiamo e facciamo nostra la logica del «peggio», e in questa guisa ad un certo punto arriverà qualcuno che con una «leggina», con un emendamento, farà pulizia. Questo dice l’onorevole Rognoni. Ma, se si vuol fare pulizia, se si ritiene di dover fare pulizia, perché non farla subito? Se il problema è tanto importante, secondo il gruppo della Democrazia cristiana, secondo il partito della Democrazia cristiana, si tratta addirittura di un problema di pulizia… “

ROGNONI: “È una pulizia non ancora attuale. “

ALMIRANTE: “Proprio per questo voglio parlare. Voglio chiedere a me stesso siccome questo è un colloquio ad armi cortesi e spero di poter avere dei chiarimenti per la mia coscienza perché non sia attuale. Intanto, avvalendomi delle vostre stesse dichiarazioni, sto documentando che si tratta, secondo voi, di un problema di pulizia, vale a dire che il titolo di studio, così come oggi viene rilasciato dall’università e così come in un prossimo avvenire continuerà ad essere rilasciato è un titolo di studio dequalificante per l’università e non qualificante per i giovani. Senza dubbio voi state sostenendo proprio questo. State sostenendo altresì che per motivi di compromesso politico non conviene in questo momento o non vi è possibile affrontare l’argomento decidendo in maniera diversa; voi rinviate la decisione, ma non la rinviate ad una ferma, anche se futura, presa di posizione, ad una vostra volontà politica, ad un vostro disegno, ad un vostro orientamento: no, rinviate la soluzione del problema a quando il problema sarà diventato di per sé così grave e il mantenimento dell’attuale ordine-disordine sarà diventato di per sé talmente intollerabile che qualcuno dovrà pur fare pulizia. Ciò significa che tutto quel che sta di mezzo secondo voi e non secondo noi tra l’entrata in vigore di una riforma universitaria siffatta ed il momento in cui si farà pulizia, è sporcizia; ciò significa che, per ragioni di compromesso politico, voi votate la sporcizia a carico di intere generazioni di giovani; ciò significa che voi dannate intere generazioni di giovani, secondo la vostra tesi, a diventare degli spostati professionali e sociali, e quindi morali. Questo emerge, ed emerge in guisa talmente grave che l’onorevole Rognoni, che non mi risulta sia stato smentito da alcun collega della Democrazia cristiana, ne trae una specie di filosofia e dice, come ho già letto: «…e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica, cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria». È veramente sorprendente questo gruppo della Democrazia cristiana, questo partito della Democrazia cristiana, che quando si affronta in quest’aula, in Parlamento, uno dei temi classici, quello della scuola intorno al quale esso, l’erede del vecchio partito popolare, aveva veramente qualche cosa da dire (lo affermo al di là di ogni polemica) con la pienezza di autorità e la capacità di magistero che hanno contraddistinto memorabili interventi di alcuni dei suoi uomini più prestigiosi, anche in questo dibattito lo presenta oggi come un tema da affidare al pragmatismo e all’empirismo! Sicché, empiricamente, pragmatisticamente, si approva oggi una riforma che si riconosce manchevole in uno dei suoi aspetti di fondo e la si approva pur riconoscendo che è manchevole o addirittura sporca o truffaldina uso le vostre parole per fare onore ad un compromesso con il Partito socialista italiano. Cioè, secondo questo pragmatistico ed empirico partito della Democrazia cristiana, prima di tutto va salvaguardato l’accordo con il Partito socialista italiano e poi il destino… “

ROGNONI: “Questo non è più un garbato colloquio fra parlamentari. Ella distorce completamente il mio giudizio e la mia opinione. “

ALMIRANTE: “Se le sono sembrato sgarbato le chiedo scusa, ma le sue parole sono state quelle che ho ripetuto. “

ROGNONI: “Ella trascura il contesto generale del mio discorso. “

ALMIRANTE: “No, onorevole Rognoni, ho letto tutto il suo discorso e non ho ancora finito, perché debbo cercare anche di chiarire quali sono, secondo me, le vostre intenzioni. Debbo cercare di capirle, anche perché su questo punto, cioè sul mantenimento del valore legale del titolo di studio, il mio atteggiamento, l’atteggiamento responsabile del mio partito, per motivi che intendo chiarire, è identico, guarda caso, all’atteggiamento che emerge dalla legge. Io non sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma almeno ho il coraggio di dichiararlo, me ne assumo la responsabilità, spiego i motivi per i quali io, il mio gruppo, il mio partito, che ho l’onore di rappresentare, siamo contrari all’abolizione del valore legale del titolo di studio; mi sono dato carico c’è qualche collega liberale che lo sa personalmente; non è vero, onorevole Giorno? di avere anche una conversazione privata con qualche deputato del gruppo liberale per cercare di capire fino in fondo l’atteggiamento liberale, che è rispettabilissimo e che è stato sostenuto con dovizia di interventi; ma non mi arrischierei mai di dire: noi siamo favorevoli al mantenimento del valore legale del titolo di studio universitario in questo momento, pur essendo in coscienza contrari. Io sono in coscienza favorevole e cerco di spiegarne i motivi, ma apprezzo coloro che in coscienza sono contrari e lo hanno chiarito e presentano i loro emendamenti al riguardo, mentre non riesco ad apprezzare coloro che sono contrari, che lo dichiarano, che lo fanno intravedere nella relazione per la maggioranza, che lo ripetono nei loro interventi, che ammettono che si tratta di un compromesso non pulito quanto al destino dei giovani, ma che poi vengono a parlare di entusiasmo e di pragmatismo. Empirismo sulla pelle di chi? Tentativi, esperimenti, sulla pelle di chi? Sulla pelle dei giovani, sulla pelle delle generazioni che si accingono a frequentare questa università cosiddetta riformata. Analizziamo allora ancora meglio questo singolare atteggiamento della Democrazia cristiana. Se la Democrazia cristiana dichiara: noi siamo contrari al mantenimento del valore legale dei titoli di studio, non soltanto perché i titoli di studio oggi sono dequalificati in una università che non funziona a questo fine, ma anche perché la nostra concezione dell’università autonoma, dell’università libera, di una università che non sia soggetta allo Stato neppure quanto agli indirizzi di carattere generale (riprenderemo in seguito questo argomento), neppure come orientamento, neppure come controllo, ci porta ad una università che non conceda titoli di studio validi secondo la legge dello Stato; se la Democrazia cristiana dice questo, se essa si orienta e cerca di orientarci lungo una sua rispettabilissima tradizione e direttiva, alla quale noi siamo contrari ma che riteniamo faccia parte della più nobile tradizione italiana, se è vero, com’è vero, che siamo qui chiamati ciascuno a rispecchiare una componente di quella che è, nel suo complesso, la tradizione culturale italiana, allora potrei essere d’accordo.

Ma quando la Democrazia cristiana ci viene a dire, primo, di essere nel suo intimo contraria al valore legale dei titoli di studio; secondo, di aver accettato un compromesso per motivi politici con il Partito socialista a questo riguardo; terzo, di tenere in serbo però il proprio punto di vista, e di sperare di farlo prevalere tra qualche anno nell’interesse dei giovani (e quindi questa legge, così com’è ora, è contro l’interesse dei giovani, onorevole Elkan!); quando la Democrazia cristiana arriva a dire ripeto e insisto che, nell’interesse dei giovani, tra qualche anno si farà pulizia, e quando, per giustificare tutto ciò, la Democrazia cristiana parla di un atteggiamento empirico, allora la mia indignazione non si ferma qui, perché diventerà l’indignazione di generazioni intere di ragazzi e di docenti ai quali si prospettano tesi di questo genere; la mia indignazione è pienamente fondata, anche se viene espressa lo ripeto ed insisto in termini che, nelle mie intenzioni per lo meno, sono impersonali, garbati, cortesi e corretti. A questo punto mi corre l’obbligo di chiarire il nostro atteggiamento a proposito di questo fondamentale problema; e poiché ho dato atto ai colleghi di parte liberale della correttezza del loro atteggiamento, devo precisare che il loro atteggiamento è corretto, che è pienamente giustificato dalle condizioni nelle quali la scuola italiana, e l’università in particolare, vivono in questo momento, ma che pur non arrischiandomi assolutamente a voler interpretare una tradizione della quale i liberali sono i gelosi custodi e gli interpreti mi stupisco un poco, ecco, mi stupisco un poco, se guardo ai lineamenti di fondo del loro atteggiamento e di quello di tutti coloro che vogliono negare il valore legale dei titoli di studio universitari, mi stupisco un poco che proprio da parte liberale provenga una simile richiesta. Se la vostra richiesta, colleghi liberali, si riferisce all’attualità della situazione universitaria italiana, avete ragione; se essa si riferisce al contesto di questa legge, così com’è stata sciaguratamente preparata, potete avere senz’altro ragione; ma se si riferisce alle tradizioni liberali quali le ho studiate sui banchi della scuola, ed anche dell’università, allora mi sembra che abbiate un po’ meno ragione, e cioè mi sembra che dovreste convenire con noi circa una considerazione obiettiva ed onesta: cosa accadrebbe il giorno in cui si sanzionasse per legge l’abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari? Uno tra voi lo ha nobilmente detto, in uno dei tanti interventi che avete svolto; uno tra voi ha detto che l’università italiana salirebbe ad altissimo livello scientifico, perché se scienza è cultura, se scienza e cultura sono umanesimo, allora avremmo una università umanistica davvero, nel senso più alto del termine, con il massimo disinteresse da parte dei docenti, con il massimo disinteresse da parte dei discenti. Attenzione, però, perché la parola «disinteresse» può essere interpretata in due sensi, può avere due significati: si può essere «disinteressati» nei confronti del pragmatismo di tutti i giorni in quanto si abbiano interessi più alti, più vasti, interessi universali; ma si può essere «disinteressati» in quanto privi di interesse. Non vi sembra, onorevoli colleghi di parte liberale e onorevoli colleghi di tutte le parti politiche che possono sostenere o aver sostenuto la tesi dell’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario, non vi sembra che una università di tal genere sarebbe talmente disinteressata da non interessare più alcuno? “

COTTONE: “Questo è un puro sofisma. Ella è troppo intelligente per non sapere che questo è un classico sofisma da manuale. “

ALMIRANTE: “Non è un sofisma, è una domanda che pongo.

L’altra è una domanda che io pongo alla vostra coscienza ed alla vostra intelligenza, perché mi sono sforzato di porla alla mia coscienza, e mi è accaduto di dare una risposta contraria a quella che avete dato voi. Penso non ci sia nulla di male. Ecco, io mi sono posto questo quesito, ed ho risposto a me stesso e continuo a rispondere a me stesso che uno tra i problemi che stiamo affrontando essendo quello (e a questo proposito siamo tutti d’accordo, ritengo) di una ripresa di contatto fra scuola (e, in particolare, università) e società; essendo il massimo dei problemi che ci siamo proposti quello di reinserire l’università nella società, di farne l’espressione migliore e più alta, il vertice morale e culturale, affinché i contenuti della società come direbbe il nostro De Sanctis si calino nella università e quest’ultima si cali, a sua volta, nella società; essendo questo il problema, a mio avviso (ed esprimo un parere in piena coscienza, e davvero disinteressato spero me ne diate atto perché non ci sono, in questo caso, manovre politiche di alcun genere), una università che non concedesse titoli di studio validi per entrare nella società, per esercitare nobilmente la professione e per esercitare nobilmente quella che è la grande arte del ricercatore, che deve essere inserito nella società, una università siffatta finirebbe per non interessare più alcuno nella società attuale, non essendo possibile né pensabile fare un salto all’indietro di secoli e secoli, per tornare a quelle che erano università inserite in diversi tipi di società, non paragonabili sia le università che le società con quelle attuali. “

GIOMO: “Se l’onorevole Almirante me lo permette, dirò che, nella vita precedente del Partito liberale, abbiamo l’esempio di due uomini politici che hanno onorato il nostro partito nel campo della scienza senza avere un titolo di studio: Benedetto Croce non è mai stato laureato in filosofia ed Epicarmo Corbino non è mai stato laureato in economia. Benedetto Croce è stato uno dei più grandi filosofi italiani ed Epicarmo Corbino è stato professore di scienza delle finanze.”

FODERARO: “Ma quanti Benedetto Croce ed Epicarmo Corbino abbiamo in Italia?”

ALMIRANTE: “Onorevole Giorno, io ne aggiungerò un terzo, di cui ho appreso la vicenda scolastica proprio durante l’intervento dell’onorevole Bignardi nel corso della discussione sulle linee generali. Guglielmo Marconi fu cacciato da scuola, e non si laureò; ma penso che, pur non facendo egli parte della tradizione liberale, avendo fatto parte dell’accademia creata in tempo fascista, lo onoriamo tutti come un grande scienziato. Però questi esempi non solo non confortano la vostra tesi, ma proprio per il fatto di essere citati come eccezioni, come cime svettanti (di questi grandissimi nomi non se ne possono citare molti altri), stanno a dimostrare che la vostra tesi non è attuale. Inoltre, non vogliamo marciare verso il collettivismo (almeno noi, nonché una larga parte dei colleghi presenti in quest’aula), verso una cultura o una civiltà collettivizzata; ma non possiamo nascondere a noi stessi che quando da altre parti ci si richiama all’importanza del lavoro e della ricerca di équipe, specie per quanto attiene alle facoltà scientifiche o ai dipartimenti scientifici, ci si richiama a un fatto di grande importanza. Come potete immaginare che si giunga a creare delle équipes di ricercatori e di scienziati, o anche che si riesca a creare quell’humus umanistico e culturale dal quale possano poi svettare le grandi eccezioni, in una università che sia dequalificata attraverso l’ammissione del principio che il suo titolo di studio non ha più valore legale e non serve ad immettere i giovani nelle professioni e nelle arti? Non vi è bisogno di dilungarsi oltre, perché nel dibattito il nostro atteggiamento a questo riguardo è già apparso chiaro. Ho preso atto dell’atteggiamento diverso che è stato assunto da altre parti, mi pare, onestamente e chiaramente. Mi duole non poter prendere atto di un atteggiamento serio e responsabile da parte del gruppo su cui gravano le maggiori responsabilità, ossia quello della Democrazia cristiana. Per continuare con la Democrazia cristiana (cioè, con la parte ufficiale di essa), debbo tornare per un momento sull’importante discorso pronunciato dall’onorevole Spitella, perché ho l’impressione che egli sia stato il solo fra i parlamentari della Democrazia cristiana a tentare di interpretare addirittura ideologicamente l’atteggiamento tenuto dalla Democrazia cristiana a proposito di questi argomenti. Sono molto lieto che l’onorevole Spitella sia qui presente e possa constatare che ho sott’occhio il suo testo già citato, che mi ha molto interessato. Egli dice: «Ecco gli elementi per cui l’università proposta in questa riforma si contrappone a quella ottocentesca e si riconduce, per certi aspetti, alle libere università medioevali: l’autonomia e l’iniziativa delle universitates… l’assenza di un corpo docente che riceva quasi una consacrazione statale e sia l’espressione tendenzialmente etica dello Stato… la presenza, invece, di una pluralità di docenti che nella libera esplicazione della loro opera di scienziati e di maestri realizzino una pluralità di interpretazione e propongano una molteplicità di soluzioni, che è caratteristica essenziale della cultura contemporanea». Aggiunge poi che vi è una intima connessione tra le considerazioni espresse sul nuovo rapporto tra Stato e università e quelle espresse sull’analogia con le istituzioni medioevali, e che «tale connessione è rappresentata dalla crisi dello statalismo, totalitario anche quando si professa liberale». Questa è una affermazione veramente interessante per noi. E l’onorevole Spitella prosegue «… dal ritorno ad una concezione dello Stato come organizzazione di garanzia, dal ritorno ad una cultura non esclusivistica e dogmaticamente illuministica, ma aperta ad una pluralità di interpretazioni, tra le quali quella religiosa ha un suo ruolo preciso e fecondo».

Come cattolico io la ringrazio, onorevole Spitella, per il posto conferito alla interpretazione religiosa e al ruolo dell’interpretazione religiosa, come cittadino italiano e come modestissimo dopo tutti cultore di questi gravi problemi, io chiedo (non perché ella debba avere la bontà di rispondere, chiedo come al solito alla mia coscienza cercando di trovare la risposta) se la sua polemica contro l’Ottocento e contro lo statalismo e il richiamo veramente nostalgico (nostalgie consentite, ma un poco lontane) alle università del medioevo, non nascondano per avventura la ripresa di una polemica clericale svoltasi durante tutto l’Ottocento e anche nel corso del Novecento e di cui si avverte in questo caso una certa ripresa, che non ci fa piacere, non contro lo statalismo, ma contro lo Stato.

Onorevole Spitella, sul fatto che nell’università debba esservi una pluralità o un pluralismo di insegnanti e quindi anche di dottrine liberamente espresse, nulla quaestio. Nessuno, da nessuna parte politica più o meno sinceramente (non voglio indagare sulle intenzioni), ma nessuno in questo momento, in questo Parlamento, dalla destra fino alla estrema sinistra desidera una università di Stato. Mi permetto di ricordarlo perché lo hanno ricordato tutti coloro che sono intervenuti con una certa profondità di pensiero in questo dibattito; quando mi riferisco alla autonomia universitaria posso risalire tranquillamente, come ella sa, al 1923 e quindi sono perfettamente in regola. Nessuno tra noi desidera, postula, vuole o dice di volere una università di Stato. Ma tra il non volere una università di Stato e l’escludere ogni responsabilità dello Stato come promotore di cultura, come garante di promozione culturale, c’è una certa differenza. “

SPITELLA: “Ho parlato di Stato organizzatore di garanzia. “

ALMIRANTE: “Sì, di Stato organizzatore di garanzia. Voi siete veramente bravi, debbo riconoscerlo: quando volete trovare il modo per eludere con una formula ciò che volete eludere senza assumerne la responsabilità, voi siete bravissimi. Mi rendo conto che volendo lei accusare perfino i liberali di essere totalitari quando parlano dello Stato, lei non poteva parlare di Stato garantista perché sarebbe in corso in una tipica formula della tradizione liberale. Ed ancora lei ha detto «Stato organizzatore di garanzia». Onorevole Spitella, se lo Stato «organizzatore di garanzia» è lo Stato che secondo voi si esprime attraverso una legislazione di questo genere, cioè attraverso una legge, come lo stesso relatore di maggioranza ha avvertito, che è più un regolamento che una legge; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse in prospettiva stralciare con un’altra legge il valore legale del titolo di studio universitario; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse poi far consistere l’organizzazione della garanzia nella mancanza di ogni garanzia; se l’articolazione dovesse diventare disordine, come è già; se il pluralismo dovesse diventare disarticolazione, come è già, allora non avrei torto nel ritenere per vero quello che mi è sembrato, quello che ho sospettato, onorevole Spitella (e se ella me lo smentisce, ne sono ben lieto), e cioè che la sua polemica o addirittura la vostra polemica di partito non sia contro lo statalismo, ma sia contro lo Stato. Ora, legiferare in merito ad una riforma universitaria fuori dello Stato o contro lo Stato sarebbe un pericoloso errore, qualunque sia la dottrina, come sarebbe un errore dal quale si traggono le mosse, ritenere di poter tornare dalla università tipo Ottocento, quella gloriosa università che ci ha fatti italiani, onorevole Spitella (mi permetterò di ricordarlo più avanti; non è retorica, mi sia consentito: l’università di Francesco De Sanctis ci ha fatti veramente italiani)… “

SPITELLA: “L’ho riconosciuto anch’io. “

ALMIRANTE: “…il voler pensare di passar sopra all’università dell’Ottocento per ritornare alle universitates medioevali, nelle quali c’era il pluralismo, d’accordo, ma c’era una unità di ispirazione, onorevole Spitella, che ha fatto gloriosa, che ha fatto una la nostra civiltà! Ciò che, attraverso le università, ha fatto una la nostra nazione nell’Ottocento, ha fatto una la nostra civiltà nei tempi di Dante. Mi pare che questa forza unitaria dell’università, forza unitaria addirittura spirituale e civile nel medioevo, forza unitaria nazionale e ancora civile nell’Ottocento, debba essere avvicinata. La vostra, la nostra ambizione comune non dovrebbe essere quella di passar sopra alla gloriosa università dell’Ottocento per ritornare ritorno impossibile ai modelli dell’università medioevale; la nostra ambizione dovrebbe essere quella di riannodare la università del Novecento, la università degli anni ’70, alla università dell’Ottocento e a quella medioevale, per rifare una l’Italia nella civiltà in un momento di pericolosa crisi delle giovani generazioni. Se non siamo d’accordo su questo, allora manca a questa riforma ogni ispirazione morale, che è proprio l’appunto più pesante che a questa riforma ci permettiamo di fare.

E adesso mi debbo occupare e, per verità, confesso, senza offesa per alcuno, me ne occupo un po’ più volentieri dei colleghi della Democrazia cristiana che sono intervenuti in opposizione a questo disegno di legge. Io sono certo che l’onorevole ministro risponderà agli eminenti colleghi della Democrazia cristiana che hanno pronunziato discorsi di garbata, di correttissima, ma di vera e propria opposizione a questo disegno di legge. Io non penso di avere il compito di replicare; penso di avere, modestamente, come relatore di minoranza, il compito e anche l’opportunità di rilevare ciò che è stato detto, e che non deve andar perduto, nel quadro di questa discussione, almeno per quanto concerne la nostra doverosa attenzione. Il discorso che, senza fare torto agli altri, mi è apparso più significativo tra i discorsi di opposizione che sono stati pronunciati in quest’aula, lo ha pronunciato senza dubbio l’ onorevole Gui. Lo ha pronunciato l’onorevole Gui, anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione; e anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione, ahimè, bocciato dal Parlamento o dai partiti o dal suo stesso partito nel tentativo, anni or sono, di dar vita a una riforma universitaria. Ci voleva del coraggio politico da parte dell’onorevole Gui per intervenire in questo dibattito. Abbiamo notato, direi anche fisicamente, la difficoltà nella quale egli si trovava, la nobiltà e la correttezza con cui egli si è comportato nei confronti di un ministro che gli è succeduto nel tempo e che sembra possa aver miglior fortuna nei confronti di un disegno di legge di riforma universitaria.

Il discorso dell’onorevole Gui potrebbe essere definito correttamente il discorso delle contraddizioni. Non il discorso delle contraddizioni dell’onorevole Gui, ma il discorso delle contraddizioni che il discorso dell’onorevole Gui ha fatto scoppiare all’interno del disegno di legge sulla riforma universitaria portato avanti dall’onorevole Misasi. Io ho preso nota, spero diligente, delle contraddizioni che l’onorevole Gui ha rilevato in questo disegno di legge; non tanto nelle singole norme del disegno di legge, quanto nello spirito informatore del disegno di legge. Mi sembra che l’onorevole Gui abbia messo in luce almeno sei contraddizioni, la contraddizione tra autonomia universitaria e statalismo, la contraddizione tra titolo di studio di Stato e libertà dei piani di studio, la contraddizione tra liberalizzazione dell’accesso alla università e titolo universitario di Stato, la contraddizione tra regionalismo, nella funzione che gli si vorrebbe dare, e funzione dello Stato, la contraddizione tra le vecchie e le nuove baronie o per dir meglio l’inserirsi delle nuove baronie sulle vecchie, che dovrebbero essere tolte di mezzo e la contraddizione tra un vero progresso sociale ed un fittizio progresso sociale. Mi permetterò di fare qualche rapida citazione per mettere in rilievo quale sia l’importanza di queste contraddizioni rilevate dall’onorevole Gui, e per pregare cortesemente l’onorevole ministro di aiutarci a sciogliere questi nodi.

La prima e forse più grave contraddizione, è stata rilevata come dicevo prima tra autonomia universitaria e statalismo. Ha detto l’onorevole Gui il 21 ottobre in quest’aula (cito sempre dal resoconto stenografico immediato): «Avremo quindi università autonome dello Stato…, i cui poteri effettivi però distribuiranno i titoli di Stato». E ha aggiunto l’onorevole Gui: «In conclusione, a me pare che il disegno di legge rimanga in bilico, in qualche modo contraddittoriamente: adotta entrambe le logiche, sia pure con la prevalenza di quella dell’autonomia…». A noi sembra che sia proprio così, onorevole Misasi. Ella sa quello che è risultato dal divertente calcolo attribuito al calcolatore elettronico di Pisa; il calcolatore non so come vengano fatte simili operazioni, ma il Presidente Pertini ce lo dirà il giorno in cui ci spiegherà come funzionano quei tabelloni che sono appesi alle pareti ha effettuato un’operazione in base alla quale è risultato che le attribuzioni del Ministero della pubblica istruzione emergenti da questo disegno di legge sono assai più numerose (non voglio dire più importanti, perché sin qui forse neppure un calcolatore elettronico può arrivare) di quanto non siano state in precedenza, in base a tutta la legislazione del passato, non esclusa quella del tempo fascista. È uno strano andare innanzi, verso l’autonomia, quello che consiste nell’ accentuare la dipendenza delle università autonome dallo Stato. Qualcuno fra gli intervenuti, mi pare l’onorevole Lucifredi (e mi perdoni, onorevole Lucifredi, se sbaglio nella citazione), ha detto che è sommamente divertente la norma inserita in questa legge, in base alla quale non soltanto le università autonome, che per comodità possiamo chiamare statali, dipendono dallo Stato attraverso tutta una serie articolata di disposizioni, ma le università libere possono essere costituite soltanto mediante autorizzazione, con timbri e carta da bollo dello Stato. Questa è vero, onorevole Lucifredi è una delle cose più amene che mettono in luce e ha ragione l’onorevole Gui la contraddizione di fondo che pervade tutto questo disegno di legge. Con ciò non voglio dire che la nostra parte politica sia più favorevole ad uno statalismo più accentuato; intendo dire che voi non sapete quello che volete, e che volete tutto perché la legge è nata come tutte le leggi che nascono in questo clima ed in questo sistema da una serie di compromessi. E finché i compromessi si verificano in materia politica, o per altro tipo ed ordine di riforme, che attengono alla economia, non dirò pazienza, dirò male, ma si tratta comunque di problemi solubili in un divenire forse non remoto; ma quando i compromessi attengono alla materia dello spirito, della cultura, allora penso che i compromessi siano indecorosi. Così l’onorevole Gui ha rilevato l’antinomia tra il titolo di Stato e l’indiscriminata libertà dei piani di studio. Come può lo Stato mettere il proprio sigillo, un sigillo indiscriminato, quando è indiscriminata la libertà dei piani di studio? Come può essere eguale nella sua validità (ed eguale diventa per legge) un titolo di studio conferito allo studente tale o allo studente talaltro, quando si sappia che lo studente tale, attraverso la indiscriminata libertà dei piani di studio, ha facoltà di conseguire quello stesso titolo, quello stesso pezzo di carta, con uno sforzo infinitamente inferiore e quindi con un sapere conseguito infinitamente inferiore e più fragile di quello conseguito dal collega che ha scelto piani di studio di ben diversa mole? Anche qui mi sembra che la contraddizione rilevata dall’onorevole Gui esiste veramente.

E la contraddizione fra liberalizzazione degli accessi all’università e titolo di studio statale? Dice l’onorevole Gui: «Così, anche la liberalizzazione assoluta delle provenienze per l’accesso all’università, se da un lato ha rappresentato un elemento certamente democratico, una spinta in senso popolare per l’accesso agli studi universitari…, dall’ altro non è stata coerente con la logica profonda delle nostre istituzioni universitarie. Anzi è stato un elemento di contraddizione…».

E le regioni? Dice l’onorevole Gui (e lo dice l’onorevole Gui regionalista se lo dicessi io, solleverei scandalo. Io ricordo che, quando discutemmo delle regioni, l’onorevole Gui non dico che fu uno fra i più accaniti, ma comunque fra i più convinti penso di esprimermi correttamente sostenitori del regionalismo): «Abbiamo introdotto le regioni; abbiamo decentrato alcuni poteri dello Stato alle comunità regionali. Ma nessuno di noi si è sognato di decentrare alle regioni dei poteri grazie ai quali, legiferando, esse possono emettere leggi valide su tutto il territorio nazionale. Le regioni promuovono leggi valide per le regioni stesse; così ogni università dovrebbe emettere titoli di studio validi per quella università». E se per avventura, come molti colleghi hanno proposto, soprattutto da sinistra, i poteri delle regioni dovessero essere estesi all’ambito universitario, si dovrebbe stare bene attenti affinché le regioni non emettano norme universitarie valide da quella università per tutto il territorio nazionale, in quanto il detentore di un titolo di studio rilasciato da una qualsivoglia università, sulla base di norme diverse da quelle valide per le altre università, sarebbe portatore di diritti validi in tutto il territorio nazionale. Anche questa ci sembra una pesante contraddizione.

Quanto alle baronie, anche qui per non essere sospetto io leggo quanto ha detto l’onorevole Gui: «… in certo modo, con esso» (cioè con questo disegno di legge) «tutte le componenti universitarie diventano “baroni”, perché tutti esercitano un potere statuale senza controlli e senza risponderne ad alcuno. Si tratta, quindi, di una forma di irresponsabilità cui vengono spinti gli organi universitari, con la conservazione di tale contraddizione». Singolare: un disegno di legge anti-baronie il quale si conclude con la promozione, con la estensione, direi con la collettivizzazione delle baronie. È un pesante giudizio che noi riteniamo di condividere e siamo sicuri che l’onorevole ministro vorrà dare dei cortesi chiarimenti al riguardo. Ma di tutte le osservazioni fatte dall’onorevole Gui, quella che più mi ha colpito è l’ultima, quando egli dice: «… io penso anche alla delusione dei figli dei poveri, finalmente pervenuti faticosamente al traguardo universitario, che poi si ritroveranno nelle mani un titolo con un valore sostanzialmente limitatissimo». Siccome questa riforma, onorevole Misasi, è una riforma altamente sociale, perché liberalizza l’accesso all’università, perché democratizza l’organizzazione dell’università, perché non è una riforma classista in senso di destra, perché è una riforma che vuole consentire ai figli degli operai e dei contadini hanno detto i colleghi dell’estrema sinistra di godere degli stessi diritti di tutti gli altri giovani, ecco, io insieme con l’onorevole Gui penso al destino dei figli dei poveri i quali faranno tanta fatica per accedere all’università, si vedranno schiuse le porte del paradiso e, invece di salire su nei cieli, si troveranno nemmeno all’inferno, ma nel pre inferno, tra gli ignavi, senza infamia e senza lode, perché voti di lode non ce ne saranno davvero e voti di infamia non ce ne potranno essere, e gireranno, proprio come gli ignavi danteschi, dietro ad uno straccio, che naturalmente sarà uno straccio rosso, come tutti gli stracci dei quali è infetta l’attuale società culturale italiana.

Io penso che sul discorso pronunciato dall’onorevole Gui valesse la pena di soffermarsi, come vale la pena di soffermarsi sul discorso pronunciato dall’onorevole Lucifredi. E, come ho definito il discorso dell’onorevole Gui il discorso che ha fatto scoppiare le contraddizioni di questa legge, mi permetto, correttamente, di definire il discorso dell’onorevole Lucifredi come il discorso della moralità del docente. Io ho sentito nelle parole dell’onorevole Lucifredi l’accoramento non soltanto, anzi non tanto, del collega da tanti anni parlamentare, quanto del docente, anche e soprattutto perché l’onorevole Lucifredi ha dichiarato e io spero che non mantenga il proposito che questa è l’ultima legislatura alla quale avrebbe partecipato. Infatti, poiché si pone la incompatibilità fra docente universitario e parlamentare, preferisce lasciare le aule parlamentari e dedicarsi per sempre all’insegnamento. Questa dichiarazione se l’onorevole Lucifredi me lo consente- d’, avversario politico. Mi ha commosso, quanto la dichiarazione dell’ onorevole GUI a proposito dei figli dei poveri. Ecco, da un lato, questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di base, dall’ atro,questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di vertice. Da un lato,, i ragazzi dei poveri che otterranno dei pezzi di carta che ne faranno degli spostati e, dall’ altro, i docenti illustri, soprattutto, ma a parte questo i docenti coscienziosi che hanno dedicato alla università, alla cattedra e all’ insegnamento tutta la loro vita- che si sentono dire da un complesso di parlamentari cui la cultura di solito non arride che, siccome sono uomini di cultura, siccome sono docenti, siccome credono nella università, siccome hanno vissuto nell’università, siccome hanno vinto i loro concorsi, siccome sono stati apprezzati dagli alunni, siccome non sono stati contestati e gli alunni non sono capaci neppure ora di contestarli, li contesta un Parlamento al quale si accede anche se analfabeti, perché la prova di alfabetismo non esiste, un Parlamento nel quale non si parla, ma si legge e, molto spesso, si leggono discorsi scritti da altri. Questo Parlamento si arroga il diritto, onorevole Ministro, di cacciare, di eliminare i docenti per incompatibilità o, per lo meno, di metterli in condizioni di effettuare una dolorosa scelta come è il caso dell’onorevole Lucifredi. Io non sono docente universitario; sono stato un modestissimo insegnante di liceo: quindi, non parlo certamente per me. Dunque, un Parlamento che, essendo così fiorito di cultura e di personalità culturali e di grandi docenti, si permette di eliminare con un tratto di penna di un ministro o di una coalizione di Governo, per dare ascolto a qualche partito estremista in senso di sinistra, quel tanto o quel poco di cultura che vi aleggiava e che ci rendeva sopportabili talune interminabili sedute parlamentari.

Ecco, io ho apprezzato in questo senso il discorso che ha pronunziato l’onorevole Lucifredi, e mi ha ancor più impressionato il fatto che il collega abbia dichiarato di parlare non soltanto come docente, ma anche come rettore. L’unico che noi abbiamo l’onore, per adesso, finché non lo cacceremo, di avere in quest’aula. L’onorevole Lucifredi ha citato le deliberazioni o per dir meglio le raccomandazioni della conferenza nazionale dei rettori, unanime nel sostenere determinate tesi di critica di fondo nei confronti di questa riforma; tesi, per altro, che, provenendo dai rettori, non meritavano almeno così sembra di essere ascoltate. Si ha, cioè, nei confronti dei docenti, e dei rettori in particolare, ancora meno rispetto di quello che hanno taluni studenti contestatori nei confronti dei loro docenti. Non sono stati neppure contestati: non li ascoltano, non rispondono loro. Non credo che esista agli atti del Ministero della pubblica istruzione una risposta ufficiale alle raccomandazioni della conferenza dei rettori. “

MISASI:(Ministro della pubblica istruzione) “C’è stata la presenza assidua del ministro alla conferenza dei rettori. “

ALMIRANTE: “Ma la presenza è una risposta ufficiale?”

MISASI: “La presenza e la partecipazione. “

ALMIRANTE: “Ma i rettori hanno parlato prima, nel corso della lunga elaborazione di questo disegno di legge. I rettori, il Consiglio superiore della pubblica istruzione, l’organizzazione nazionale degli insegnanti universitari di ruolo, singoli insegnanti di ruolo, ai quali mi sono permesso di richiedere l’onore di poter parlare per essere informato circa questo provvedimento, si sono rivolti all’attenzione dell’onorevole ministro della Pubblica istruzione per avere una risposta. Credo che nessuno di loro l’abbia avuta. Certo, onorevole ministro, ella risponderà in questa sede, ne sono pienamente convinto, perché ella si assume le sue responsabilità. Ma se questo Parlamento dovesse davvero essere un organo di partecipazione, almeno a livello culturale, penso che ella avrebbe mancato ai suoi doveri non consentendo ai competenti di partecipare alla elaborazione di questo così importante disegno di legge. Abbiamo ascoltato un importante discorso di opposizione da parte dell’onorevole Riccio il quale si è lanciato sono parole sue che io non mi permetterei di usare contro la posizione «ipocrita e demagogica» di coloro che hanno formulato, presentato e sostenuto questo disegno di legge. Ipocrita e demagogica sono due aggettivi, uno solo dei quali basterebbe a sotterrare un ministro e un intero Governo, quando sono pronunciati da un docente in quest’aula senza, mi sembra, un contraddittorio adeguato. Infine abbiamo ascoltato con interesse il discorso di pesante opposizione formulato, sempre per quanto riguarda il gruppo della Democrazia cristiana, dall’onorevole Greggi, il quale ha dichiarato che questa riforma «istituzionalizza il caos o il rischio del caso», e addirittura che questa riforma «introduce i soviet» nell’università. Avendo così cercato di interpretare le tesi dei non molti colleghi della Democrazia cristiana che si sono espressi in favore di questa riforma e avendo messo in luce le tesi, gli addebiti, le accuse, le critiche dei colleghi della Democrazia cristiana che si sono pronunziati contro questa riforma, credo di avere adempiuto al mio ufficio di relatore di minoranza e di avere anche rilevato con obiettività che si tratta di un disegno di legge largamente non condiviso da coloro che avrebbero dovuto, invece, in quest’aula, se ne fossero stati convinti, sostenerlo.

Comunque mi permetto di non dire e lo faccio in assenza dell’onorevole Andreotti, per non comprometterlo, perché se arrivasse l’onorevole Andreotti non lo comprometterei con un mio riconoscimento (i riconoscimenti ce li possiamo scambiare soltanto alla televisione, con l’onorevole Andreotti, non certamente, da qualche tempo a questa parte, nelle aule parlamentari) che il gruppo della Democrazia cristiana si è impegnato massicciamente in questo dibattito, distinguendosi, come dicevo all’inizio, dal resto della quasi silenziosa maggioranza: socialisti, repubblicani e socialdemocratici, i quali nel loro insieme hanno ritenuto di condividere la tesi sostenuta con maggiore impegno e con maggiore serietà dal gruppo comunista, secondo la quale la legge «non va, ma bisogna far presto». I comunisti, per lo meno, dicono che la legge non va ma bisogna far presto: i socialdemocratici, i repubblicani e i socialisti dicono che la legge va benino (secondo i socialisti), va malino (secondo i socialdemocratici), va maluccio o quasi, o decisamente male (secondo i repubblicani), ma bisogna far presto. Sicché signor ministro, io non sono nella condizione di spiegare a me stesso, e tanto meno a lei, che certamente li conosce e ce li dirà, i motivi per i quali il parere dei repubblicani è un parere con riserve, quello dei socialdemocratici è un parere con forti riserve e quello dei socialisti è talmente riservato che nessuno se ne è reso conto.

Per i repubblicani l’onorevole Biasini, che pure è un docente, ha dichiarato: «Noi non riteniamo che questo progetto risponda totalmente alle esigenze storiche del momento. Noi dobbiamo riconoscere certi limiti che si rinvengono nel provvedimento». Poi ha continuato affermando che il provvedimento è urgente. Sicché noi siamo digiuni delle motivazioni storiche del Partito repubblicano storico, non conosciamo i limiti ai quali l’onorevole Biasini ha alluso e non sappiamo perché questo progetto secondo i repubblicani non risponda totalmente alle esigenze del momento. Per i socialdemocratici hanno parlato l’onorevole Ceccherini e l’onorevole Reggiani. L’onorevole Ceccherini, che non mi sembra sia un docente, ma credo fosse soltanto un «guffino», un universitario dei tempi dei GUF, ha dichiarato: «I social-democratici si rendono conto che la riforma universitaria, così come oggi ci viene presentata dopo l’approvazione del Senato e con gli emendamenti proposti in Commissione alla Camera, non è il punto di arrivo che essi si erano prefissi». Quindi, non è un punto di arrivo, non sappiamo se sia un punto di partenza, non sappiamo quale distanza ci sia dalla partenza o dall’arrivo; sappiamo soltanto che l’onorevole Ceccherini fa parte anche lui della maggioranza quasi silenziosa; voterà, credo, in favore di questo disegno di legge perché fa parte dei partiti di governo, ma si riserva un giudizio quando saremo più in là.

Non mi sembra nel complesso che l’atteggiamento politico della maggioranza, onorevole ministro, sia tale da confortarla per il discorso che ella dovrà pronunziare in sede di replica. E adesso passo rapidamente alle posizioni che sono state assunte dalle due opposizioni collaborative o quasi collaborative che si sono ormai delineate in quest’aula: l’opposizione collaborativa comunista e l’opposizione quasi collaborativa liberale. I colleghi liberali sono usciti quasi tutti, ma non si offenderanno per questo mio giudizio perché esso emerge, onorevole Misasi, nella sua obiettività dagli elogi che i colleghi del Partito liberale si sono premurati di conferire alla sua persona. Io credevo che la sua corrente politica fosse molto lontana dalle correnti liberali e invece ella ha avuto una singolare fortuna: i colleghi liberali nel corso di questo dibattito hanno elogiato il suo zelo, la sua prudenza, il suo impegno. Indubbiamente sono elogi sinceri e senza alcuna contropartita, perché il Governo non è ancora in crisi e pertanto non è maturo per il momento per una eventuale entrata liberale nella maggioranza.

Quanto agli oratori di parte comunista, il loro atteggiamento verrebbe definito da me emblematico se io appartenessi, onorevole Misasi, alla sua corrente che usa di questi termini. Non dirò quindi che l’atteggiamento comunista è emblematico, ma che è significativo, e che uno Io dico sempre cordialmente e senza offesa tra i discorsi più divertenti che siano stati pronunziati in quest’aula, lo ha pronunziato un oratore di estrema sinistra: credo che si tratti di un indipendente di sinistra, ma penso che sia abbastanza dipendente, ideologicamente e politicamente parlando, dal gruppo del Partito comunista, l’onorevole Mattalia, che fra l’altro è un docente, un rispettabilissimo docente. L’onorevole Mattalia ha parlato della necessità che la legge sia sollecitamente varata, con quanto consegue in ordine alla imperiosa accipicchia! opportunità di evitare proposte e iniziative che possano ulteriormente ritardare o bloccare l’ iter della legge, o addirittura metterne in giuoco l’esistenza. E ha aggiunto che la serrata dialettica delle parti si deve considerare sostanzialmente conclusa nell’altro ramo del Parlamento, e che quindi è ridotto lo spazio di agibilità innovativa riservato alla Camera dei deputati.

Io voglio sperare che al Presidente Pertini sia sfuggita la gravità di questa dichiarazione perché lo so molto sensibile, giustamente sensibile, dei diritti e delle prerogative di questo ramo del Parlamento nei confronti dell’altro ramo. Però ho trovato queste frasi diligentemente riportate dagli stenografi; non mi sono avveduto che sia scoppiato alcuno scandalo e quindi debbo pensare che l’onorevole Pertini non abbia registrato affermazioni di questa gravità. Ma la dichiarazione che questa non solo è una legge urgente, ma che è talmente urgente che ci si può accontentare, anzi che ci dobbiamo accontentare, noi deputati, di quanto il Senato ha dialetticamente dibattuto e che il nostro spazio di agibilità è ridotto quindi alla pura e semplice approvazione di quanto l’altro ramo del Parlamento ha voluto decidere, questa affermazione ripeto mi ha profondamente divertito, anche perché, se fosse partita dai banchi della Democrazia cristiana, avrei detto che un ingenuo collega democratico cristiano ha voluto rendere un servigio al signor ministro, lo ha voluto togliere dagli impacci, ha voluto far sì che la legge procedesse dirittamente. Ma quando un discorso, un ragionamento, se lo si può chiamar tale, una suggestione ecco, chiamiamola così di questo tipo parte dai banchi dell’estrema sinistra, che dichiara di essere la ruggente opposizione nei confronti di questo sistema, di questo Governo, non tanto di questo ministro che forse gode delle simpatie all’estrema sinistra, allora non posso che divertirmi e considerare collaborativa la posizione reale del gruppo comunista. Debbo dire che è collaborativa non soltanto attraverso quanto ha dichiarato l’onorevole Mattalia, che potrebbe essere considerato un indipendente, ma anche attraverso quanto hanno dichiarato ben più responsabilmente il relatore di minoranza di parte comunista, l’onorevole Giannantoni, e il principale esponente, credo, del Partito comunista in ordine ai problemi della scuola e della università in particolare, l’onorevole Natta, che è intervenuto nel dibattito. Credo valga la pena di fermarsi su alcune tra le tesi sostenute dal gruppo comunista perché questo confronto di tesi e di idee mi sembra assai importante data la rilevanza generale dell’argomento.

Il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha ritenuto di dover tirare fuori, nei confronti di questo dibattito, una tesi che da sinistra viene agitata da qualche mese, e soprattutto da qualche settimana a questa parte, come la più insinuante tra le tesi che possono essere sostenute da sinistra, cioè la tesi del «patto costituzionale». Non crediate che voglia approfittare della occasione per una digressione su questa aberrante teoria per quanto attiene alla elezione del Capo dello Stato; se ne parlerà al momento opportuno, in sede opportuna. Mi riferisco a quanto il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha detto a questo esclusivo riguardo con la seguente formulazione. Il disegno di legge per la riforma dell’università è di straordinaria importanza; siccome è tale in quanto attiene ad un ordinamento che è poi quello base o l’ordinamento emblema di tutta la società, si tratta di una legge di portata costituzionale, anche se formalmente si tratta di una legge ordinaria; siccome si tratta di una legge di portata costituzionale, allora una specie di patto costituzionale dovrebbe formarsi intorno alla elaborazione di questa legge e quindi alla elaborazione di questa legge dovrebbero partecipare tutte le forze politiche che fanno parte del patto costituzionale.

Ora, se il relatore comunista avesse voluto semplicemente dire che la legge è tanto importante che alla elaborazione attenta di questa legge deve partecipare tutto il Parlamento, avrebbe detto una cosa che il signor de La Palisse avrebbe detto prima di lui con altrettanta chiarezza. Penso che l’onorevole Giannantoni abbia voluto invece dire che, essendo questa legge di portata costituzionale per i motivi che si sono detti, il gruppo comunista deve contribuire alla elaborazione del disegno di legge, non debbono esservi sbarramenti, né steccati.

Contrariamente a quanto l’onorevole Natta può pensare circa i miei orientamenti al riguardo, non avrei nulla in contrario a ritenere che il gruppo comunista abbia tutto il diritto di contribuire alla elaborazione di un disegno di legge di questo genere. Perché no? Però a questo punto si scoprono le carte e qualcuno dice: vedo. E allora si vede quello che c’è dietro la profferta comunista, cioè qual è il contributo che l’attuale gruppo comunista o l’attuale Partito comunista è nella volontà, è nella condizione di dare per la elaborazione di un disegno di legge di riforma dell’università. Ho cercato di studiare con una certa attenzione, con una certa diligenza e con il rispetto che è dovuto ad un grosso (non ho detto grande) partito politico, ad un grosso gruppo parlamentare, le tesi che sono state espresse in questa occasione dal Partito comunista e in particolare dall’onorevole Natta.

Ho trovato, onorevole Natta, qualche cosa che mi piace. Per esempio quando ella ha dichiarato qui il 26 ottobre (resoconto stenografico immediato): «Oltre a ciò, sulla scuola e sulla università vengono a pesare le resistenze, i rinvii, le contraddittorietà di una politica di riforme; giacché nella scuola si ripercuote il complesso di fenomeni che caratterizzano l’attuale crisi della direzione, o dell’egemonia culturale e politica del nostro paese e, dirò anche, dello stesso ordinamento democratico»; ebbene, quando esce in simili affermazioni, ella altro non fa che denunziare, sia pure in modi a guise diversi (ma ciò che importa è la sostanza, non il modo), quella crisi di sistema che anche noi ci siamo permessi di prospettare nella nostra relazione di minoranza. A noi fa piacere rilevare che la crisi del sistema, specialmente in ordine alla scuola e più particolarmente all’università, quella crisi le cui ripercussioni di fondo si manifestano sulla scuola in genere e sull’università in specie, venga rilevata (non ho detto «confessata», ma intendevo dirlo…) anche o forse soprattutto da parte comunista.

Si tratta di una posizione seria e rispettabile, certo più seria e rispettabile di quella dei colleghi democristiani che parlano di empirismo e pragmatismo in tema di riforma dell’università, più seria e rispettabile della posizione dei socialisti, dei socialdemocratici, dei repubblicani, che stanno sotto le gonnelle di mamma Democrazia cristiana tentando di farle commettere qualche errore di più… Sta di fatto, però, che da parte dei comunisti viene denunziata la crisi del sistema, di questo sistema, la crisi degli ordinamenti democratici. Ora, quando si sostengono tesi di questo genere, si ha il dovere di porsi su una linea di alternativa, e non di alternativa generica. La logica del Partito comunista, anche se ingenua, potrebbe essere apprezzabile se quel partito rivelasse la volontà e la capacità di collocarsi in una posizione di alternativa nei confronti della società attuale. Ma il suo discorso, onorevole Natta, rivela che nemmeno il Partito comunista ha il coraggio di assumere una posizione di antitesi e di alternativa nei confronti di questo disegno di legge, di questa riforma universitaria, di questa scuola.

Voi, colleghi comunisti, non siete più sulle posizioni di contestazione globale sulle quali eravate stati trascinati nel 1968!. Avete riconosciuto criticamente, ve ne do atto, il dissolversi o l’esaurirsi di quel moto di contestazione e appunto per questo siete oggi, a vostra volta, contestati da sinistra, come è accaduto anche in questa aula da parte dei deputati del Manifesto, dei cui interventi mi occuperò più avanti. Ma se da sinistra siete contestati, colleghi comunisti, e se a vostra volta vi ponete come contestatori nei confronti dei partiti di Governo, dovete pur dire in che cosa vi distinguete dalla contestazione del 1968 e quali sono i motivi positivi della vostra contestazione. A che cosa mirate? Se vi opponete, o per meglio dire vi distaccate e vi dissociate responsabilmente dalla contestazione negativa e di struggitrice del 1968; se ritenete di non essere d’accordo con coloro che erano contrari alla cosiddetta «meritocrazia» e ad una scuola selettiva; se ritenete di non essere d’accordo con una concezione ortodossamente, ma certo ingenuamente e arcaicamente classista e marxista, quella dei colleghi del Manifesto, non dite però nulla, non dite più nulla, non siete più un partito rivoluzionario né un partito aperto alle spinte della società, ma soltanto un partito che arranca verso il tentativo di conquistare posizioni di potere insieme con quelle altre forze che voi criticate. Questa è la realtà. L’equazione fra «Partito comunista» e «partito conservatore» italiano (l’uno e l’altro ravvisabili sotto la stessa sigla: PCI) vi si attaglia proprio in ordine a questi problemi che riguardano la gioventù. Avete bruciato e gettato al vento i vecchi miti, senza che il loro posto sia stato preso da nuovi ideali. Prospettive in tal senso non emergono dall’intervento dell’onorevole Natta, nel quale vi sono soltanto tortuose affermazioni tendenti da un lato a criticare il disegno di legge e dall’altro lato ad inserire nel quadro del provvedimento portato avanti dal centro-sinistra non vostre tesi, colleghi comunisti, ma vostre posizioni politiche. In sostanza voi mirate, attraverso le tesi portate avanti nella discussione sulle linee generali e che saranno riprese negli emendamenti agli articoli, la cui sostanza già conosciamo, a far sì che il potere politico controlli dall’interno l’università. È questo il fine a cui tendete. Voi non volete la partecipazione alla vita dell’ università da parte dei discenti e dei docenti, sia pure nel quadro di una società vista da voi, in questo caso legittimamente, da sinistra, secondo gli schemi marxisti. Voi perseguite soltanto un fine di esercizio del potere politico, anzi partitico, anzi partitocratico nell’università.

I vostri emendamenti a questo tendono. Non tendono né alla cultura, né al sapere, né ad un nuovo rapporto umano fra docenti e discenti, né ad una nuova visione della società, della vita, del mondo: tendono soltanto a far sì che dalla conflittualità disordinata che la contestazione ha portato nelle università si passi all’imperio tassativo del Partito comunista o dei partiti di estrema sinistra o dei sindacati dei partiti di sinistra e di estrema sinistra all’interno dell’università. Questa è la trasparente manovra comunista. Sicché da un lato abbiamo lo squallido pragmatismo dei democristiani, ma dall’altro abbiamo tutta una serie di attentati contro la gioventù e contro i docenti che si compiono o si tenta di compiere da parte comunista. Quanto ai liberali, ho già risposto loro precedentemente per quanto riguarda la loro battaglia di fondo, che è quella relativa alla abolizione del valore legale dei titoli di studio. Per il resto debbo rilevare che anche il gruppo liberale, forse per una preoccupazione diversa e contraria, ma analoga nella spinta a quella comunista, cioè per una preoccupazione di inserimento, concede troppo al pragmatismo e troppo si discosta da quelle che dovrebbero essere e sono state in molte occasioni le sue tradizioni di attaccamento allo Stato: non allo Stato che controlli, soverchi e sovrasti, ma quanto meno allo Stato che indirizzi, promuova e coordini.

Debbo dire che mi hanno molto interessato, forse proprio per gusto se mi consentite di studio e di ricerca più ancora che per gusto strettamente politico, le posizioni assunte in ordine a questo disegno di legge dal gruppo socialproletario e dai deputati del Manifesto. Mi hanno molto interessato sia detto ancora una volta senza offesa non perché in termini politici si possa in questo momento attribuire soverchia importanza alle prese di posizione del gruppo socialproletario su questo disegno di legge e tanto meno forse alle posizioni del Manifesto, che sembra stia trasformandosi in partito politico (e farebbe bene a trasformarsi in partito politico e ad assumersi le relative responsabilità), ma perché tanto i colleghi del gruppo socialproletario quanto i colleghi del Manifesto si sono riferiti (e non potevano fare diversamente) alle posizioni del 1968, hanno mitizzato il 1968 dell’università italiana, della scuola italiana in genere, hanno quasi voluto contrapporre un 1968 «rosso» italiano, al famoso 1968 «tricolore» francese, e perché essi stessi pur mitizzando il 1968 dell’università italiana sono stati costretti a qualche severa autocritica, a qualche confessione illuminante. Per questo ritengo che siano interessanti i discorsi che essi hanno pronunziato. Per cominciare con il relatore del gruppo socialdemocratico, l’onorevole Sanna, la cui relazione mi debbo sinceramente congratulare è assai impegnativa ed ampia, oltre che densa di concetti, desidero ricordare che egli ha dichiarato che «la riforma dell’università deve essere una leva per cambiare la società». È una dichiarazione interessante, che noi accettiamo, se si parte da una tesi di contestazione nei confronti della società attuale. Ma anche se si parte da una tesi di parziale contestazione nei confronti della società attuale, è onesto concepire una riforma dell’ordinamento universitario come una leva per cambiare, naturalmente in meglio, la società.

Aggiunge l’onorevole Sanna: «Le disfunzioni dell’università si collocano infatti tra le contraddizioni della società capitalista e sono intimamente legate al ruolo che ad essa assegnano le classi dominanti». Ebbene, i colleghi del gruppo socialproletario e quelli del Manifesto, la sola estrema sinistra rimasta politicamente in Italia, essendo il resto «partito conservatore italiano» e non più «Partito comunista italiano», partito cioè privo di qualsivoglia spinta ed aspirazione rivoluzionaria, i colleghi di codesta combattiva, pugnace, insolente nei miei confronti (ma non me ne importa nulla), ma comunque rispettabile, in termini politici, estrema sinistra residua in Italia, dovrebbero avere la bontà di spiegarmi (è una domanda alla quale non chiedo risposta, è una domanda, al solito, che pongo alla mia coscienza, perché non riesco a comprendere, certo per mia immaturità) se si possa davvero parlare in Italia oggi di una scuola o di una università in crisi per esclusiva colpa della crisi insorta nella società capitalistica o se per avventura i demeriti non debbano essere distribuiti tra la società capitalistica, senza dubbio in crisi, e la larghissima espansione del marxismo in Italia in questo dopoguerra, da 25 anni senza alcun dubbio a sua volta in crisi. Perché se è vero, se è indubbiamente vero che la società capitalistica non è riuscita a partorire in questi 25 anni un rispettabile, producente nel quadro di quel sistema tipo di scuola, è certamente vero anche che la forte, la fortissima, la formidabile, la massiccia presenza, specie al livello di scuola, sia di scuola media, sia di università, del mondo marxista non è riuscita fino ad ora che ad aggravare i problemi, rendendoli in taluni casi, cronici, nonché ad accentuare il disorientamento delle giovani generazioni, ed a rendere la scuola ancora più estranea alla società.

Quindi, se voi vi fermate nella vostra critica ad una parte pur legittima della stessa, ma non procedete ad una autocritica e non cercate di vedere che cosa ci sia di rancido, di stantio, di vecchio, di inattuale, di non proponibile alle giovani generazioni, nelle vostre stesse concezioni, allora voi restate fermi al vostro cosiddetto glorioso 1968 che si è esaurito, che si è estinto, che non interessa più nessuno. Mi sembra che dimostri questo ciò che voi stessi dite quando affrontate i problemi un poco più da vicino. Cito sempre la relazione, per altro pregevole, dell’onorevole Sanna, il quale, credendo di mettere in rilievo la crisi del mondo o del sistema capitalistico, afferma: «Quando più si allarga l’università tanto più agiscono i meccanismi di selezione e cioè il censo e la didattica». Ora, è esattamente vero che il censo è un meccanismo di selezione alla rovescia. È vero anche che un meccanismo di selezione che si impernia sul censo è un meccanismo di selezione da respingere in toto, proprio perché non seleziona, perché impedisce la selezione vera, che consiste, come mi sono sforzato di sostenere nella mia modesta relazione di minoranza, nella trasformazione continua, perenne della quantità in qualità.

Ma porre sullo stesso piano la didattica, ritenere cioè che la didattica sia un sistema di selezione tale da dover essere condannato, e non sapere poi spiegare quale nuovo tipo e schema di didattica debba essere sostituito all’attuale, tutto questo denuncia il vuoto delle vostre posizioni, colleghi dell’estrema sinistra, cosiddetta rivoluzionaria! E non è che non vi sia un tentativo da parte vostra: sempre nella relazione dell’onorevole Sanna, leggo che «si è venuta sperimentando e affermando un’altra didattica attraverso i seminari di studio». Quali seminari? I seminari di cui parlava la riforma Gentile e che lo riconosco io stesso ebbero scarsa attuazione successivamente? Comunque quei seminari erano intesi in guisa non molto lontana da quella in cui dovrebbero essere intesi, specie se facoltativi, i futuri dipartimenti. Ma di quali seminari si parla da parte dei colleghi socialproletari e del Manifesto allorché si afferma che in codesti seminari si è instaurato un nuovo e più producente tipo di didattica? Io so che l’onorevole Niccolai, qui presente, vi ha dato un saggio, che non ripeto (anche per non essere costretto a far siglare alle gentili stenografe le parolacce che sono state costrette a siglare quando ha parlato l’onorevole Niccolai), di quel che siano taluni seminari nati, all’insegna del glorioso 1968, purtroppo in parecchie università italiane. A quali seminari si allude? Si allude al sistema, così largamente in vigore, delle lauree false, degli esami non facili, ma falsi, non addomesticati, ma chiaramente “fasulli”; si allude a quel volgare sistema, non di facilitazioni, ma di imbrogli, che si è affermato per colpa di certi tipi di contestazione in tanta parte delle università italiane? Di questo si vuole parlare, è questa la nuova didattica che si vuole sostituire all’antica? Oppure si vuol parlare di una didattica di gruppo, di équipe, alla quale noi non siamo contrari, purché naturalmente venga inserita ed instaurata nei dipartimenti scientifici (sarebbe molto più difficile inserirla ed instaurarla nei dipartimenti umanistici)? Ma si tratterebbe, al più, di un perfezionamento tecnico, di una innovazione tecnica, di un più attento studio dei modi e dei metodi. È mai possibile che l’estrema sinistra rivoluzionaria, quando si tratta di proporre una sua alternativa nel quadro di un problema così importante qual è quello della riforma della scuola e dell’università, altro non sappia che proporre di sostituire la didattica di seminario alla didattica attuale? È mai possibile che questo topolino sia generato dalla montagna di disordini che avete portato nelle scuole, nelle università, che ancora continuate a portare e che annunziate, nei vostri discorsi, di voler continuare a portare nelle scuole italiane? È mai possibile che vi esprimiate con tanta leggerezza nel momento stesso in cui i fatti vi costringono all’autocritica, perché perfino voi dichiarate di essere contrari agli esami facili o facilissimi di questi ultimi tempi? Sicché, se non vi è alcuna tesi, non dico rivoluzionaria, ma neppure aperta ad una prospettiva da parte dell’ormai conformistissimo Partito comunista italiano, non ve ne sono neppure da parte del gruppo socialproletario e dei deputati del Manifesto.

Con questo, onorevoli colleghi, ho esaurito la parte critica della mia esposizione, e sarò estremamente conciso nel riferirmi alla parte positiva perché, signor Presidente, ho compiuto almeno in parte il mio dovere attraverso la relazione scritta, che ho affidato alla cortese lettura del signor ministro e dei colleghi.

Circa la parte positiva, vorrei semplicemente limitarmi ad alcuni concetti. In primo luogo, vorrei rivendicare di fronte a tutta la Camera, quali che siano le opinioni di ciascuno perché se si distorce l’uso del vocabolario diventano impossibili il colloquio, la dialettica, e persino la polemica il corretto uso del termine «corporativo». I colleghi di tutte le parti politiche, da quella comunista fino a quella liberale, hanno infarcito i loro discorsi con uno scorretto uso di questo termine (e dico scorretto riferendomi soltanto all’uso del vocabolario). Lo ha fatto anch’ella, signor ministro, e non gliene faccio un addebito, perché questa è la moda corrente: però vorrei spiegare qual è il valore che tutti attribuiamo a questo termine, perché ci si possa capire. Tutti i colleghi hanno continuato ad usare questa parola nel senso esattamente opposto a quello che essa vuole avere, anche in senso storico (ed ai colleghi di parte democristiana il senso storico del termine «corporativo» non dovrebbe sfuggire); voi attribuite cioè al termine «corporativo» il significato di «settoriale», mentre esso ha un significato esattamente opposto, perché vuol dire superamento del settorialismo. È un’accezione politicamente non favorevole alle nostre tesi (ma io non mi sogno neppure di sollecitare da voi una interpretazione favorevole alle nostre tesi). Questa parola vuol dire, per lo meno, «coordinamento degli interessi settoriali», per l’appunto nel senso di capacità di articolare quello che è disarticolato, di mettere ordine in quello che è disordinato, ed anche di reprimere quelle spinte che potessero essere turbative dell’ordine e dell’armonia dell’intero sistema. Ordine corporativo significa questo; e badi, signor ministro, che io non sono polemico in questa parte della mia molto polemica esposizione, perché non sto facendo la difesa del sistema corporativo quale fu: non mi sogno di farla, non la farei, e non la sto facendo neppure in pubblici comizi perché ritengo che il sistema corporativo quale fu nel ventennio non abbia attuato se non in parte quella che era e rimane l’originaria ispirazione corporativa. Mi riferisco qui all’originaria ispirazione corporativa, che non ha i suoi testi ed i suoi autori soltanto in quella parte di tradizione nazionale che ci viene attribuita, ma anche in una parte di tradizione nazionale, culturale e sociale che voi democristiani vi attribuite normalmente. Io penso che la citazione della Rerum novarum sia d’obbligo quando si usano termini del genere e che il ricordo della scuola corporativa cattolica di Malines non sia sgradito anche ai più avanzati tra i portatori delle tradizioni cattoliche. Quando noi parliamo di concezione corporativa ci riferiamo, dal punto di vista tradizionale, a tutto il grande e glorioso filone corporativo, che dalla Rerum novarum è arrivato, attraverso il sindacalismo nazionale, fino alle espressioni corporative dello Stato, sia pure parzialmente o malamente attuate, e che continua con la nostra battaglia. Quando, riferendomi alla scuola, io parlo di ordine corporativo voglio attribuire un senso morale a quel termine di partecipazione che avete adottato voi e che abbiamo adottato anche noi, e che deve costituire uno dei cardini delle impostazioni positive più nobili e pregnanti di una riforma universitaria. Partecipazione sì, ma partecipazione con ispirazione corporativa, cioè antisettoriale, partecipazione al di sopra dei settori, con una forza coordinante ed armonizzante che ristabilisca nella scuola il rapporto umano tra docente e discente. Ecco la partecipazione corporativa nella scuola; non soltanto la partecipazione numerica e quantitativa, e tanto meno la partecipazione conflittuale e rissosa degli studenti da un lato, dei docenti dall’altro, del personale amministrativo, o di tutti insieme, in «parlamentini» che trasformino la partecipazione in una continua dissociazione. No: se la partecipazione deve diventare associazione di responsabilità, è una ispirazione corporativa vi piaccia o no che la deve muovere, spingere, stimolare e sollecitare. Questo è uno dei nostri concetti di fondo.

L’altro concetto di fondo è quello selettivo, che ci permette di superare agevolmente le apparenti contraddizioni tra scuola di massa e scuola di élite, che ci permette di dire che siamo favorevoli come dobbiamo essere civilmente favorevoli ad una scuola e ad una università aperte davvero a tutti, in grado di mettere tutti i giovani capaci e meritevoli (e il «capaci e meritevoli» sia costituzionalmente interpretato nella maniera più giusta) al riparo da ogni discriminazione di qualunque specie, da ogni discriminazione di casta, di classe o politica. La scuola deve mettere davvero tutti i giovani meritevoli e capaci nella condizione di accedere fino al più alto vertice della scienza e della cultura o, comunque, fino al più alto vertice degli studi. Non si può non essere civilmente favorevoli a un simile tipo di scuola; ma quanto più si è favorevoli ad una scuola aperta, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola selettiva, nel significato morale e spirituale che abbiamo detto; quanto più si è favorevoli ad una scuola non discriminante, dal punto di vista materiale, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola capace di discriminare nel senso dei valori spirituali. Giacché la vita è selezione di valori, che si debbono affermare dalla base al vertice; non debbono esservi ostacoli di diritto o di fatto. Vi sono i naturali ostacoli che Iddio ha posto fra uomo e uomo, non rendendoci tutti capaci delle stesse imprese né capaci di imprimere a noi stessi la medesima formazione culturale, il medesimo impeto di dottrine e di insegnamenti.

Ecco: una scuola basata sulla partecipazione corporativa, sulla selezione dei valori, è una scuola attrezzata tecnicamente a imprese del genere. Mi rendo perfettamente conto che è molto facile (come avrà ragione di rispondere l’onorevole ministro) da parte di un gruppo di opposizione chiedere che l’università italiana venga rapidamente attrezzata, per poter essere davvero aperta a tutti, selettrice onesta e seria di tutti i valori, capace di dispensare titoli che non siano pezzi di carta, e inserita nella società. Ma questo è il più alto compito sociale che l’ attuale regime (lo dico fuori da ogni polemica), ossia che tutti noi insieme partiti di governo e partiti di opposizione possiamo avere. Non c’è legge più importante di questa, perché non c’è legge che più di questa guardi verso il futuro. Noi siamo responsabili adesso non dell’ordinamento universitario dell’anno prossimo o dei prossimi anni (sicché è veramente assurda la fretta di alcuni settori). Noi siamo responsabili in questo momento verso le generazioni che verranno, noi creiamo in questo momento, o distruggiamo, la possibilità per l’Italia di avere una classe dirigente a livello culturale e quindi a livello politico; se non vogliamo stabilire diaframmi fra cultura e politica, se non vogliamo cacciare di qui i docenti cacciando, in sostanza, anche l’intelligenza, la cultura, la capacità dall’università italiana, noi dobbiamo legiferare in prospettiva. E allora i mezzi occorre che si trovino. Non voglio essere né polemico né irriguardoso a questo proposito, non voglio dire donde si potrebbero trarre i mezzi, da quali settori del sistema si potrebbero trarre in abbondanza i mezzi per far funzionare tecnicamente una rinnovata università italiana. Voi sapete che abbiamo ragione quando diciamo che i mezzi si possono reperire, che i mezzi si debbono reperire, e che gli strumenti debbono esservi. E allora, una scuola a larga partecipazione corporativa nel senso che mi sono permesso di restituire a questo termine, pulendolo da viete polemiche di parte; una scuola selettiva, una scuola tecnicamente attrezzata, ecco il disegno dell’università al quale noi guardiamo. E soprattutto una scuola che moralmente riceva l’esempio dalla classe dirigente del nostro paese.

Ho sentito con commozione dal collega liberale, onorevole Mazzarino, che mi ha preceduto, citare parecchie volte il nome di Francesco De Sanctis e mi permetto al riguardo, signor ministro, di ricordarle cose che certamente ella sa, ma che è bello ricordare a noi stessi nel momento in cui ci accingiamo a continuare, nell’esame degli articoli, il dibattito su questa legge. Mi permetto di ricordare a me stesso un episodio illuminante del nostro Risorgimento, quando Francesco De Sanctis, appena uscito dalle carceri borboniche, non riusciva a trovare in alcuna parte d’Italia cattedra dalla quale insegnare. Egli andò a Torino, ma non perché il governo piemontese avesse avuto il coraggio di assumere il professor De Sanctis patriota, ma perché gli studenti dall’ateneo di Torino si quotarono per pagare essi lo stipendio al professore De Sanctis. Nacquero da quell’incontro tra docente e discenti le miraboli lezioni del De Sanctis sull’Inferno di Dante. Mi si dirà: sarebbero nate ugualmente. Io non lo so. Ho la sensazione che quelle pagine siano scaturite così mirabili le più alte pagine della critica letteraria italiana proprio da un incontro morale, prima ancora che culturale, tra il docente che sapeva di essere amato oltre che capito, stimato e apprezzato dai discenti, e i discenti che vedevano nel docente il maestro.Auguriamo all’università italiana un simile destino, ma per poterlo augurare all’ università italiana auguriamo allo Stato italiano.”