Grosseto, sì della Prefettura a via Giorgio Almirante: si scatena la gazzarra della sinistra

Nascerà via Giorgio Almirante a Grosseto. La Prefettura ha dato il nulla osta dopo tre mesi dalla richiesta partita dall’amministrazione comunale guidata da Antonfrancesco Vivarelli Colonna, il sindaco della cittadina toscana che ha deciso di intitolare una strada sia allo storico segretario nazionale del Msi, sia ad Enrico Berlinguer, come esempio di pacificazione nazionale. Il via libera da parte del massimo organo governativo non ha spento, però, le polemiche.

Il sindaco: “Fatta giustizia”

Il progetto di toponomastica dell’amministrazione comunale parte da via della Pacificazione nazionale e arriva sino a via Enrico Berlinguer Berlinguer e via Giorgio Almirante. L’idea del primo cittadino grossetano è quella di costruire, attraverso i simboli storici, condivisioni politiche che spazzino via risentimenti e rancori. Vivarelli Colonna ha più volte ricordato che la proposta di intitolazione delle strade ad Almirante e Berlinguer è stata approvata per ben due volte dal consiglio comunale. Ma tutto questo non ha spento le polemiche speciose di alcuni settori della sinistra.

“No ad Almirante a Grosseto”

 Reazioni isteriche sono arrivate puntualmente dalla sinistra. Parla di “revisionismo storico” la capogruppo alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra, Luana Zanella, citando un passo di uno scritto di Almirante pubblicato su “La Difesa della Razza” in cui scriveva che “il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti”. Dal Partito Democratico, invece, accusano la prefetta, per mezzo del deputato dem Marco Simiani, “di non avere sensibilità. La pacificazione non si impone con la toponomastica ma con il rispetto di tutte le posizioni politiche e non dimenticando fatti tragici causati dalla violenza nazista e fascista”. Anche l’Anpi non si tira indietro, annunciando che “faremo le nostre valutazioni rispetto all’eventualità e ai contorni di un ricorso al Tar”.

La prima via al leader del Msi trent’anni fa da un esponente della sinistra

La prima via intitolata a Giorgio Almirante in Italia fu ad opera, nel 1993, di Costantino Belluscio, per anni deputato del Psdi e segretario particolare di Saragat al Quirinale, sindaco di Altomonte, in provincia di Cosenza. Non ci furono polemiche, nessuno si scandalizzò. In Italia ne esistono oltre duecento. Il passo indietro compiuto in tutto questo periodo è il sintomo di una regressione culturale impressionante. Almirante è stato il simbolo dell’onestà politica, deputato per 40 anni, capace di un gesto simbolico forte come la presenza ai funerali di Berlinguer. Una figura politica che molti elettori della sinistra rispettano come rappresentante di idee e azioni improntate sulla coerenza e sull’etica.

Le amnesie di un antifascismo insopportabile

Guardare alla storia con gli occhi del presente è sempre un esercizio sterile. Le obiezioni su Almirante e sul manifesto della difesa della razza sono strumentali e ambliope. Rileggendo gli articoli di Eugenio Scalfari, Enzo Biagi, l’adesione di Dario Fo alla Rsi(solo per citare alcuni dei totem della sinistra passati per il fascismo e autori di scritti non certo edificanti in quel periodo), bisognerebbe adottare lo stesso metro di giudizio. Decontestualizzare senza operare un distinguo tra prima e dopo serve solo ad alimentare un antifascismo inutile. Da Grosseto arriva un messaggio di superamento di steccati e contrapposizioni che trent’anni fa sembravano non esistere più. E che oggi paiono l’espressione di una triste involuzione culturale.

Enrico Berlinguer moriva 39 anni fa. Il gesto di Almirante fu il simbolo dell’omaggio dell’Italia intera

Quel giorno di 39 anni fa molti di noi ricordano cosa stavano facendo. Quella sera, il 7 giugno , in piena campagna elettorale per le elezioni europee, Enrico Berlinguer cadde  sul palco di Padova colpito da un ictus. Morirà quattro giorni dopo e il Pci, sfruttando l’effetto commozione, diventerà il primo partito italiano. Icona straordinaria della sinistra massimalista, sardo e borghese, ricco di famiglia, Berlinguer aveva incarnato lo spirito proletario non senza contraddizioni.

Negli anni Settanta a Sofia avevano tentato di farlo fuori. In un’intervista dichiarò di sentirsi più sicuro “sotto l’ombrello della Nato” nonostante quella spettacolare organizzazione del suo partito, con migliaia di funzionari, si reggesse grazie ai dollari che annualmente il Pcus gli elargiva. Sul piano strettamente politico Berlinguer aveva subito una sorta di trauma con l’omicidio Moro, che congelava ogni ipotesi di costruzione alternativa con il Pci protagonista.

Craxi, il nemico

In quel 1984 c’erano un Capo dello Stato socialista ma soprattutto un Premier socialista, autonomista e coraggioso che aveva, con molta spregiudicatezza, lanciato una sfida di riformismo e di modernizzazione culminata con Il decreto di San Valentino sulla scala mobile. Craxi era già il nemico da abbattere dal Pci. Berlinguer, destinato eternamente all’opposizione, il Papa di una Chiesa che raccoglieva il consenso di un terzo degli italiani. Quell’emorragia cerebrale arrivò mentre l’Urss si apprestava ad eleggere segretario Gorbaciov e ad avviare un quinquennio di glasnost che sarebbe coincisa con il dramma della implosione e della caduta del socialismo reale nella cortina di ferro. Un po’ di anni prima, Berlinguer aveva posto la questione morale. Un’accusa  implicita al sistema di corruttela del pentapartito ma anche un monito a una flessione notevole dei valori morali che stava attraversando gli anni Ottanta.

Per molti la morte di Berlinguer fu la fine della Prima Repubblica

Berlinguer morì sul “lavoro”, così come avrebbe fatto quattro anni dopo Giorgio Almirante. Proprio il leader missino fu , per citare la figlia Bianca, l’emblema  migliore dell’omaggio dell’Italia intera a Berlinguer con quella lunga camminata da cittadino anonimo in fila per salutare il feretro. Quella sera di 39 anni fa segnò per molti versi la morte anticipata della prima Repubblica. Il leader che cede nella drammaticità delle immagini conferma la corporeità di ciò che rappresentava. Era un uomo che portava in sé il carisma tipico di quelle guide immanenti che, proprio come i Papi, vanno via solo con la morte. 40 anni dopo il deserto totale accompagna la politica. Non più divisa per classi o per rappresentatività. In un mondo totalmente cambiato nemmeno la questione morale ha più lo stesso sapore. In mezzo, nonostante la sua antistoricità, l’immagine eterna di un uomo che ispirava fiducia in chiunque ne incrociasse lo sguardo. Un uomo onesto.

RADICI PROFONDE SI PENSIERO UNICO NO , intervento di Roberto Rosseti

Martedi 30 maggio nei saloni della Fondazione An in via della Scrofa si è tenuto un
convegno- dibattito sul tema: “Radici profonde si, pensiero unico no” che aveva lo
scopo di rappresentare tutte le posizioni del mondo di destra in questo particolare
momento politico e gli stretti legami con quello che ha rappresentato la cultura di
destra in Italia. Sono stato invitato ad intervenire quale membro della Fondazione
Giorgio Almirante ed ho avuto in tal senso l’avallo di Giuliana De Medici. Quanto
ripropongo è una sintesi dell’intervento a conclusione del convegno.

“Credo che sia opportuno affermare immediatamente che siamo tutti convinti della
impossibilità del ritorno del FASCISMO come forma di potere politico, diverso è
ritenere che, se è vero che si parla di radici profonde, non si possa onestamente
confessare che la generazione a cui appartengo e quella che va dalla fondazione del
Msi sino al 1994, faceva riferimento in maniera esplicita a quella esperienza di
governo anche se con la formula: “Non rinnegare,non restaurare”. Quello che si
chiedeva era esclusivamente un giudizio obbiettivo legato al periodo storico in
quelle vicende avevano avuto luogo. Ed è per questo che ,prima, vorrei parlare di
altri pilastri della civiltà che hanno avuto la loro culla in Italia: L’Impero Romano ed
il CATTOLICESIMO.
A dimostrazione che la storia la raccontano sempre i vincitori ancora adesso nella
scuola molti studenti liceali si cimentano nella lettura del De Bello Gallico, opera di
Giulio Cesare che racconta della strage dei Galli. E’ lo stesso condottiero romano
che quando parla della battaglia di Alesia racconta che, grazie a quella vittoria,
vennero uccisi oltre un milione di Galli. Un vero e proprio genocidio. Non che i
romani siano stati più generosi o meno sanguinari in altre occasioni basti pensare
alla totale distruzione di Cartagine, con tanto di spargimento di sale sulle rovine
perché non crescesse neanche più l’erba, al termine delle guerre puniche, o alla
conclusione della rivolta di Spartaco con la crocifissione di tutti gli schiavi, uomini o
donne che fossero, che avevano partecipato all’insurrezione.
Toccherà poi ai martiri cristiani essere dati in pasto alle belve in quanto eversori
dell’ordine pubblico e destabilizzatori dell’impero romano.
Le persecuzioni nei loro confronti cesseranno nel 313 d.c con l’editto di Costantino
ma basteranno soltanto 70 anni, quando con l’editto di Tessalonica il Cristianesimo
diventerà religione di Stato, per trasformarsi da vittime in carnefici. Da allora inizia

una serie di stragi di chi non vuole rinunciare alle divinità pagane, distruzione dei
templi, saccheggi di intere città. Riporto solo alcune delle più conosciute in ordine
temporale e tratte dall’inchiesta: “I crimini della Chiesa Cattolica”
Nel 782, 4.550 Sassoni vengono “cristianamente” decapitati su ordine di Carlo
Magno per aver rifiutato il battesimo cattolico.
Nel 1096, 800 ebrei vengono massacrati dai cattolici a Worms, in Germania ed altri
700 ebrei vengono massacrati a Magonza.
Nel 1191, 2.700 progionieri di guerra musulmani sono cristianamente decapitati
dai Cristiani in Palestina.
Nel 1208, 20.000 “eretici” catari vengono massacrati dai Crociati a Beziers in
Francia.
Nel 1219 altri 5.000 catari sono massacrati a Marmande, sempre in Francia.
Nel 1391 4.000 ebrei sono massacrati dai cattolici a Siviglia in Spagna.
Non possiamo poi tralasciare ciò che avvenne durante le Crociate: nella cosidetta
crociata dei pezzenti vi furono violenze inenarrabili che causarono la morte di
migliaia di persone: venivano arrostiti allo spiedo perfino i bambini! Quando, nel
corso della prima crociata, fu presa Gerusalemme nel 1099, furono trucidate dai
Cristiani 60.000 persone, senza nessuna distinzione tra musulmani, ebrei, donne e
bambini. Le violenze si ripeteranno per tutte le altre Crociate.
Con l’istituzione della Santa Inquisizione si arrivò al risultato di ottenere le
confessioni estorte con le torture più svariate. E si arriva fin quasi ai giorni nostri
visto che possiamo parlare di quanto compiuto nell’evangelizzazione del Sud
America
Sia ben chiaro che , se parliamo di religioni ,l’Islam non è stato certo da meno anzi
l’Isis o Al Qaida sono fenomeni attuali e sono migliaia le loro vittime in tutti gli
angoli del mondo.
Questo per dimostrare che il giudizio storico che viene dato non si basa solo ed
esclusivamente sugli atti, sia pur terribili compiuti, ma sul complesso dei risultati che
tali fenomeni religiosi, politici o culturali hanno raggiunto nel corso dei secoli.
C’è un solo fenomeno che riesce forse a superare, in quanto a numeri negativi , gli
esempi riportati ed è il Comunismo. Questi, in estrema sintesi, i risultati ottenuti dai
seguaci di Marx.
 URSS, 20 milioni di morti,
 Cina, 65 milioni di morti,
 Vietnam, un milione di morti,
 Corea del Nord, 2 milioni di morti,

 Cambogia, 2 milioni di morti,
 Europa dell'Est, un milione di morti,
 America Latina, 150 mila morti,
 Africa, un milione 700 mila morti,
 Afghanistan, un milione 500 mila morti
Se poi vogliamo guardare a tempi più vicini possiamo citare la strage degli
Armeni, il Darfur, Ruanda, Timor Est, i Balcani, quanto avviene in Libia, Somalia,
Yemen, Siria, Iraq. Non c’è parte del mondo che non abbia le sue vergogne da
nascondere.
Ma veniamo ai tragici numeri che inchiodano la dittatura fascista allesue
responsabilità. N u eri reali che sono il frutto degli studi e delle pubblicazioni di
chi l’ha osteggiata e combattuta.
Dal 1926, data di esordio del Tribunale Speciale che doveva giudicare i crimini
contro il fascismo e comprende omicidi, attentati e addirittura il tentativo più
volte di assassinare Mussolini, le condanne a morte emesse sono state 24 fino al
1942, in tutto 5619 i detenuti politici.
Per fare un paragone basti pensare che solo dal 1970al 1983 sono stati più di venti i
giovani missini assassinati soloperchè iscritti al partito o alle sue organizzazioni
giovanili-
Se parliamo però delle vittime del terrorismo i questi quasi 80 anni di splendida
democrazia repubblicana arriviamo tranquillamente ad oltre un migliaio di vittime
ed i detenuti politici sono complessivamente decine e decine di migliaia. E non esiste
strage in cui non siano coinvolti uomini dei servizi segreti italiani o comunque legati
ai servizi. E non chiami moli “deviati” perché i responsabili politici erano sempre
uomini facenti parte del potyere istituzionale. Per essere precisi quasi tutti
democristiani.
Proprio la settimana scorsa, nell’ambito della trasmissione condotta da Andrea
Purgatori sulla Sette, l’ex magistrato ed parlamentare del Pd Pietro Grasso non si è
vergognato di raccontare come,nell’esercizio delle sue funzioni, fosse venuto a
conoscenza da alcuni pentiti che, alcuni attentati compiuti sul continente dalla mafia
ed altri che dovevano essere progettati , dovevano avere la firma “Falange armata”.
Sigla già usata diverse volte per fare ricadere su presunte organizzazione neofasciste
la responsabilità.
Non solo ma , visto che sono qui nella veste di componente della Fondazione Giorgio
Almirante, vorrei ricordare che le uccisioni di militanti missini ed il tentativo di
criminalizzare un mondo nascono dopo i grandi successi elettorali del 1970 e 1971. Il

primo tentativo di accusare l’Msi di ricostituzione del partito fascisto è del 1973 e
verrà inutilmente reiterata nel 1975, 79 ed 82.
Visto che non si riescono ad ottenere risultati neanche in questa maniera si tenterà
la carta della scissione con Democrazia Nazionale nel 1976- Fanfani ne è la mente
coadiuvato dal suo collaboratore e capo ufficio stampa della Rai nonché sindaco di
San Felice Circeo, Giampaolo Cresci, che offre incarichi e contratti. I finanziamenti
sono garantiti dalla P2 e da un signore allora sconosciuto: Silvio Berlusconi, come
racconterà lo stesso parlamentare scissionista Raffaele Delfino.
Se ne vanno 17 parlamentari su 34 e nove senatori su quindici ma l’esperienza
abortisce nel 1979 quando alle elezioni nessuno verrà riconfermato da popolo
italiano. Questa è la storia e non rispettarla o tentare di nascondere la verità
significa tagliare le proprie radici.
Proprio in quell’anno, al dodicesimo congresso del Msi che si tiene a Napoli,
Giorgio Almirante lancia una battaglia che rappresenta una svolta assoluta nel
campo delle riforme istituzionali. Sopra il banco della presidenza lo striscione porta
la scritta: Per una nuova repubblica.
Quest0 quanto riportato nella mozione di maggioranza:
“Occorre un’autonomia, morale quindi culturale e quindi politica , che ci consenta –
soprattutto al cospetto delle nuove generazioni – di presentarci come autentica forza
di rinnovamento.
La modernità, cioè la volontà e la capacità di guardare ai grandi problemi della
società contemporanea, senza complessi di inferiorità, nei confronti delle nostre
come delle altrui tradizioni; e quindi di saper essere opposizione creativa e non
soltanto negativa e distruttiva.
La popolarità, cioè il costante contatto con il partito e la società, tra i rappresentanti
del partito nelle assemblee elette dal popolo e gli interessi morali e materiali, in una
costante e sempre più valida mobilitazione a favore degli interessi reali-
Per condurre tale battaglia con efficacia e con stile, con validità di
contenuti……..occorre portare avanti con coraggio, da posizioni di avanguardia il
discorso che si impone ormai alla coscienza degli italiani; il discorso sulla nuova
Repubblica, visto il conclamato fallimentare della prima Repubblica italiana del
dopoguerra, e quindi il il discorso sullo Stato e sulla societภil discorso sull’Europa; e
pertanto il discorso sul sistema, quello che le altre forze politiche da qualche tempo

chiamano il discorso sulla “terza via” o sul “terzo modello”, previo riconoscimento,
che sembra unanime, della non validità sia del primo che del secondo modello, cioè
del modello marxista che del modello capitalista.”
“Il vero discorso che si deve aprire è quello della integrale revisione della Costituzione
, per trasformare l’Italia, con tutte le garanzie della libertà, in una Repubblica
sganciata dalla partitocrazia al vertice, cioè con Presidente eletto dal popolo, dotata
di autorità, cioè con Presidente in grado di nominare l’esecutivo e con esecutivo
immune dai capricci e dai ricatti di una partitocrazia arbitra del Parlamento, fornita
di adeguati controlli, con un Parlamento eletto e selezionato non soltanto nel nome
dei partiti , ma con la rappresentanza delle categorie ed il requisito della competenza
associato a quello della rappresentanza politica. L’attuale Costituzione della
Repubblica, in nome della quale tanti delitti si commettono e tante lacrime inutili si
versano, è dai suoi stessi genitori abbandonata e tradita .”
Soltanto cinque giorni dopo la fine del Congresso di Napoli, il 12 ottobre 1979, il
presidente del gruppo del Movimento Sociale alla Camera, on. Alfredo Pazzaglia
portava formalmente il problema in Parlamento e , intervenendo nel dibattito,
chiedeva un’autentica riforma istituzionale che indirizzasse il Paese verso una
“Nuova Repubblica per superare la crisi del sistema”.
Su questo tema Almirante ed il Movimento Sociale Italiano si sono spesi per anni
tanto è vero che nel 1982, in occasione del tredicesimo Congresso di Roma ,
Almirante presentò addirittura il progetto di una nuova Costituzione che
prevedesse, oltre alla elezione diretta del Presidente della Repubblica anche quella
dei Presidenti delle Regioni,dei Comuni e delle Province, un Parlamento
monocamerale eletto per metà dal popolo e metà dalle categorie. Molte di queste
proposte sono state acquisite nel tempo tanto è vero che , attualmente, si decide
così per Regioni e Comuni, le province non esistono più, ma ci si è ben guardati dal
dire chi per primo aveva avuto questa intuizione.
La commissione Bozzi, la commissione Jotti, Bettino Craxi, Giuliano Amato,
Gianfranco Miglio, Mario Segni, via via fino ai tempi nostri non vi è stato qualcuno
che non si sia appropriato ingiustamente di una proposta che ha un padre e di cui si
conosce perfettamente il nome. E’ lo stesso uomo che, prima di qualsiasi altra cosa,
ci ha insegnato come si deve vivere, come ci si deve comportare anche a costo di
rischi e sacrifici ma senza mai abbandonare un’unica bandiera: la coerenza. Questo è
il suo testamento al quale spero ancora oggi di non dover mai venire meno.

“ Noi siamo caduti e ci siamo rialzati parecchie volte. E se l’avversario irride alle
nostre cadute, noi confidiamo nella nostra capacità di risollevarci. In altri tempi ci
risollevammo per noi stessi. Da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani,
per salutarvi in piedi al momento del commiato, per trasmettervi la staffetta prima
che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a
trasmetterla. Accogliete dunque, giovani, questo mio commiato come un ideale
passaggio di consegne. E se volete un motto che vi ispiri e vi rafforzi, ricordate:
Vivi come se tu dovessi morire subito
Pensa come se tu non dovessi morire mai .
Se le sue idee sono talmente attuali e moderne che , a distanza di quasi 44 anni dalla
loro enunciazione, nessuno ancora è riuscito a realizzarle , a maggior ragione deve
essere apprezzato il suo comportamento a livello umano perché non ha mai
rinunciato o rinnegato quello in cui credeva. Ed è per questo che in me è profonda
la certezza di essere un convinto Anti-antifascista.
Roberto Rosseti

Visita al Museo Internazionale delle Guerre Mondiali a Rocchetta Nuova ( Isernia )

E’ stata una piacevole scoperta il Museo internazionale delle Guerre Mondiali a Rocchetta Nuova in Prov. di Isernia .

La presenza di tantissimi reperti della Prima e Seconda Guerra Mondiale, divise militari di quasi tutti i Stati che hanno partecipato alle Guerre,

in particolare la Seconda Guerra Mondiale, le armi, alcune uniche, oggetti di uso quotidiano, scritti e articoli di giornale, dimostrano la passione e la dedizione del Direttore Johnny Capone .

La Fondazione Giorgio Almirante, nella persona del suo segretario Nazionale  Giuliana de’ Medici, ha fatto vista al museo dove e’ stata accompagnata dal suo Direttore che si e’ dimostrato

informatissimo, disponibile, appassionato e cordiale .

I cimeli storici presenti sono un piccolo gioiello ricco di storia, cultura e storia delle guerre .

Lodevole e’ la collaborazione con l’Universita’ degli Studi del Molise e la Società Italiana di Storia Militare .

Visitando il Museo ci si rende conto di quanto sia importante mantenere la memoria, anche quella degli orrori delle guerre.

Assolutamente consigliato, da non perdere soprattutto per gli appassionati della Storia Militare .

Vi invitiamo ad andarlo a visitare, ne vale la pena. Unico nel suo genere.

 

 

 

35 anni fa moriva Enzo Tortora ; 1979 video intervista a Giorgio Almirante

35 anni fa moriva Enzo Tortora, condividiamo una speciale intervista a Giorgio Almirante, la trasmissione condotta da Tortora è andata in onda nel 1979, la rubrica si chiamava Contropelo; la particolarità della rubrica era la modalità in cui gli invitati venivano intervistati, sulla poltrona del barbiere.
Almirante fu il primo, tra i personaggi politici invitati, ad essere intervistato in questo programma.

 

Un anno fa ci lasciava Donna Assunta Almirante

Mercoledì 26 aprile presso la basilica di Santa Maria in Montesanto in Piazza del Popolo (Chiesa degli artisti) alle ore 19:00; verrà celebrata una Santa Messa in ricordo di Assunta Almirante, che ci ha lasciato lo scorso 26 aprile 2022.

Natale di Roma

Oggi 21 aprile si festeggia il Natale di Roma, anticamente detto Dies Romana. Secondo la leggenda, ricadrebbe oggi l’anniversario della fondazione della città da parte di Romolo, nel 753 a.C.
La Fondazione Giorgio Almirante manda un sincero augurio agli amici romani; e si impegna ad estendere tale augurio a tutta la nazione. In memoria della data di fondazione della nostra sacra ed eterna capitale. Culla della nostra civiltà mediterranea, italiana ed europea.
Ad urbe condita, tanti auguri Roma.
Potrebbe essere un'immagine raffigurante il Tevere e Piazza di Spagna
Tutte le reazioni:

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PRIMAVALLE 1973

Ho conosciuto Virgilio quando facevo parte della giunta provinciale del Movimento Sociale Italiano di Roma, in via Alessandria. Il mio compito era svolgere un lavoro di raccordo fra le attività delle sezioni di partito ed il nostro quotidiano: “Il Secolo d’Italia”. Per questo motivo, avevo rapporti con tutti i segretari di sezione ed ebbi modo di conoscere Mario Mattei, il padre di Virgilio, che aveva assunto il non facile ruolo di dirigere la sede di Primavalle, un quartiere dove era fortissima la presenza delle formazioni extraparlamentari di sinistra.

Mario, pur essendo una persona mite, non aveva mai avuto paura in vita sua, neanche quando, prigioniero di guerra nel “Fascist Criminal Camp” di Hereford in Texas, aveva avuto modo di conoscere i metodi di rieducazione dei difensori della democrazia statunitensi. Portava infatti degli occhiali dalle lenti molto spesse frutto dei numerosi colpi di bastone che i prigionieri ricevevano sulla testa passando in mezzo alle ali dei loro custodi, che avevano il compito di insegnare loro a non disubbidire agli ordini.

Insieme a lui avevano subito lo stesso trattamento uomini come Roberto Mieville, uno dei primi parlamentari del Msi, il pittore Alberto Burri, il futuro sindacalista Gianni Roberti, Vincenzo Buonassisi, lo scrittore Gaetano Tumiati, Beppe Niccolai. Gente sicuramente fuori dal comune che, al loro rientro in Italia, contribuirà non poco a risollevare le sorti della Patria. Mario era uno di loro e si era sposato con una donna altrettanto fiera e coraggiosa, Anna, conosciuta, guarda caso, frequentando le sedi del partito e soprattutto quella di Prati.

Virgilio accompagnava spesso il padre in via Alessandria ed anche a via Quattro Fontane, sede nazionale del Movimento Sociale, dove, al primo piano, erano le stanze dei Volontari, guidati da Alberto Rossi e di cui facevano parte Mario e Virgilio, che avevano il compito di difendere i comizi del segretario del partito nei luoghi ritenuti più pericolosi. 

Ho letto recentemente in un libretto sull’incendio di Primavalle pubblicato come allegato della Gazzetta dello Sport (scritto da tale Davide Serafino e a cura della professoressa Barbara Biscotti, titolare della cattedra di Diritto Romano presso l’Università di Milano-Bicocca), che i Volontari sarebbero stati un corpo paramilitare. Si vede proprio che spesso chi scrive lo fa in base a scarse conoscenze di cui non verifica la fonte. I Volontari erano persone normali e nella loro vita quotidiana svolgevano ruoli e compiti che con il militare non avevano proprio nulla a che fare. Erano studenti, operai, gente comune, gente del popolo, ritenevano un dovere permettere al segretario del partito in cui militavano di poter esporre le proprie idee senza che altri compissero agguati o gesti di violenza.

Spesso ne pagavano loro stessi le conseguenze come accadde al povero Ugo Venturini, colpito alla testa a Genova il 18 aprile del 1970 con una bottiglia piena di sabbia e sassi lanciata da estremisti di sinistra contro il palco da cui parlava Giorgio Almirante. Venturini era un operaio di 32 anni, sposato e padre di un bambino che non rivedrà mai più perché morirà in ospedale il primo maggio di quello stesso anno.

Neanche dopo tanti anni si evita di fornire interpretazioni volutamente fuorvianti per mettere in cattiva luce solo ed esclusivamente una parte politica. Ma quale corpo paramilitare? Se almeno avesse avuto un casco in testa, un elmetto, Venturini non sarebbe certamente morto, ma la “divisa militare” dei “volontari” purtroppo non prevedeva neanche questo…

Tornando a Virgilio, così iniziò la nostra amicizia. Perché, nonostante fosse più giovane di me di diversi anni, avevamo anche frequentazioni in comune al di fuori della vita di partito. Quello che però cementò definitivamente il nostro rapporto fu un viaggio che decidemmo di intraprendere insieme per proteggere dagli assalti dei “Katanga” di Capanna un comizio di Giorgio Almirante a Milano.

Era il 10 ottobre del 1971 e ci demmo appuntamento, veramente in tanti, alla stazione Termini per prendere il treno che al mattino presto ci doveva portare nel capoluogo lombardo. Contrariamente alle aspettative, non ci fu nessun agguato e nessuna provocazione durante il percorso verso la piazza dove si svolgeva la manifestazione e neanche durante il comizio che si chiuse in un tripudio di folla. Fu così che riprendemmo la metropolitana e ci incamminammo verso la Stazione Centrale per tornare a Roma.

Ricordo che ci dividemmo nei vari scompartimenti ed io, insieme ad una giovane militante e ad un ragazzino di 17 anni (il terribile corpo paramilitare) eravamo posizionati verso la parte finale del convoglio. Fu così che nelle stazioni successive vedemmo entrare nei vagoni persone che avevano manici di piccone, bastoni, chiavi inglesi, bandiere rosse. Per nostra fortuna riuscii a mandare il ragazzo nello scompartimento successivo al nostro per avvisare di quello che stava accadendo e grazie a questo non ci presero di sorpresa. Alla fermata successiva scesero in gruppo bloccando le porte, ma anche noi non ci facemmo cogliere impreparati perché, nel frattempo, avevamo agguantato gli estintori, rotto le panchine per farne delle rudimentali armi di difesa e riuscimmo a capovolgere la situazione a nostro vantaggio. Devo ricordare con affetto due persone più anziane di noi che ci diedero coraggio e infusero tranquillità: il segretario della sezione Montemario, Domenico Franco e un dirigente dei Volontari, Roberto Cecere. Furono feriti, ma non indietreggiarono di un passo e noi facemmo di tutto per non essere da meno rispetto a loro.

Ricordo Virgilio anche in quella occasione. Sembrava non avere paura di quanto potesse accadere, eppure aveva poco più di venti anni. Forse eravamo proprio degli incoscienti. Quando uscimmo fuori avevamo anche diverse bandiere rosse sottratte agli avversari. La notizia però era stata data anche via radio e fu così che in diverse stazioni importanti trovammo ad accoglierci calorosi comitati di estremisti di sinistra uniti a militanti del pci che volevano tentare di saldare i conti. Posso solo dire che non ci sono riusciti. 

Trascorse più di un anno in cui continuammo a vederci, ma con meno frequenza perché nel frattempo Virgilio stava concludendo il servizio militare, ma avevo sue notizie da Anna e Mario che erano fieri di questo ragazzo in grigioverde. Il tempo passò, forse troppo in fretta, fino a quell’inizio primavera del 1973…quando tutti si aspettano che gli alberi fioriscano, che la vita ti regali nuove emozioni…

Quella fra il 15 ed il 16 aprile è stata invece la notte più lunga e più triste della mia vita.

Ero profondamente addormentato quando, a casa dei miei genitori, squillò improvvisamente il telefono. Allora non esistevano i cellulari, mi svegliai di soprassalto e corsi a rispondere perché sapevo già che a quell’ora non poteva essere che per me. Era Franco Spallone, un dirigente romano del Movimento Sociale che, con tono concitato, mi disse: “Roberto, svelto, vestiti perché ti passo a prendere. Hanno dato fuoco alla casa di Anna e Mario Mattei a Primavalle, Virgilio è morto. Non so dirti altro”. Mi cadde il mondo addosso. Franco e Virgilio erano per me come fratelli, io che nella mia famiglia avevo solo una sorella più grande. Franco era quello che mi aveva preso sotto la sua custodia, era quello che, nei periodi più brutti o più pericolosi, telefonava a mio padre per dirgli di stare tranquillo. Se non ero tornato a casa era perché dormivo a casa sua per motivi di sicurezza.

Virgilio era il fratello più piccolo. Nonostante fosse più giovane di me, quando l’avevo incontrato pochi giorni prima nella sede nazionale del partito a via Quattro Fontane, mi aveva rivelato quello che era ancora un segreto: “Roberto preparati perché, se tutto va bene, fra non molto mi sposo.” Del resto c’era un motivo se tutto questo lo veniva a raccontare proprio a me. La sua fidanzata era una mia amica, la conoscevo da prima di lui.

No, non poteva essere, Franco si era sicuramente sbagliato. Non potevo credere che esistessero mostri capaci di compiere un gesto simile. Quando, meno di venti minuti dopo, arrivammo sul posto, capii che la ferocia umana non ha nulla a che vedere con quella delle bestie che, se uccidono, è perché hanno fame o devono difendere i propri figli, ma mai per motivi inutili o per odio legato alle diverse idee politiche.

Il quadro che ci si presentò era da inferno dantesco. Oltre a Virgilio, che era comunque un militante e aveva messo nel conto quello di poter essere minacciato, aggredito, bastonato, ma non certamente ucciso, quei vigliacchi avevano causato la morte di Stefano, un ragazzino che andava ancora alle elementari ed aveva cercato protezione aggrappandosi alle gambe del fratello più grande, del suo “difensore”. Se gli altri quattro fratelli si erano salvati era stato grazie all’abnegazione di Anna e Mario che si erano inventati di tutto, a rischio della loro stessa vita, pur di sottrarli alle fiamme. 

Ero impietrito, non voleva credere ai miei occhi. Non riuscivo neanche a piangere. Mi muovevo come una specie di automa aspettando che qualcuno mi dicesse di svegliarmi, che quel brutto sogno era finito. La seconda parte del film sarebbe stata sicuramente diversa ed i “buoni”, ancora una volta avrebbero vinto. E invece no, non è stato così e la seconda parte del film è stata uguale se non peggio della prima. 

Il segretario del partito, Giorgio Almirante, che della famiglia Mattei era amico a livello personale, decise di allestire la camera ardente nella sede della Federazione romana in via Alessandria e di celebrare i funerali nella chiesa dei Sette Santi Fondatori a Piazza Salerno. Ebbene, la notte prima delle esequie, mentre stavamo attaccando manifesti nei pressi dell’Università, venimmo aggrediti da un gruppo di extraparlamentari armati di pistola che ci spararono contro diversi colpi, fuggendo poi nella notte quando si accorsero di aver mancato l’agguato. Il giorno stesso dei funerali il nostro servizio d‘ordine dovette respingere alcuni tentativi di assalto, a colpi di bottiglie molotov, al corteo che accompagnava Stefano e Virgilio in chiesa.

Non era che l’inizio di una lunga vicenda di vergognose ingiustizie che dura da allora e sembra non trovare mai fine…

Volevano colpire anche dopo la morte e ci sono riusciti. Nei giorni immediatamente successivi scattò infatti una vergognosa campagna di stampa per “dimostrare” che l’incendio non era altro se non la conseguenza di una faida interna allo stesso Msi. Le rivelazioni di Achille Lollo, (avvenute 32 anni dopo la strage, e quando non avrebbe più dovuto pagare niente alla giustizia visto che i reati erano prescritti in quanto condannato per omicidio “preterintenzionale”, ovvero, chi versa litri e litri di benzina non voleva uccidere ma soltanto creare un po’ di confusione…) sono almeno servite a chiarire alcune verità, quelle che tutti conoscevano, ma che si cercava di nascondere ed alterare. 

Insieme a Lollo facevano parte del commando Marino Clavo e Manlio Grillo e l’agguato era stato concepito a casa di Diana Perrone, una delle figlie dell’allora proprietario del Messaggero, insieme a Paolo Gaeta, figlio dell’allora legale della Federazione Nazionale della Stampa e Elisabetta Lecco, fidanzata di Manlio Grillo. Due giorni dopo la strage proprio questi sei vennero messi sotto processo da parte dei Capi di Potere Operaio a via dei Serpenti e, poco tempo dopo, Marino Clavo rese piena confessione a Valerio Morucci, colui che sarebbe diventato poi uno dei capi delle Brigate Rosse e responsabile dell’agguato a Moro. Franco Piperno, altro capo di Potere Operaio, ebbe la faccia tosta di affermare che non aveva creduto a quella confessione perché Morucci aveva mostrato a Clavo una pistola… e si  che di pistole in quel periodo all’interno di Potere Operaio ne giravano tante…

Non potevamo assolutamente sospettare che, più di quaranta anni dopo, il servizio pubblico – e per la precisione Michele Santoro – si sarebbe comportato in maniera assolutamente peggiore, dando ampio spazio in una trasmissione dedicata all’omicidio Moro, proprio a Lanfranco Pace, l’estremista di Potere Operaio che fece da tramite fra l’on. Signorile del psi ed i brigatisti rossi Adriana Faranda e Valerio Morucci durante i 55 giorni del sequestro. La prima cosa che mi fece saltare sulla sedia fu una domanda rivolta dal conduttore a Pace circa una perquisizione compiuta a casa sua nei giorni immediatamente successivi al sequestro Moro e posta in maniera tale da voler accusare le forze dell’ordine di aver messo sotto sopra l’abitazione di Santa Maria Goretti, come se Lanfranco Pace non avesse nulla a che fare con i militanti dell’ultrasinistra.

Crediamo sia dunque giusto precisare che tutti e tre i condannati per la morte dei fratelli Mattei, ossia Achille Lollo, Manlio Grillo e Marino Clavo, erano militanti di Potere Operaio, la formazione di cui erano a capo Franco Piperno, Oreste Scalzone e per l’appunto Lanfranco Pace… 

Il giorno dopo la strage, la direzione di Potere Operaio si riunì a via del Boschetto e decise di curare un libretto, “Primavalle, incendio a porte chiuse”, per rivendicare l’innocenza degli assassini e far ricadere la colpa su presunte faide interne alla sezione missina. Uno degli architetti di tutto questo fu proprio Lanfranco Pace che, trent’anni dopo, non si vergognerà di affermare nel libro “La generazione degli anni perduti”:  “Fummo costretti ad assumerne la difesa nonostante la loro colpevolezza e così montammo una controinchiesta. Perché? Perché non c’erano alternative, non ricordo tanta comprensione ne tanta solidale vicinanza come quella volta che predicavamo il falso”. I difensori degli assassini fecero mettere agli atti del processo questo vergognoso e falso libercolo, curato per altro, oltre che da Pace e dalla sua compagna di allora, anche da un gruppo di giornalisti de Il Messaggero (il giornale di proprietà della famiglia Perrone, a casa della cui figlia venne progettato l’attentato). Fu anche grazie a queste ignobili falsità che gli assassini latitanti si permisero di non pagare neanche un giorno di prigione e i vari Moravia e Dario Bellezza brindarono alla scarcerazione di Lollo quando venne emessa la prima scandalosa sentenza di assoluzione. 

E tutto questo “Scherlock Holmes” Santoro non lo sapeva quando ha chiamato Pace in studio? Non sapeva che i suoi amici si chiamavano, tra l’altro, Alvaro Lojacono (il militante di Potere Operaio responsabile nel febbraio del 1975 dell’uccisione dello studente greco Mikis Mantakas, “colpevole” di aver partecipato alla seduta del processo agli assassini dei fratelli Mattei e che successivamente passerà alle brigate rosse e farà parte del commando che uccise la scorta di Moro), Bruno Seghetti, Valerio Morucci, Adriana Faranda, Barbara Balzerani, Germano Maccari (quest’ultimo considerato uno dei brigatisti che sparò i colpi di grazia allo statista democristiano)?

Come è noto, Adriana Faranda e Valerio Morucci, i brigatisti con i quali Pace dichiara aver avuto diversi incontri nei 55 giorni del sequestro, verranno arrestati, quasi un anno dopo l’assassinio di Moro, in una casa dove viveva Giuliana Conforto, il cui padre verrà successivamente accusato dal dossier Mitrokin di essere uno degli agenti del Kgb in Italia. Il Consigliere Istruttore, dott. Achille Gallucci, scrive testualmente: “Il 29 maggio 1979 la Digos della Questura di Roma, in viale Giulio Cesare 47, in un appartamento condotto dalla Conforto, ha proceduto all’arresto d Valerio Morucci e Adriana Faranda, entrambi già da tempo latitanti, imputati di delitti rivendicati dalle “brigate rosse”, fra i quali il sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro: fra le molte armi sequestrate nell’appartamento, sono state rinvenute la “Skorpion”, impiegata con ogni verosimiglianza per l’uccisione dello statista, ed un’automatica Luger 7,65, matricola 04471, compendio di rapina rivendicata dalla formazione “Unità comuniste combattenti”. Da confessioni rese in distinto procedimento ed acquisite al presente ai sensi dell’art. 165 bis c.p.p. è risultato che la suddetta formazione, con denaro proveniente da imprese delittuose, aveva finanziato la rivista “Metropoli” di cui Piperno e Pace erano redattori. La Conforto interrogata sulle ragioni che l’avevano indotta a favorire il Morucci e la Faranda, ha chiamato in causa prima il Piperno e poi il Pace, indicando in esse le persone a richiesta delle quali si era indotta ad alloggiare i due latitanti. La grave risultanza accusatoria è stata negata dal Piperno, ma è stata sostanzialmente ammessa dal Pace, il quale si è risolto altresì a confessare di aver aiutato i predetti Morucci e Faranda trovando loro ricetto, non solo presso la Conforto, ma anche presso tale Candido Aurelio, nonché presso altre persone che non ha per altro voluto indicare”.

Probabilmente se Santoro avesse letto meglio le carte avrebbe evitato una pessima figura, visto che lo stesso Lanfranco Pace, ascoltato dalla commissione di inchiesta sugli sviluppi del caso Moro, non esita a raccontare che, insieme a Franco Piperno, incontrò altri due membri del commando che agì in via Fani, Prospero Gallinari e Mario Moretti, ma dopo, solo dopo la morte di Aldo Moro. Forse Santoro avrebbe capito per quale motivo fu perquisita la casa di Pace e perché venne fermato per 48 ore. Quello che invece noi non riusciamo ancora a comprendere è il motivo per cui un personaggio del genere non sia stato pedinato e non è convincente la sua risposta quando afferma che lui “prendeva sempre le dovute cautele”… Nessuno di tutti questi “democratici“ ha mai chiesto scusa, nessuno si è mai vergognato di quello che ha scritto, nessuno ha mai avuto il coraggio di affermare che “Soccorso Rosso” di Franca Rame e del premio Nobel Dario Fo raccoglieva soldi e protezioni per foraggiare degli assassini e che se la giustizia avesse fatto il suo corso si sarebbero risparmiati molti lutti e molte delle violenze che hanno insanguinato l’Italia negli anni successivi.

Di giorni bui, chi ha voluto bene a Stefano e Virgilio, ne ha passati tanti in questi lunghi cinquanta anni trascorsi da quella notte tragica. Ma non ci siamo lasciati travolgere dalla tristezza e dallo sconforto per una giustizia che non ha mai compiuto il proprio dovere. Non ci potrà essere pace fino a quando nessuno di questi vigliacchi non avrà il coraggio di assumersi le proprie responsabilità e chiedere scusa.

Quella mattina all’alba, quando tornai a casa con gli occhi pieni di lacrime, sulla mia agenda scrissi una sola parola: “Ricordati”.  Da allora non c’è giorno della mia vita in cui non li abbia avuti a fianco.

È un periodo triste. Mi chiedo se valesse la pena che tanti ragazzi perdessero la vita per un ideale che non trova quasi più nessun difensore. Siamo gli appestati dai quali tenersi a distanza, siamo i reietti, ma conserviamo nel cuore qualcosa che nessun potrà mai rubarci: la fede, la nostra fede. Quella che ci consente di non tradire i nostri amici, che ci permette di ricordare chi ci ha preceduto con animo lieto, quella che ci da la forza per guardare al futuro sapendo che ci saranno sempre dei ragazzi come Stefano e Virgilio che prenderanno dalle nostre mani una bandiera che non toccherà mai terra.

Nostro compito è lasciare delle orme che qualcuno possa seguire, piantare dei semi che si trasformino in grano. Se cinquanta anni dopo noi siamo ancora qui è perché Stefano e Virgilio sono stati il nostro seme ed altri ce ne saranno dopo di noi.

La mia prima tessera della Giovane Italia aveva una scritta: “Noi abbiamo ancora una bandiera da gettare al vento, una canzone da lanciare al sole”. Quello di nascere uomini liberi è un dono che nessuno ci potrà mai togliere, perché non siamo indottrinati, non ci possono comprare.

Non importa quanti siamo o quanti sarete, perché noi siamo sempre quelli che: “Anche se tutti, noi no”. 

Roberto Rosseti

“Vi faccio vedere come muore un italiano”

«’Vi faccio vedere come muore un italiano’. A 19 anni dalla sua morte, non dimentichiamo Fabrizio Quattrocchi, un uomo coraggioso che ha dimostrato ai suoi carnefici e al mondo l’orgoglio di essere italiani”». Così il premier Giorgia Meloni ha voluto ricordarlo dai suoi canali social. L’Italia non dimentica il suo coraggio. Aveva appena 36 anni  quando venne ucciso con due colpi di pistola – uno al torace, l’altro alla testa, come confermarono le analisi autoptiche svolte successivamente sul cadavere – alla periferia di Baghdad. E stato rapito e ucciso in Iraq dove lavorava per una compagnia di sicurezza. È stato insignito di una medaglia d’oro al valor civile alla memoria.

Meloni: “Non dimentichiamo Fabrizio Quattrocchi”

Era il 13 aprile del 2004 quando Quattrocchi finì ostaggio a Baghdad  insieme ai colleghi Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e Salvatore Stefio. A rapirlo furono i miliziani del gruppo Falangi Verdi di Maometto, mai identificati. I suoi resti vennero ritrovati il 21 maggio. Il suo corpo fu abbandonato e mangiato dagli animali. Nell’aprile del 2004 l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini disse: «Quando gli assassini gli stavano puntando la pistola contro, questo ragazzo ha cercato di togliersi il cappuccio e ha gridato: adesso vi faccio vedere come muore un italiano. E lo hanno ucciso. È morto così: da coraggioso, da eroe».

Meloni: “Quattrocchi ha mostrato al mondo l’orgoglio di essere italiani”

È stato sepolto nel cimitero monumentale della stessa città Staglieno. Del suo barbaro assassinio c’è un video, e il Sunday Times trasmise in esclusiva un’intervista con un certo Abu Yusuf, presente all’esecuzione di Quattrocchi e sedicente autore del video stesso. I motivi dell’omicidio non sono tutt’oggi del tutto chiari. all’epoca,  Pino Scaccia del TG1 così descrisse la scena: « Fabrizio Quattrocchi è inginocchiato, le mani legate, incappucciato. Dice con voce ferma: “Posso toglierla?” riferito alla kefiah. Qualcuno gli risponde “no”. E allora egli tentò di togliersi la benda e pronunciò: “Adesso vi faccio vedere come muore un italiano“. Passano secondi e gli spararono  da dietro con la pistola. Tre colpi.  Giorgia Meloni da sempre ha ricordato con commozione questa data. Commentando le ultime parole di Quattrocchi disse: “Parole brevi, semplici ma così profonde da scuotere le coscienze di tutto il mondo e segnare i cuori di una intera Nazione”.

Foti: “La sua frase riecheggia nei nostri cuori”

“Sono passati 19 anni dalla barbara uccisione in Iraq del nostro Fabrizio Quattrocchi”, commenta anche il capogruppo di FdI alla Camera. “Simbolo di una Nazione fiera e orgogliosa che non piega la testa di fronte al nemico. Non dimenticheremo mai il suo sacrificio e quel ‘vi faccio vedere come muore un italiano’ che riecheggia ancora forte nei nostri cuori. Ciao Fabrizio”.