MANIFESTAZIONE DELLA DESTRA

La Fondazione Almirante vi invita a partecipare alla manifestazione che La Destra terrà a

 Roma il 3 marzo alle ore 14:00 con partenza del corteo da piazza della Repubblica.

MESSA in RICORDO di GIORGIO ALMIRANTE

Martedì 22 Maggio a Roma presso la Basilica di Santa Maria in Montesanto (Chiesa degli Artisti) in Piazza del Popolo alle ore 19.30 sarà celebrata una Santa Messa in occasione del 23° anno dalla scomparsa di Giorgio Almirante.

Seduta del 21 febbraio 1951

Le forme di democrazia diretta

Sono trascorsi quasi tre anni dalla elezione della prima Camera repubblicana e questa è chiamata ad approvare una legge di attuazione del referendum previsto dalla Costituzione; è il primo atto di attuazione di un istituto di democrazia diretta al quale il MSI, convinto critico del sistema di democrazia parlamentare introdotto con la Costituzione, guarda con qualche favore. Almirante, pur con riserve sul contenuto della legge, lo dichiara in un discorso succinto che contiene, in nuce, tutti gli argomenti di critica al sistema ed alla crisi delle istituzioni. La proposta in discussione, però, non verrà approvata definitivamente per le forti resistenze dei partiti minori della maggioranza.

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, confesso che nell’ iscrivermi a parlare questa mattina ho obbedito ad una necessità polemica del mio spirito, nata dalla desolante constazione che un problema di così alta importanza non interessi, o interessi molto mediocremente, il Parlamento italiano, o per lo meno la Camera dei deputati. Erano mesi e mesi anzi, per essere più esatti, erano anni – che si sollecitava da ogni parte, con roventi articoli e con importanti polemiche, la discus-sione parlamentare della legge sul referendum.

Sono stati fatti passi, credo, presso il Presidente della Camera perché mettesse all’ordine del giorno come ha poi fatto questa legge, ed io mi attendevo, dato che si tratta oggi di tenere a battesimo una riforma che vorrei definire riforma strutturale democratica di alta importanza, decine e decine di colleghi iscritti a parlare; e, giovane e inesperto come sono a quanto almeno si dice e si sostiene da più parti di democrazia, io mi attendevo di ricevere delle solenni lezioni di democrazia e di metodo democratico dai soloni democratici che di solito si affannano, nelle loro

interruzioni durante i dibattiti politici, a dichiarare, appunto, che da questa parte si è insensibili ai problemi della democrazia, che sarebbero monopolio degli altri settori della Camera.

Gli altri settori della Camera sono, invece, deserti, insensibili; la lista degli iscritti a parlare non Comprende alcun nome di quegli illustri soloni, ed allora, in segno di protesta, mi sono iscritto a parlare. Voglio tenere io a battesimo questa legge, ed è strana sorte che la legge sul referendum abbia come padrini il questore comunista onorevole La Rocca e l’antidemocratico cosi si dice onorevole Almirante. Si parlerà, ancora una volta, di strana collusione fra comunisti e «missini»: la cosa mi lascia perfettamente indifferente, e dirò che, se questa volta se ne parlasse, colui che tentasse di servirsi di simile argomento si troverebbe in difficoltà.

Può sembrare strano a qualcuno che i deputati del Movimento sociale italiano non solo approvino questa legge, ma ne riconoscano la notevolissima e sostanziale importanza.

In poche parole vi dirò i motivi di questo nostro apprezzamento.

Dichiaro apertamente, in primo luogo, che vi sono dei motivi di natura contingente e di natura più politica che giuridica per i quali noi oggi siamo portati ad approvare questa legge e a sollecitarne l’entrata in vigore. I motivi sono evidentissimi. Noi sosteniamo da tempo che esiste un distacco, un solco, che si approfondisce ogni giorno di più, fra quello che viene comunemente definito il paese reale e il cosiddetto paese legale. Noi sosteniamo non soltanto che la maggioranza del 18 aprile, anzi che entrambe se posso esprimermi così le maggioranze del 18 aprile non rispondono alla realtà di fatto che, via via, si è andata stabilendo nella coscienza attiva del paese; ma sosteniamo altresì che l’intero sistema democratico parlamentare, quale lo si è voluto non instaurare ma restaurare, non risponde pienamente né al sentimento, né alle necessità obiettive del paese.

Questa legge viene opportunamente ad offrire la possibilità di saggiare, sia pure su problemi singoli, sia pure su provvedimenti isolati, ma che potranno anche essere di altissima importanza, quale sia l’esatta temperatura del paese, quale sia l’esatto clima politico italiano.

Riteniamo anche e pensiamo di non sbagliare ritenendolo che, dopo l’entrata in vigore di questa legge, una qualche maggiore prudenza potrà esservi da parte di questo o di altri governi nel varare attraverso il voto compiacente di maggioranze, purtroppo sempre disposte a dire sì, anche se le polemiche giornalistiche potrebbero far pensare il contrario leggi che non hanno alcuna rispondenza nelle esigenze obiettive del paese.

Sostenute da parte mia, queste argomentazioni hanno un riferimento ovvio, che mi piace tuttavia sottolineare. Io penso che, quando la legge sul referendum abrogativo sarà entrata in vigore, il ministro dell’Interno troverà non dico nella sua coscienza, ma nella sua sensibilità di ministro, qualche remora nell’ affermare e in Consiglio dei ministri e in Parlamento e di fronte all’opinione pubblica che determinati prov-

vedimenti eccezionali e repressivi sono necessari perché sentiti, perché voluti; in quanto potrebbe allora accadere al ministro dell’Interno e all’intero Consiglio dei ministri, una volta entrata in vigore la norma sul referendum abrogativo, di essere a breve scadenza sconfessati proprio da quell’opinione pubblica di cui essi si dichiarano con troppa leggerezza interpreti. Non credo che l’aver fatto riferimento a questi elementi di natura politica tolga valore ai motivi della nostra adesione al referendum; servirà semmai a chiarire meglio la nostra posizione.

Ma non mi fermo qui. Vi sono motivi di carattere, direi, permanente per i quali noi aderiamo alla legge sul referendum. Noi aderiamo a questa legge in quanto essa si richiama a un concetto più largo, più aperto, più arioso, vorrei dire più sociale, della democrazia.

Con questa democrazia, così come essa è ora intesa, cosi come essa è stata attuata o per meglio dire restaurata dal 1945-46 in qua, noi del Movimento sociale italiano siamo in aperta polemica. Noi non riconosciamo che il sistema democratico parlamentare, così come esso è stato attuato, risponda alle necessità obiettive dei tempi, e soprattutto risponda alle necessità obiettive del paese; e, mentre da ogni parte si va riconoscendo, per lo meno, che esiste una crisi «nel» sistema democratico parlamentare e lo hanno riconosciuto anche esponenti di tutti i settori di questo e dell’altro ramo del Parlamento da parte nostra si insiste nell’individuare l’esistenza di una crisi «del» sistema democratico parlamentare, una crisi che trae origine e individuazione soprattutto dal fatto che le forze sociali, le forze sindacali, le forze del lavoro, nell’attuale sistema, sono costrette a rimanere fuori dello Stato, o addirittura a schierarsi contro lo Stato.

L’onorevole Lucifredi allarga le braccia: debbo ritenere, se posso semanticamente individuare il significato di un gesto, che egli si riferisca, ad esempio, a quanto in materia ebbe a dichiarare tempo fa il Presidente del Consiglio, il quale, avendogli posto un giornalista più o meno lo stesso problema che io sto ponendo in questo momento alla Camera, rispose anche egli allargando le braccia (è un gesto diffuso tra voi!) che il suffragio universale ha già risolto alla base, alle radici questo inserimento. “

LUCIFREDI: “Volevo dire che, fino a prova contraria, gli elettori formano parte integrante dei lavoratori italiani, delle forze dell’economa e del lavoro. “

ALMIRANTE: “Esatto: questa è, appunto, la concezione alla quale si è richiamato l’onorevole Presidente del Consiglio e alla quale si richiamano i sostenitori ortodossi e rigidi non della democrazia, ma del sistema democratico parlamentare, quale esso è stato attuato e restaurato in Italia.

Ora, l’argomentazione del Presidente del Consiglio, ripresa in questo momento dall’onorevole Lucifredi, urta, a mio parere, con la realtà dei fatti la quale ci dimostra come il suffragio universale non abbia di fatto risolto il problema che si deve

risolvere; la quale ci dimostra come di fatto le forze del lavoro, comunque organizzate, siano rimaste al di fuori della organizzazione dello Stato e a volte siano, non dico spinte da interessi estranei e talora sovversivi, ma naturalmente forzate, costrette a schierarsi contro lo Stato.

È questo il difetto fondamentale, è questa la crisi del sistema democratico par-lamentare, non solo in Italia, ma anche altrove. Io confesso di non essere in questo momento preparato ad affrontare il problema in tutta la sua vastità, anche perché non mi propongo affatto di farlo in questa sede (il Presidente avrebbe, allora, ragione di richiamarmi all’argomento), ma polemiche e discussioni di tal genere sono in corso anche in seno ai rappresentanti della maggioranza e alla loro stampa.

Infatti, si leggono resoconti di discorsi pronunziati da autorevoli esponenti, anche della maggioranza, nei quali si afferma (e noi consentiamo in pieno) che è tuttora aperto, è tuttora insoluto, in questo sistema democratico parlamentare, il problema della sintesi fra autorità e libertà. Ed io mi permetterei di aggiungere, chiosando un’affermazione di tal genere, che se il problema della sintesi, dei rapporti, della conciliazione tra autorità e libertà non è risolto dall’attuale sistema democratico parlamentare, ciò deriva dal fatto che l’attuale sistema democratico parlamentare non solo non risolve, ma non affronta neppure il problema dell’inserimento delle forze del lavoro e della produzione nello Stato.

La legge sul referendum pone forse un rimedio alla crisi così concepita? Evidentemente, no. Però ha il merito e il vantaggio di collocarsi al di fuori e al di sopra delle solite polemichette sulla possibilità o meno di rimediare ai difetti del sistema attraverso qualche modifica al regolamento della Camera o del Senato, attraverso qualche piccolo stratagemma di interpretazione costituzionale.

Qui l’Italia si appresta effettivamente ad impiegare un nuovo strumento, a mettersi su una nuova strada. L’onorevole Lucifredi, giustamente, alla fine della sua relazione, esprime dei dubbi e dichiara che «è lecito dubitare che tutti gli elettori del nostro paese abbiano in pieno una siffatta preparazione e maturità», cioè la preparazione e la maturità necessaria e sufficiente per far si che lo strumento delicatissimo del referendum diventi, in ogni caso, uno strumento idoneo.

I dubbi dell’onorevole Lucifredi sono da noi pienamente condivisi: anzi, mi pare che essi siano espressi in una forma fin troppo cauta.

Noi dubitiamo anche (e i risultati delle prove elettorali finora svoltesi in Italia, purtroppo, ce ne danno conferma) che gli elettori italiani non abbiano una mediocre preparazione. Riteniamo però che lo strumento del referendum, se saggiamente impiegato, possa contribuire a innalzare il livello di educazione politica dei cittadini e soprattutto che esso possa aprire un varco in quello che è ormai il buio opprimente del sistema democratico parlamentare così come è stato attuato in Italia e così come per forza degli eventi, purtroppo è stato aggravato dal 18 aprile, che pratica-mente ha reso difficili e aleatorie, se non impossibili e inutili, quelle funzioni di controllo e di vigilanza che il Parlamento deve esercitare sulla maggioranza governativa.

Concludo dichiarando che interverremo nella discussione degli articoli e degli emendamenti. Io ho avuto l’onore di partecipare con una certa intensità ai lavori preparatori di questa proposta di legge e mi permetterò di ripetere qui alcune considerazioni che ho avuto occasione di fare durante i lavori. Desidero non lasciare sfuggire l’occasione per ricordare il contributo appassionato ed intelligente che alla elaborazione di questa proposta di legge diede il compianto onorevole Fuschini, il quale fu per tutti noi maestro di passione e di serietà politica.

Seduta del 29 dicembre 1952

Il duro scontro

sulla legge truffa

Una battaglia memorabile quella sulla proposta dì legge elettorale del Governo De Gasperi e sostenuta in Parlamento dal ministro dell’Interno Scelba, la proposta di legge che diventerà poi la «legge truffa». Almirante si assunse l’incarico della re/azione dì minoranza e combatté con grande impegno una battaglia che poi verrà premiata dagli elettori che non daranno alla maggioranza i voti necessari per far scattare la truffa.

In questa battaglia durissima, con ostruzionismo, alla Camera Almirante venne costretto a parlare nonostante rauco a tarda ora, per svolgere la relazione di minoranza.

ALMIRANTE: “Signor presidente, onorevoli colleghi, mi inchino, naturalmente, alla volontà della Camera. Però il presidente mi consentirà, nella forma più riguardosa, di esprimere la mia protesta per il modo, per l’ora, per l’occasione nella quale mi viene data la parola.

I relatori hanno dei particolari doveri. Ai miei doveri ho fatto fronte. Ritengo però che il relatore abbia anche qualche prerogativa che non il regolamento ma la prassi tante volte invocata sancisce.

Mi sembra assurdo che si dia la parola ad un relatore di minoranza in questo momento, che si obblighi un uomo a prendere la parola su un argomento tanto grave e con le responsabilità pesanti che incombono su ciascuno di noi in questa circostanza, dopo avere, per otto ore, partecipato a una seduta ininterrottamente, ed ascoltato ininterrottamente (e i colleghi possono farmene testimonianza) l’oratore precedente.

Le proteste lasciano il tempo che trovano: la mia è veramente una protesta che il tempo che trova lo ha già lasciato, perché avete già deciso, colleghi della maggio-

ranza, ma non credo che abbiate deciso bene: mi consentirete questo amichevole appunto. Credo che i colleghi della maggioranza abbiano deciso male anche perché la mia parte, pur facendo il suo dovere, come continuerà a fare, per la intransigente difesa dei suoi punti di vista contro questa legge, non ha finora neppure minimamente prestato il fianco ad accuse di ostruzionismo. Io stesso parlerò brevemente, pur senza rifuggire dall’assunzione di precise responsabilità. Però i colleghi della maggioranza, i quali hanno voluto testé decidere di continuare la discussione, dovrebbero ricordare che i deputati del Movimento sociale sono intervenuti ripetutamente in questa discussione, ma sempre in forma di brevità e talvolta addirittura di estrema brevità, come nel caso di un mio intervento sulla proposta di sospensiva dell’onorevole Nenni; e con la stessa brevità sono intervenuti in sede di Commissione: e l’onorevole Marazza può farmi buona testimonianza. Pensavo, quindi, che questo nostro atteggiamento meritasse ben altra considerazione.

Poiché siamo in tema di ostruzionismo e poiché su questo tema si è dilungato il collega Capalozza, io ne parlo rapidamente e senza riferimenti storici. Debbo però fare un riferimento politico, che è reso necessario, di obbligo addirittura, dal messaggio augurale che l’onorevole Presidente del Consiglio ha voluto indirizzare ai deputati italiani, e quindi anche ai deputati di minoranza. Un messaggio augurale per la verità non molto garbato nella forma e neppure nella sostanza, tale tuttavia da indurci a certe meditazioni che hanno occupato questi cinque rapidi giorni di vacanza parlamentare.

Il Presidente del Consiglio ha posto una equazione grave soprattutto da parte sua. Egli ha detto: l’ostruzionismo parlamentare è uguale al sabotaggio della democrazia. Egli ha definito senz’altro sabotatori della democrazia tutti quei deputati di minoranza ed io mi onoro di essere uno di quelli i quali stanno combattendo e combatteranno in tutti i modi naturalmente consentiti dalla Costituzione e dal regolamento la legge elettorale, affinché sia modificata o addirittura ritirata dal Governo.

Mi sembra che il Presidente del Consiglio sia stato piuttosto imprudente in questa sua equazione, perché noi non abbiamo mai praticato un ostruzionismo vero e proprio; comunque, noi non abbiamo certamente paura di una definizione di tal genere e ci richiamiamo alle tradizioni gloriose a cui si è riferito il collega Capalozza.

Mi sembra che il Presidente del Consiglio sia stato imprudente, perché il nostro ostruzionismo è almeno fatto alla luce del sole, o delle tenebre di queste sedute notturne. Noi non abbiamo fatto mistero del nostro intendimento di lottare con tutti i mezzi affinché questa legge non giunga in porto. Ma che dire dell’ostruzionismo clandestino che la maggioranza e il Governo democristiano hanno praticato perché non giungano in porto altre leggi, che pure sono leggi costituzionali? Che dire dell’ostruzionismo clandestino e non coraggioso, aperto e leale come il nostro, attraverso il quale maggioranza e Governo hanno fatto rimbalzare per 3, 4, 5, 6 volte dall’ un

ramo all’altro del Parlamento, con pretesti veramente paradossali e ridicoli, le leggi sul referendum e sulla Corte costituzionale?

Noi abbiamo la lealtà di combattere a viso aperto questa battaglia; noi diciamo che, a nostro parere, questa legge è iniqua e dannosa per il popolo italiano, anche per quei settori che voi rappresentate o che dite di rappresentare. Noi del Movimento sociale, della cosiddetta destra, abbiamo assunto delle precise responsabilità politiche sul piano del nostro gruppo e sul piano personale, e noi combatteremo a viso aperto, di fronte alla opinione pubblica italiana, questa battaglia, e diciamo che non vogliamo che questa legge giunga in porto.

Ma voi non avete avuto mai il coraggio di dire che non volete che la legge sul referendum giunga in porto. Voi non avete mai avuto il coraggio di dire: non vogliamo che le leggi costituzionali giungano in porto. Voi non avete mai avuto il coraggio di dire: non vogliamo insabbiare la legge sindacale. Voi non avete avuto il coraggio neppure di dire: noi non vogliamo insabbiare quella famosa legge polivalente, della quale l’onorevole De Gasperi si è fatta un’arma durante la campagna per le elezioni amministrative recentemente tenutesi nell’Italia meridionale.

Non era forse questo un vostro ostruzionismo? Non era, allora, secondo la definizione illuminata del Presidente del Consiglio, questo modo di agire un sabotaggio della democrazia? E l’avete fatto con metodo, con forme che sono di gran lunga meno oneste, meno chiare, di quelle che questa minoranza sta adottando e ha già adottato. Ecco perché mi sembra che il Presidente del Consiglio sia stato imprudente nelle sue affermazioni, nei suoi auguri natalizi rivolti alle opposizioni. Egli è stato imprudente, e anche inesatto, perché il modo con cui si manifesta l’opposizione a questa legge è dettato da uno stato di necessità.

Io, iniziando questa mia relazione, sono consapevole della mia responsabilità, e qualunque argomento dobbiamo mettere in campo, qualunque argomento che deve sostenere questa nostra convinzione nella opposizione a questa legge, ogni nostro discorso ci fa trovare di fronte a delle posizioni prestabilite. Si sa già, onorevoli col-leghi democristiani, quel che voi volete. Sappiamo già che i nostri emendamenti, anche quelli che potrebbero sembrarvi ragionevoli e accettabili, saranno respinti. Sappiamo già le direttive che sono state date al vostro gruppo parlamentare, perché questo l’avete fatto conoscere.

Da questa situazione di sbarramento, di muro, che non permette neppure il dialogo, deriva una posizione contrapposta, direi anzi che derivano posizioni altrettanto dure, posizioni altrettanto rigide, posizioni infine altrettanto nette. Fin dall’ultima riunione del consiglio nazionale della Democrazia cristiana, sappiamo perfettamente tutto quello che accadrà qui dentro; e di fronte ad un atteggiamento così rigido, di fronte ad una legge che ha come presupposto l’irrigidimento della situazione politica, e l’impossibilità del dialogo per altri cinque anni, chi sa per quanti altri quinquenni elettorali, vorrete… “

Una voce al centro: “Non li conteremo con l’anno romano… “

ALMIRANTE: “Non so in che modo li potrete contare… Di fronte a questo atteggiamento, onorevoli colleghi, parlate pure di sabotaggio, parlate pure di ostruzionismo, ma dobbiamo pur difenderci con i mezzi che la Costituzione mette a nostra disposizione.

Però, da un punto di vista devo riconoscere che siete stati chiari, in quanto soprattutto alle minoranze, e in modo particolare a questa minoranza, avete già detto, prima ancora che questa legge venisse in discussione in quest’aula, quello che volevate fare intendere chiaramente, e cioè che questa legge è un arma contro l’estrema destra (ringrazio l’onorevole Saragat), che questa legge è un arma di lotta contro il Movimento sociale italiano, contro il rinascente fascismo come voi lo chiamate. Vi è una canzone francese che dice: Cet animai est très mechant: on l’attache il se defend. È esatto. Comunque ci difenderemo con i mezzi che la Costituzione mette a nostra disposizione. Questo secondo voi è sabotaggio ed ostruzionismo tale da non poter essere ammesso; questo giustifica i messaggi natalizi agri del Presidente del Consiglio.

Noi riteniamo di no, riteniamo di compiere il nostro dovere, siamo convinti del-la piena legittimità politica della nostra azione parlamentare e continueremo ad ol-tranza su questa strada.

Alla mia relazione devo fare una premessa ottimistica, o per lo meno serena. Mi sembra che la discussione che si è svolta finora sulla riforma elettorale si sia rivelata utile, contrariamente alle previsioni della vigilia, perché l’opinione pubblica ha ormai sufficientemente chiaro dinanzi a sé il significato della legge. E mi sembra singolare il fatto, mi sembra anche positivo ve ne voglio dare riconoscimento -che la maggioranza, contrariamente alle mie previsioni e alle previsioni che nascevano dal contegno della maggioranza stessa in seno alla Commissione, non abbia voluto sfuggire alla battaglia sul piano politico, anzi abbia affrontato la discussione e la battaglia intorno a questa legge proprio sul piano politico.

Dall’atteggiamento della maggioranza in Commissione avevo ritenuto che i deputati di maggioranza in aula si sarebbero rifugiati dietro argomenti costituzionali o pseudocostituzionali, giuridici o pseudogiuridici, e invece come avrò modo di rilevare rispondendo ai singoli oratori della maggioranza, perché intendo svolgere coscienziosamente il mio modesto compito di relatore i deputati della maggioranza che sono intervenuti in aula, e soprattutto i rappresentanti dei partiti cosiddetti minori, hanno affrontato in pieno, dal loro punto di vista, con notevole franchezza il problema politico, sicché il dibattito politico ha fatto progressi lungo il cammino dalla Commissione in aula.

Ha fatto progressi ed è accaduto che abbia prodotto anche dei risultati. La situazione politica italiana oggi non è esattamente quella che avevamo dinanzi a noi

quando la discussione di questa legge ha avuto inizio in Commissione. Si sono rivelate delle perplessità, abbiamo sentito, una volta tanto, in seno alla maggioranza, delle voci discordi, si sono originati dei dissensi, degli screzi, e dei gruppi hanno preso posizioni diverse da quelle che essi stessi avevano preso prima che la discussione avesse inizio.

Tutto questo potrà spiacere ai dirigenti dei partiti, che da questi screzi e da questi dissensi sono stati colpiti; ma tutto questo, a prescindere dal punto di vista dell’opposizione o della maggioranza, non può non far piacere, invece, a un deputato il quale, come me, rileva che una volta tanto qualche risultato una discussione politica approfondita lo ha avuto.

Naturalmente, mi auguro che nel prosieguo di questa discussione altri risultati si ottengano.

E va considerato un altro fatto: certi silenzi significativi da parte di deputati autorevoli di settori della maggioranza, i quali altre volte hanno preso posizioni veementi e chiare in merito a leggi elettorali. Cito per tutti un deputato del quale ho particolare considerazione per le prese di posizione intelligenti e coraggiose che altre volte egli seppe assumere; intendo parlare dell’onorevole Cocco Ortu del Partito liberale. Abbiamo notato la sua assenza e il suo silenzio. Assenza e silenzio dovuti, forse, al fatto che in occasione delle leggi elettorali amministrative egli prese una po-sizione proporzionalista, dalla quale in questa occasione non avrebbe saputo o voluto recedere? Silenzio dovuto forse al fatto che da quando i liberali si staccarono dal Governo egli prese una posizione particolarmente veemente nei confronti di taluni aspetti, tuttora presenti e vivi, della politica governativa?

Non so; però il silenzio dell’onorevole Cocco Ortu mi sembra eloquente quanto la parola dell’onorevole Corbino e dell’onorevole Calamandrei.

Poi, vi è tutto quello che è avvenuto in seno al Partito socialdemocratico, e che voi ben conoscete.

Quindi, vi è una situazione politica in evoluzione; e basterebbe questa considerazione a rendere dubbiosi, o almeno meditativi, molti deputati della maggioranza, che ostentano invece una gloriosa, a mio parere non molto motivata, sicurezza nella bontà della legge in esame.

Problema costituzionale. Mi sembra che la maggioranza non ne abbia valutata a sufficienza l’importanza. Mi sembra anche che la maggioranza ho sentito dire se non sbaglio dall’onorevole Rossi abbia considerato conclusive e definitive in merito le dichiarazioni che sono state fatte dall’onorevole Moro e dal ministro dell’Interno.

Mi sembra che la maggioranza consideri più che chiusa la questione. La questione procedurale è chiusa; la Camera, anzi la maggioranza, ha votato ma la questione non è politicamente chiusa.

Le questioni costituzionali, quando sono serie e gravi e vorrete darmi atto, colleghi della maggioranza, che questa questione costituzionale, comunque voi la consideriate, è seria e grave non si chiudono con un rapido dibattito e con un voto. A parte il fatto che la stessa questione sarà probabilmente riaperta nell’altro ramo del Parlamento, la questione è aperta, credo, nella coscienza del paese. Non si tratta di cavilli, cosi come aveva l’aria di intendere l’onorevole ministro dell’Interno.

Molto rapidamente voglio riassumere gli argomenti che l’onorevole ministro dell’Interno portò contro la nostra tesi di incostituzionalità della legge, per rispondergli in due parole, per dimostrargli che, quanto meno, un’ombra di dubbio dovrebbe ancora sfiorare la sua mente e la mente dei deputati della maggioranza in merito. E siccome mi occupo brevemente dell’intervento dell’onorevole Scelba, e siccome l’altro intervento dell’onorevole Scelba avverrà dopo che io avrò parlato, e non potrò replicare ancora, vorrei pregare l’onorevole Scelba dì non ripetere nel suo nuovo intervento un argomento che probabilmente gli sfuggì nel calore del discorso, sebbene egli sia un oratore avvezzo a non lasciarsi sfuggire frasi incontrollate.

Quando egli rispondeva alla pregiudiziale anticostituzionale, disse, a proposito di questa legge: «È una legge fatta per difendere la democrazia dai pericoli di certe ideologie».

L’onorevole Scelba riconoscerà che una dichiarazione simile sembra fatta apposta per convalidare tutta la nostra tesi, sia sul piano politico che sul piano costituzionale, ma soprattutto sul piano politico.

Quando l’onorevole ministro firmatario e presentatore di una legge elettorale dichiara che tale legge elettorale è fatta per porre un fermo a certe ideologie non discutiamo quali in favore di certe altre ideologie non discutiamo quali il ministro dell’Interno ha già dichiarato e confessato che non di una legge elettorale si tratta, ma di un provvedimento politico per deformare o conformare la volontà del popolo in un determinato modo; il ministro dell’Interno ha già affermato e confessato che non di una piattaforma uguale per tutti si tratta, ma di un piano inclinato sul quale alcuni dovrebbero scivolare e sul quale altri dovrebbero arrampicarsi; egli ha già detto e confessato che non esistono, secondo lui, quelle condizioni di perfetta parità, di perfetta uguaglianza e imparzialità che sono il presupposto naturale di una legge elettorale, qualunque sistema si possa adottare. Infatti l’onorevole ministro dell’Interno ricorderà molto bene che in altra occasione, parlandosi della legge elettorale amministrativa, egli stesso ebbe a dichiarare in quest’aula che presupposto essenziale di qualsiasi legge elettorale è che essa metta in condizioni iniziali di parità tutte le parti politiche, ché, se non mette in condizioni iniziali di parità tutte le parti politiche, si tratta di legge antidemocratica.

L’onorevole ministro si è lasciato sfuggire una frase dalla quale sembrerebbe che, secondo la sua stessa concezione, questa legge sia una legge antidemocratica.

Vorrei pregare l’onorevole ministro dell’Interno di non reiterare questo argomento, o di volerlo chiarire in modo da tranquillizzare l’opinione pubblica.

L’onorevole ministro dell’Interno ha sostenuto fra l’altro che nella Costituzione non esiste alcuna norma in base alla quale la Camera debba essere eletta col metodo proporzionalistico.

E io rispondo: onorevole ministro, è vero; non esiste alcuna norma, ma esistono tutte le norme, esiste tutta la Costituzione… “

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, la questione della costituzionalità fu discussa lungamente ed è ormai risolta. La vorrei pregare di non riproporre la questione. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, ho già spiegato che non intendo riproporre la questione costituzionale. Siccome l’ultima parola in merito è stata detta dall’onorevole ministro dell’Interno e siccome io sto adempiendo qui al mio modesto dovere di relatore di minoranza, penso di poter aggiungere qualche postilla a quello che diceva il ministro dell’Interno. Non intendo dilungarmi, ed ella lo vedrà. Non penso che a un relatore sia preclusa la possibilità di parlare di una questione strettamente attinente. Se questa prassi si applicasse, si sarebbe dovuti essere più rigorosi. Comunque non intendo dilungarmi più di qualche minuto su questo argomento.

Ripeto, onorevole ministro: ella dice che non esiste alcuna norma, io rispondo, e avevo già risposto prima che ella parlasse, che esiste in tutta la Costituzione la proporzionale, e lo ha detto l’onorevole Piccioni in sede di Costituente, ed anche di que-sto io feci richiamo: e i miei non sono richiami storici o preistorici, ma richiami politici, e mi riferisco a un esponente della vostra parte. L’onorevole Piccioni ebbe a dire che la proporzionale, anche se non citata nella Costituzione, è di fatto in tutta la Costituzione, perché proporzionalista è tutto lo spirito della Costituzione. Noi abbiamo tentato di mostrare ciò col sussidio di numerosissimi articoli della Costituzione; avremmo potuto citarli anche tutti, quelli che attestano come lo spirito proporzionalistico sia lo spirito stesso della Costituzione. Non mi sembra che ella abbia risposto con argomentazioni persuasive. Ella ha detto che per il Senato non si è applicato il sistema proporzionale. Ciò è parzialmente esatto. Il sistema che è stato introdotto dalla Costituente per le elezioni del Senato non è un sistema proporzionale, è un sistema misto che si può molto alla larga definire e considerare uninominale, ma in sostanza è una specie di connubio fra la proporzionale con lo scrutinio di lista ed il sistema uninominale. Ma a parte ciò, è proprio questo un argomento a favore delle nostre tesi.

Se nella Costituzione italiana, come in altre Costituzioni, come nel vecchio Statuto albertino, uno dei due rami del Parlamento non è costruito o costituito o non fosse, in questo caso, poiché ho già detto che la sua tesi non mi sembra adatta con sistema proporzionale, cioè non è rappresentativo proporzionalmente dell’opinione pubblica, della volontà popolare, è questa una ragione maggiore perché la proporzionale, essendo stata introdotta per l’altro ramo del Parlamento, venga per esso mantenuta. Se avessimo la salvaguardia di un altro ramo proporzionalmente

eletto, il suo ragionamento sarebbe calzante; ma poiché non lo è, il suo argomento non avrebbe dovuto essere avanzato.

Inoltre il ministro ha affermato che la proporzionale non è la democrazia, perché in paesi di antica democrazia non esiste la proporzionale. Anche dall’onorevole Codacci-Pisanelli oggi abbiamo udito questo argomento. È perfettamente vero. Ma il problema non è se la proporzionale sia la democrazia; e non dovreste essere voi a sostenere il problema in questi termini, tanto è vero che l’ onorevole Russo, della vostra parte, a un certo punto ha detto: «Non ci intendiamo più sul significato di democrazia; non sappiamo più che cosa voglia dire, perché ognuno di noi attribuisce a questo sì importante vocabolo un significato diverso». Il problema è, onorevole Scelba, se la proporzionale sia questa democrazia, la democrazia italiana, cosi come l’avete voluta costruire ed è costruita.

È esatto che la democrazia americana è una democrazia secondo un significato corrente, che altri vorranno contestare ed io non contesto, e che alla sua base non è proporzionale. Esiste una democrazia inglese, che è democrazia, e non è proporzionale. Secondo le sinistre, le democrazie popolari sono democrazie che alla base non hanno la proporzionale! Ma se in America voi mutaste il sistema elettorale, muterebbe tutto il sistema democratico. E si avrebbe in America non una dittatura, ma un’altra specie di democrazia, non consentita e non prevista dalla Costituzione americana. Ripeto un paragone che ho già fatto in Commissione: se, alla vigilia delle recenti elezioni politiche americane, i democratici che erano al potere avessero ritenuto, per ragioni analoghe a quelle per cui noi intendiamo modificare oggi il nostro sistema elettorale, di modificare il loro sistema elettorale e di introdurre, ad esempio, la proporzionale negli Stati Uniti, avrebbero forse essi, così facendo, distrutto la democrazia negli Stati Uniti? Certamente non l’avrebbero distrutta; però essi avrebbero introdotto un diverso edificio democratico, anche se pur sempre democratico, avrebbero mutato il sistema di democrazia, avrebbero sostituito quello ora esistente con un altro.

Ecco quanto noi legittimamente sosteniamo. Noi stiamo mutando sistema. Voi non fate semplicemente delle modifiche ad un testo unico: mutate sistema. Questo noi vi contestiamo.

Ella ha poi detto, onorevole Scelba, che i principi e i precedenti dei quattro partiti di centro garantiscono che non ci si vuole avviare alla dittatura. Ma ella, onorevole ministro, mi permetta di dire che ha scelto un brutto momento, un momento infelice per dire ciò: esattamente il momento in cui voi democristiani rinnegate uno dei principi fondamentali in nome dei quali vi siete battuti da quando siete nati, la proporzionale; esattamente nel momento in cui gli altri partiti della coalizione rinnegano se stessi e si disgregano, voi fate una affermazione di questo genere.

Voi che vi siete presentati al popolo italiano come i vindici, come gli artefici della democrazia e avete inalberato questo vessillo, oggi voi dite al popolo italiano: fidatevi di noi; e lo dite proprio quando state rinfoderando questo vessillo. Permettetemi, dunque, di dire che, per lo meno, avete scelto un momento infelice per dirlo.

Ed infine ella ha detto, onorevole Scelba: non facciamo il processo alle intenzioni.

Onorevole ministro, io la ringrazio di averlo detto, perché io mi sono battuto in questa Camera proprio in nome di questa sua affermazione. Mi sono battuto con lei per qualche settimana quando fu discussa e varata la cosiddetta lege Scelba contro il fascismo, quella contro di noi. Fu in quella occasione che io, per settimane, dissi: non facciamo il processo alle intezioni; non è lecito accusae una parte politica di nutrire mire determinante, quando non si hanno elementi per poterlo affermare.

Sono dunque, lieto che al momento del probile varo o del tentato varo della legge elettorale, ella venga a dire, onorevole Scelba: non facciamo il processo alle intenzioni. Vede onorevole ministro, io sono più generoso di quanto non lo siate stati voi; io non faccio il processo alle intezioni. Io non vi attribuisco mire,io non vi dico che voi, perseguendo l’ intento di varare questa legge, abbiate particolari mire, o finalità. Io non faccio il processo alle intenzioni , perché non ne ho bisogno.

Vi riferiro, tuttavia alcuni stralci di discorso dell’ onorevole Tesauro e di altri oratori della maggioranza da cui risulta chiarissimo che, senza fare alcun processo alle intenzioni, voi attraverso questa legge vi proponete finalità politiche illegittime sul piano della nostra Costituzione e sul piano della dialettica normale dei partiti o dei diti riconosciuti o legittimi delle minoranze. Quindi non processo alle intenzioni; ma se mai, accertamento tempestivo di responsabilità. Questo si.

E vengo alla parte particolarmente politica.

Prima di rispondere agli oratori della maggioranza che osno intervenuti a favore della legge, io vorrei provarmi a sintetizzare rapidamente i risultati politici che finora sono emersi da questo dibattito. E vorrei provarmi a sintetizzarli obbiettivamente, facendo una specie di primo bilancio consuntivo dei risultati del dibattito stesso.

Primo: credo di poter rilevare che questa legge, per il fatto stesso di essere stata presentata in questo momento espime una crisi, una crisi della democrazia ñ per dirla con l’ onorevole Saragat che adesso e assente, e me ne dispiace ñdella democraziapolitica, una crisi della maggioranza, una crisi nella maggioranza, una crisi della democrazia. Non lo diciamo noi, lo dite voi, l’ ha detto il vostro onorevole Russo, il più autorevole tra i colleghi democritstiani che abbiano partecipato alla discussione generale, il quale ha confessato che, dopo sette anni dalla liberazione, dopo cinque anni di Parlamento, non ci intendiamo più sulla democrazia. Io ricordo che cinque anni fa tutti voi senza eccezione sapesate perfettamente che cosa era la democrazia, e rinfacciavate a noi, appollaiati lassù, di non saperlo. Dopo cinque anni, mentre io pensavo di essere stato da voi in questo quinquennio istruito ed educato, onorevole Scelba, confesso che non ne so più di cinque anni fa. Ma voi steesi non ne sapete più nulla. Lo confessote voi stessi di non intendervi più, di non capirvi più. Dite voi stessi che ogni settore qui dentro Attribuisce al termine democrazia un diverso significato e che non è ormai più possibile il colloquio, non è possibile intendersi. Sono i progressi del gambero. Crisi dunque, della democrazia politica, crisi della maggioranza, perché, onorevoli colleghi alchimia verbale a parte c’è una questioncella che voi dovete spiegare non al Parlamento ma al volgare uomo della strada, come si suol dire.

Voi dovete spiegarci, onorevoli colleghi della maggioranza e soprattutto onorevoli colleghi democristiani, come mai, dopo cinque anni dal 18 aprile, voi stessi ripudiate il sistema elettorale che vi portò al 18 aprile. Voi avete lucrato il 18 aprile attraverso la legge elettorale precedente, attraverso la consultazione elettorale e parleremo di quella legge, parleremo delle critiche che le sono state mosse in quest’aula in quella occasione da coloro stessi che la votarono voi avete lucrato cinque anni fa il vostro successo di 306 deputati da una legge elettorale che, a parte talune sue grosse imperfezioni, era una legge elettorale proporzionalista. Dopo cinque anni quando, se le vostre asserzioni fossero vere, se veramente voi aveste la coscienza di aver servito il popolo italiano, se veramente aveste la coscienza di essere divenuti più popolari ancora in mezzo al popolo italiano, di esservi acquistate benemerenze, di aver diritto alla gratitudine dopo cinque anni, dico, quando voi dovreste ottenere vantaggi ancora maggiori, quando dovreste con la proporzionale, con quello stesso sistema, ottenere votazioni ancora più lusinghiere, siete voi stessi che dite al popolo italiano: «Non abbiamo più tanta fiducia in te quanta ne avevamo cinque anni fa. Siamo noi per primi ad essere convinti che, se ci presentassimo a te, popolo italiano, con lo stesso sistema elettorale con cui ci presentammo cinque anni fa, non otterremmo più lo stesso numero di suffragi e quindi di seggi». Siete voi stessi costretti dalle risultanze elettorali e parleremo anche di questo dai risultati delle elezioni amministrative meridionali in ispecie, siete voi stessi costretti a dire: «Alto là, bisogna che la legge elettorale sia riformata, bisogna che prendiamo a tempo debito i nostri provvedimenti, che ci riferiamo a determinati accorgimenti, a determinati calcoli algebrici, perché altrimenti ci vedremo sfuggire di mano la maggioranza». E se questa non è autodenunzia della crisi, autoconfessione di crisi, ditemi voi che cos’è! È una grave tara sulle vostre spalle questa legge elettorale; è un grave peso e una pesante confessione quella che voi state facendo in queste settimane.

Inoltre, questa legge denunzia una crisi nella maggioranza. Questa legge è stata preceduta, come sempre avviene, da una lunga, faticosa elaborazione extra parlamentare, che si è svolta in sede di partiti, in riunioni fra esecutivi di partiti, fra membri influenti di partiti, i quali sono stati sulla scena per alcune settimane. Si tratta dei soliti «quattro evangelisti». Dopo tutto ciò, voi vi siete presentati in Parlamento con la legge elettorale, ma senza un programma politico a quattro concordato, come era nei vostri primitivi piani. I vostri uomini responsabili dissero mesi or sono che il presupposto essenziale di una riforma consiste in un preventivo accordo a quattro e nel presentarsi di fronte al Parlamento e al paese con un programma, e nel momento sesso in cui si chiede al Parlamento un premio di maggioranza, si spiega al Parla-mento e quindi al paese in nome di quale maggioranza (non di quanta maggioranza), con quali programmi e con quali piani si vuole questo premio. Si vuole avere il Governo, ma si deve spiegare: crediamo di essere degni di governare l’Italia per altri

cinque anni, ma dobbiamo pur chiarire anticipatamente al Parlamento e al paese quale programma, quale largo indirizzo questo Governo dovrà seguire. Ma voi non siete stati capaci di portare qui un programma, né un accordo, né un piano. Non solo; ma avete portato qui dentro le vostre beghe e i vostri dissensi politici.

Abbiamo sentito voci discordi su questa legge: lo dimostrerò facilmente. Questa legge è stata politicamente giustificata in modo difforme dai diversi partiti che la sostengono. Per alcuni è un chiavistello per la destra, per altri per la sinistra; per altri ancora, l ‘ una e l’altra cosa. Per alcuni si tratta di politica di centro in difesa di non so quali ideologie contro altre ideologie. Anche il Presidente del Consiglio, nelle sue recentissime dichiarazioni natalizie, si è mostrato in contrasto con se stesso. Una parte di esse è agro-dolce, l’altra dolce-agro. Vi è infatti anche la parte dolce agro nelle recenti dichiarazioni dell’onorevole De Gasperi. Egli ha detto ai partiti di opposizione: «Di che vi lamentate? Dopo si vedrà. Non vi è che un accordo politico a quattro, il quale però non esclude accordi più larghi». Ma abbiamo sentito dire pochi giorni prima dai rappresentanti della Democrazia cristiana e degli altri partiti che addirittura fra i partiti di centro e tutti gli altri vi è un abisso incolmabile. L’onorevole Russo ha parlato addirittura di una diversa concezione di vita. E l’onorevole Marotta, che pure passa per moderato, ha detto che non c’è assolutamente nulla in comune fra i partiti di centro e le opposizioni. E l’onorevole De Gasperi, pochi giorni dopo, ammette che vi è tanto in comune, che, dopo le elezioni, si potrà vedere. Emerge quindi il solito gioco del compromesso.

Questa, dunque, è una crisi nella maggioranza: è una crisi di orientamento o di disorientamento, che non preoccupa certo noi, ma che dovrebbe preoccupare voi o, per lo meno, l’opinione pubblica.

Seconda constatazione. Onorevoli colleghi della maggioranza, vi dò un triste annunzio: nella prossima campagna elettorale non potrete più sostenere la tesi a voi tanto cara, cara particolarmente all’onorevole ministro dell’Interno, della collusione fra le due estreme opposizioni, perché questa legge, onorevole ministro, dimostra che voi non ammettete, anzi escludete la possibilità di un accordo sia pure di tattica elettorale fra l’estrema destra e l’estrema sinistra, perché se aveste creduto per un solo istante alla possibilità che a questa legge le opposizioni rispondessero unendosi in un patto elettorale, non avreste presentato questa legge che significherebbe la vostra tomba. Avete perfettamente ragione nell’ escludere questa possibilità sul piano tattico perché l’estrema destra e l’estrema sinistra non potranno unirsi elettoralmente; e non lo vogliono e non lo pensano perché sarebbe assurdo per l’una e per l’altra, da qualsiasi punto di vista si consideri la questione. Ma è molto interessante sentirlo dire da voi, perché avete sempre sostenuto il contrario, perché avete fatto balenare di fronte all’opinione pubblica italiana la tesi contraria, vi siete divertiti per anni a dire che gli estremi si toccano nella precisa consapevolezza che gli estremi non si toccavano.Un’ altra constatazione politica che è contraria per voi: non potrete più sostenere ragionevolmente, voi Democrazia cristiana, di fronte ad una opinione pubblica

intelligente quale è quella italiana, neppure la tesi della «diga», la tesi della paura, perché questa legge nasce da un altro presupposto (ed anche su questo sono d’accordo che in linea di fatto potete avere ragione), nasce dal presupposto che le sinistre, da sole, il 50 per cento dei voti non possono raggiungerlo. Perché se voi foste convinti o se aveste anche il sospetto o la vaga paura che la sinistre nelle prossime elezioni di primavera possano in Italia raggiungere e superare il 50 per cento, voi questa legge non la fareste. E se voi foste così folli da presentarla, qualcuno vi avrebbe indotto a ritirarla, qualcuno non vi permetterebbe di correre una simile alea, di correre il rischio di consegnare il potere legale del paese a Togliatti, per togliervi il capriccio di una riforma elettorale maggioritaria.

Questo è noto alla vostra consapevolezza e ciò è rafforzato dalle recenti statistiche elettorali: che le sinistre, comunque le cose vadano, non potranno nelle prossime elezioni raggiungere e tanto meno superare il 50 per cento dei voti. Non venite nella prossima primavera a dire sulle piazze italiane: attenzione qui è la diga della Democrazia cristiana, votate per noi altrimenti il premio di maggioranza cadrà nelle mani dei comunisti. No, questa legge dimostra che voi siete convinti che vi è una maggioranza elettorale solida anticomunista, o quanto meno non comunista in Italia. Questa legge distrugge uno dei vostri principali slogan di propaganda. Forse non avete meditato abbastanza le conseguenze politiche di questa legge di riforma elettorale, conseguenze che potrebbero anche ricadervi sul capo (e naturalmente questo è il mio augurio) come un boomerang.

Altra constatazione di carattere politico: voi avete detto più volte che questa legge rende impossibile ogni alternativa politica di cosiddetta destra. Soprattutto i colleghi dei partiti minori, ma anche i colleghi della Democrazia cristiana non hanno mancato di mettere in rilievo questo fatto. Se ne era reso benemerito in tal senso l’onorevole Poletto, il quale ha ribadito che il fine fondamentale di questa legge, a suo parere (e a parere della Democrazia cristiana poiché non è stato smentito) è quello di impedire alla Democrazia cristiana di essere messa in condizioni, domani, di dover (orrore!) governare insieme con i neofascisti e i monarchici.

Le vostre opinioni noi non le discutiamo. Dovete però ammettere ancora una volta che cade, anche per questo motivo, la vostra tesi della diga o della paura. Perché se quella tesi fosse valida, se vi fosse veramente bisogno a vostro parere della diga anticomunista, se il pericolo fosse tanto grande quanto andrete ripetendo nei comizi elettorali come lo avete ripetuto in tutti i precedenti comizi elettorali, allora non credo, onorevoli colleghi della maggioranza, che guardereste tanto per il sottile; costruirete la diga, direste: ben venga l’aiuto dall’estrema destra, ben ci aiutino i cosiddetti neofascisti o i monarchici. Non venite a dire «difendiamoci»; voi siete preventivamente sicuri che l’estrema destra e l’estrema sinistra non si alleeranno; voi siete sicuri che l’estrema sinistra non supererà il 50 per cento dei voti; voi siete sicuri e tranquilli di potercela fare anche senza l’aiuto dell’estrema destra.

Quindi non andate cercando pretesti attraverso ciò che dice la relazione ministeriale: «situazione eccezionale, pericoli straordinari di ordine interno ed internazio-

nale». Questa legge viene fuori in un momento che voi stessi presupponete normale anche se non tranquillo, poiché nulla è tranquillo in questa fase della vita politica nazionale ed internazionale. Ciò che è anormale è la legge, è il ripiego, la tattica che voi ritenete in questo momento di dover seguire al fine di raggiungere un solo scopo: quello di garantire per voi il potere o per meglio dire il monopolio del potere. Tutti gli altri motivi, tutto il vostro presunto disinteresse, cadono di fronte a questa semplice e, se volete, banale constatazione di fatto.

Di più, la legge deriva, come figlia da madre, dall’esito delle elezioni amministrative in genere, e in particolare dall’esito delle elezioni amministrative nel meridione. Lo avete detto voi, per la Democrazia cristiana lo ha ribadito il sempre benemerito onorevole Poletto e per gli altri partiti lo hanno detto e ripetuto più o meno tutti gli oratori che sono intervenuti: e ciò emerge anche dalle relazioni scritte.

Si tratta pertanto di un dato di fatto obiettivo ed io mi limito a constatarlo perché esso sia messo a verbale e perché tengo fin d’ora a dire che noi lo ripeteremo nelle piazze. È un dato di fatto, cioè, che questa è una legge punitiva di una parte del corpo elettorale italiano. È un dato di fatto che voi, per mezzo di questa legge, reagite al verdetto dato liberamente da una parte del corpo elettorale italiano, da quella parte cioè che intende impedire che si ottenga lo stesso risultato già ottenuto sul piano amministrativo, quando si tratterà di esprimere un voto politico.

È il vostro «vento del nord», onorevole Scelba, è la risposta alle elezioni amministrative meridionali, è il vostro momento azionista. L’azionismo, infatti, ha portato male a coloro che ne sono stati l’espressione: quel partito si è distrutto e non lo ha sciolto lei, onorevole Scelba, si è disciolto da sé perché, come dice l’onorevole Nenni tante volte, «il momento storico era diverso»; il momento storico non è quello dell’azionismo. Comunque queste cose nascono, come è stato dimostrato da quanto abbiamo sentito dire in quest’aula (e anche di ciò riparleremo) e da quanto è stato dimostrato da parte di un deputato che si è espresso molto bene quando ha detto che bisognerebbe vergognarsi di certe vendette. Quel deputato che in quel momento se ne vergognava, adesso non se ne vergogna più, e noi siamo lieti che egli abbia probabilmente meditato come abbiamo meditato noi e come tutti dovrebbero meditare sul fatto che deve essere considerata saggia politica, anzi un dovere da parte della maggioranza e del Governo, prendere atto del modo con cui una parte del corpo elettorale si sia pronunciata, onde trarne le debite conseguenze. Conseguenze che non è necessario, e non è per forza detto, debbano essere in intesa con quella parte politica che il Governo può aver fatto emergere. Conseguenze che possono essere di lotta e di battaglia, di disaccordo sul piano politico, ma che non dovrebbero esserlo sul piano di una legge elettorale, non sul piano di una possibilità che deve essere riconosciuta al popolo italiano di esprimere la sua tendenza, i suoi consensi e i suoi dissensi.

Molte considerazioni che sono state fatte dai colleghi della maggioranza su questa legge sarebbero da ritenere giuste, se essi le avessero fatte non nel periodo pre elettorale per indurre gli italiani a votare in favore del loro partito, o se le facessero

domani nel nuovo Parlamento per conoscere i motivi per i quali si può fare o non si può fare un Governo con una data maggioranza ed una data composizione; ma quando si trasferiscono in sede di legge elettorale, quando si tratta di dare agli italiani tutti uno strumento per esprimere il loro parere e la legge elettorale diventa una legge ideologica o anti ideologica, quando per di più la legge elettorale politica vien fatta in risposta e contro l’esito di una legge elettorale precedente sia pure amministrativa, ciò mi sembra enorme, fuori di luogo, impudente e controproducente da parte vostra.

Sesto punto. La legge nasce dal presupposto che i partiti politici italiani si dividano in due categorie: quelli che possiedono la verità e quelli che non la possiedono; quelli che per definizione sono democratici, quelli che per definizione sono antidemocratici; quelli che per definizione sono al centro della vita del paese, quelli che per definizione sono ai margini della vita del paese. Anche questo l’avete detto voi: è la tesi ricorrente di tutti i discorsi dei deputati di maggioranza.

E allora, onorevoli colleghi, non insorgete se sono proprio io a dirvi e Io dico sinceramente che questa è una legge totalitaria. Il termine «totalitarismo» come del resto il termine «democrazia» sfuma ormai nelle nebbie; ogni partito attribuisce a questo termine un diverso significato: quel che per gli uni è totalitario, per gli altri è democratico, e viceversa. Però credo che un significato sia da tutti ritenuto proprio del totalitarismo e dei sistemi totalitari; si ha il totalitarismo o il sistema totalitario quando nella compagine di uno Stato o nell’ambito di una Costituzione si istituisce la verità di Stato e l’errore di Stato; quando il Governo o la maggioranza stabilisce di fronte all’opinione pubblica quale sia la verità e quale sia l’errore: lì vi è totalitarismo. E credo che questa definizione possa essere accolta da tutti i settori, perché nessuno colpisce ma può comprenderli tutti.

E noi siamo in questa situazione. Noi ascoltiamo discorsi e leggiamo relazioni in cui si stabilisce che siccome quei tali partiti sono democratici possono anche permettersi delle licenze con la democrazia; possono anche permettersi di approvare una legge di questo genere: tanto, si sa, il loro fine non può essere che democratico perché quei partiti sono democratici; mentre altri partiti il nostro, ad esempio che sono a priori antidemocratici, possono anche combattere, come stanno combattendo, una battaglia in difesa della libertà e della democrazia, ma chi sa quali fini totali-tari, tirannici o dittatoriali hanno mentre difendono la democrazia. Questo è totalitarismo, non v’è dubbio; e non è un processo alle intenzioni. Non vi accuso di voler costruire domani una società totalitaria; mi limito a constatare che voi oggi siete perfettamente totalitari.

Settimo punto: la legge nasce sulla volontà, sullo sfondo politico di quella che si potrebbe chiamare una jurnée de dupes, una giornata di inganni, perché questa legge dimostra da parte dei partiti che sperano di avvantaggiarsene il tentativo o la riposta speranza di potersene avvantaggiare non tanto e soprattutto a danno delle minoranze, quanto a danno degli stessi «compagni di cordata», come dice l’onorevole Presidente del Consiglio. Lo dimostrano le famose trattative che faceste

fuori del Parlamento, e che si conclusero in quel famoso modo: cinque seggi in più o in meno.

Cosa dimostrarono quelle trattative? Dimostrarono che l’intento della democrazia cristiana (intento piuttosto palese, più che confessato, dichiarato sia pure a denti stretti) è quello di riuscire, attraverso il congegno di questa legge, ad ottenere per sé sola la maggioranza assoluta dei seggi nel futuro Parlamento in modo da poter sbarcare immediatamente dopo i partiti minori o una parte dei partiti minori, o almeno imbarcare i partiti minori a condizioni.

D’altra parte, anche i partiti minori non ne fanno mistero: lo abbiamo letto sui loro giornali e Io abbiamo appreso dai discorsi dei loro uomini politici responsabili sperano, attraverso il meccanismo politico di questa legge, di poter domani uscire di soggezione e di poter parlare a tu per tu con la Democrazia cristiana la quale ha fatto di loro quel che ha voluto in questi anni; sperano, in altre parole, di poter domani la parola è brutta ma esprime la realtà politica «ricattare» la Democrazia cristiana nelle trattative per i futuri governi.

Non credo che questo quadro sia inesatto, né credo che sia eccessivamente edificante nei confronti della situazione che ha portato alla presentazione di questo disegno di legge.

Voi tutti, democristiani e rappresentanti dei partiti minori, dite che questa legge consacra la validità della formula politica del 18 aprile. A me sembra, alla luce di quanto fin qui ho constatato, dimostrata la vacuità totale della formula del 18 aprile. 1l 18 aprile vi presentaste in quattro, come i quattro moschettieri, ma vi presentaste con un programma, con un manifesto e con un impegno davanti al paese. Stavolta vi ripresentate, i soliti quattro, senza il programma, senza l’impegno, con le trattative sui cinque seggi e, dietro dietro, con il desiderio reciproco di farvi la forca.

Ora risponderò agli oratori che sono intervenuti a favore della legge. Sono molto dolente; ma indubbiamente è colpa mia e dell’ora in cui sono stato costretto a parlare, se la maggior parte di essi non sia presente. Ciò non mi esime dal dovere di replicare alle loro affermazioni. Speriamo che leggano il resoconto e si rendano conto di quanto è stato detto per confutare le loro argomentazioni.

Risponderò anzitutto ai deputati dei partiti cosiddetti minori. Vorranno scusarmi se li chiamo partiti minori, ma sono loro che si chiamano così e mi perdoneranno se, per definirli, uso gli stessi termini che essi usano così volentieri per definire se stessi. “

MARTUSCELLI: “Meglio «satelliti». “

ALMIRANTE: “«Satelliti», no, perché non piace; minori: l’hanno accettato ormai essi stessi di chiamarsi così.

Il Partito repubblicano, onorevole De Vita, che forse è il maggiore fra i partiti minori, per tradizione e per numero di ministri che ha al Governo…”

DE VITA: “È un partito serio. “

ALMIRANTE: “Ne prendo atto: ciò vuoi dire che il Partito liberale e il Partito socialdemocratico sono meno seri… “

DE VITA: “Intendevo dire più serio del suo partito. “

ALMIRANTE: “Scusi, onorevole De Vita, si stava parlando dei partiti minori e io non le ho fatto alcuna offesa, perché stavo dicendo che il Partito repubblicano è il maggiore fra i partiti minori, perché mi sembra che abbia il maggior numero di ministri e sottosegretari; e penso che l’importanza di un partito si misuri anche da questo segno, se non vi sono altri termini di paragone. Ella mi risponde istituendo un paragone con gli altri partiti minori, dicendo che quello è maggiore e più serio; dal che io deduco… “

DE VITA: “Non mi faccia dire cose inesatte. La mia espressione si riferisce soltanto al suo partito. “

ALMIRANTE: “Risponderò per primo all’onorevole Amadeo che ha parlato per il Partito repubblicano. Per occuparmi della tesi del suo discorso dovrei citare una frase che francamente, in un partito tanto serio, mi sembra poco seria. Egli ha detto (cito dal resoconto sommario): «La repubblica è un punto di partenza. Ai sudditi diventati cittadini manca forse ancora il senso dello Stato».

L’onorevole Amadeo crede che la trasformazione da sudditi in cittadini sia avvenuta il 1° gennaio 1948 o il 2 giugno 1946. Io credevo che fosse avvenuta qualche tempo prima, quando si era passati dal regime assoluto al regime costituzionale. È una piccola inesattezza che, in un mazziniano, stupisce.

Egli ha ancora detto che ai sudditi diventati cittadini, secondo lui, manca forse

forse, meno male ! ancora il senso dello Stato. Forse forse, dico anch’io

è l’onorevole ministro Pacciardi che deve educare, con i suoi precedenti, i sudditi diventati cittadini al senso dello Stato. Se l’educazione viene da lui, c’è da disperare sull’avvenire della nostra Repubblica… “

DE VITA: “Quando sono diventati cittadini? Con la marcia su Roma? “

ALMIRANTE: “Penso che lo siano diventati prima, e che lo siano rimasti anche durante e dopo la marcia su Roma… “

DE VITA: “Il popolo italiano ne fu rovinato. “

ALMIRANTE: “Onorevole De Vita, evidentemente simili osservazioni, fatte da lei a me, hanno poco conto e poco peso.

L’onorevole Amadeo ha sostenuto una tesi abbastanza divertente. La sua tesi che chiameremo del «chiavistello», come egli spesso ha detto è che al centro della vita politica italiana c’è una prosperosa e piacente ragazza: la Democrazia cristiana. Sulla illibatezza di questa fanciulla, però, si hanno nell’ambito del Partito repubblicano forti dubbi: cioè si nutrono dubbi soltanto su un settore della sua castità. La Democrazia cristiana ha detto l’onorevole Amadeo è ormai al sicuro dalle tentazioni di sinistra, la loro porta è sbarrata; è invece socchiusa alle tentazioni di destra: a destra c’è qualche baldo giovanotto a quel che sembra che potrebbe anche «indurre in tentazione». Lo ha detto l’onorevole Amadeo: non ha detto queste parole ma il concetto dell’onorevole Amadeo è questo, come ipotesi: sulla destra la porta non è ben chiusa e le tentazioni sono in atto: questa prosperosa fanciulla -la Democrazia cristiana potrebbe lasciarsi indurre in peccato, occorre il chiavistello. E l’onorevole Amadeo, con il Partito repubblicano che è serio offre il chiavistello votando questa legge elettorale.

Egli ha detto «chiavistello» perché è un uomo serio di un partito serio. Forse intendeva dire: cintura di castità. L’onorevole Amadeo con questa legge porge sulla parte destra della Democrazia cristiana una cintura di castità, affinché essa non sia indotta a peccare…

Io non so quanto la tesi dell’onorevole Amadeo garberà alla Democrazia cristiana e ai suoi rappresentanti. Non è molto riguardosa, in verità, questa immagine di una Democrazia cristiana aperta a delle tentazioni che, secondo l’onorevole Amadeo e il suo serio partito, sono naturalmente tentazioni immonde. Ma non so neanche quanto possa questa tesi tornare al prestigio del Partito repubblicano. Gli eredi di Mazzini che fanno da chiavistello o da cintura di castità al partito clericale! Ma è uno strano destino veramente, e le loro tradizioni vanno a finire così!

Badate, non vi è in me ombra di irriverenza verso il partito democristiano quando così Io definisco: è la sua configurazione storica, odierna, così come i repubblicani storici di oggi sono essi a dire che rappresentano la continuità di una certa tradizione, che è quella mazziniana.

Mazzini cintura di castità alla Democrazia cristiana! Doveva pensarci l’onorevole Amadeo prima di sostenere una tesi simile, anche perché, senza risalire all’antico, ma riferendoci ai nostri tempi, si possono citare degli episodi recenti, dai quali risulta come il Partito repubblicano non sia stato sempre, nei confronti della Democrazia cristiana, convinto delle medesime tesi. E se oggi il Partito repubblicano considera la Democrazia cristiana semplicemente e ipoteticamente tentata verso destra, in altre occasioni ha usato verso di essa un linguaggio che direi addirittura insolente.

Il 5 ottobre 1949, riferendosi alla situazione governativa e democristiana, La Voce repubblicana che è un giornale serio così si esprimeva: «L’accaparramento di tutti i posti di comando… è condizione per partecipare effettivamente all’attività pubblica, giacché a questi sviluppi della nostra vita politica si va ormai incominciando ad assistere».

La Democrazia cristiana, oggi, è fanciulla illibata con qualche tentazione sulla destra; ma, allora, nel 1949, quando vi era qualche malumore, quando non andavate bene d’accordo, la descrivevate come una femmina da conio, come direbbe il nostro grande poeta.

Ciò non è molto conseguente.

Poi, nel 1949, a proposito della legge elettorale amministrativa i re magi non erano ancora venuti in quest’aula a portarci la gradita invenzione dell’apparentamento, e quindi si trattava di una legge elettorale, secondo il primo progetto, che ai partiti minori non era molto gradita La Voce Repubblicana inveiva perché vedeva in quella legge un danno per il proprio partito, e, nel numero del 9 settembre 1949, usava termini di questo genere: «La democrazia si snatura e intristisce, e declina verso l’avventura liberticida allorché la maggioranza trascende, allorché vengono soffocate le minoranze».

Oggi non parlate più questo linguaggio nei confronti di una situazione assoluta-mente identica verso le minoranze. Con questa aggravante: che mentre allora si trattava di un dato progetto di legge per le elezioni amministrative, oggi si tratta di una riforma elettorale politica in atto.

L’onorevole Saragat ha fatto un discorso più ampio, più meditato (non posso dire «più serio», perché la serietà è tutta del Partito repubblicano); più concettoso, il quale merita un’attenta considerazione ed una risposta più ampia. L’ho ascoltato attentamente e mi sono accorto che l’onorevole Saragat durante tutto il suo discorso è andato alla ricerca di quello che direi un l eit-motiv, un filo conduttore, un motivo serio al quale appigliarsi: voleva tentare non di ricorrere ai soli espedienti: «pericolo di destra», «pericolo di sinistra»; voleva dare una impostazione organica al grave problema. Non c’è riuscito, a quei che pare, e tenterò di dimostrarlo. L’onorevole Saragat ha cominciato con una banalità. Si è richiamato al Patto atlantico. Poteva farne a meno, non perché quello che egli ha detto, in linea di fatto, dal suo punto di vista, non possa essere riconosciuto esatto. Il Patto atlantico è una realtà, è una legge che abbiamo votato, è un grave problema che ci ha divisi e ci può dividere. È uno dei più gravi problemi. La considerazione di questo problema, cioè della si-tuazione internazionale quale essa è, si deve presentare a noi anche in relazione alle contese elettorali. Ma non qui. Anche l’onorevole Saragat, come ho detto di altri colleghi della maggioranza, ha sbagliato platea, occasione e momento. Egli potrà parlare del Patto atlantico, delle situazioni che esso ha determinato, dei doveri che, secondo lui, tali situazioni comportano nei confronti dei socialisti e dei socialdemocratici, ne potrà parlare al popolo italiano, al suo corpo elettorale, quando andrà cercando di raggranellarlo sulle piazze (per ora egli va a cercarlo in seno al suo partito), per parlargli dell’America e della Russia, della grave situazione in cui siamo tutti impigliati. Ma che egli venga a dirci, qui, che bisogna approvare questa legge elettorale perché c’è il Patto atlantico, ed una situazione internazionale determinata, non è giusto.

Questo mio rilievo non è superficiale e polemico. Non mi pare, immodestamente, che lo sia. È un rilievo grave. Insisto ancora una volta, e mi sembra una considerazione di grande importanza: qui ci stiamo occupando della legge elettorale. Come Camera dei deputati il nostro mandato sta scadendo. La nostra funzione rappresentativa sta venendo meno. Stiamo per passare le consegne al corpo elettorale italiano, perché esso ci dica come vuole essere diretto, rappresentato… “

Una voce al centro: “E governato. “

ALMIRANTE: “Sicuro, anche governato, nel prossimo quinquennio. In questi cinque anni mentre legiferavamo e mentre deliberavamo sui problemi politici interni e internazionali, prima di tutti il Patto atlantico, i richiami del tipo di quello dell’onorevole Saragat erano pertinenti. Col mandato ricevuto nel 1948 si trattava di assumere determinate responsabilità. Ma nel momento in cui questo mandato scade, noi abbiamo un solo compito: mettere il popolo italiano nella condizione di eleggere un altro Parlamento che lo rappresenti. Le conclusioni politiche le trarrà il popolo italiano votando quel Parlamento; le trarrà quel Parlamento quando sarà stato eletto. Sarà in quel Parlamento che l’onorevole Saragat, se sarà stato rieletto, potrà dire: bisogna costituire questo o quel Governo perché c’è il Patto atlantico e c’è questa determinata situazione; un Governo che non fosse costituito nell’ambito dell’osservanza del Patto atlantico potrebbe comportare per il nostro paese determinati pericoli. Oppure l’onorevole Saragat potrà legittimamente fare richiami di tal genere quando, non sempre, si rivolgerà al corpo elettorale e gli dirà: «Vota in questo modo, perché altrimenti il nostro paese andrà verso situazioni di pericolo internazionale».

Qui tali richiami sono fuori senso e fuori luogo, sono assolutamente illegittimi e non hanno validità. Qui si tratta di studiare lo strumento elettorale migliore perché il popolo italiano possa dirci esso stesso, nel prossimo quinquennio, se vuole la politica atlantica e no. Se vuole la politica atlantica come voi l’avete fatta, o se vuole una politica atlantica come altri vorrebbe farla. Non potete evidentemente dare per deciso quello che altri debbono decidere, poiché altrimenti voi vi mettete in una manifesta posizione contraddittoria.

E dopo il richiamo al Patto atlantico, l’onorevole Saragat ha fatto appello, com’è sua abitudine, al concetto di democrazia politica, di cui ha tentato di fare, come dicevo prima, il leit-motiv, il cavallo di battaglia di tutto il suo intervento. Senonché, anche questo suo richiamo è stato imprudente, perché io debbo ricordare non a lui che non è presente, ma ai suoi colleghi, che gentilmente sono presenti e mi ascoltano, quanto l’onorevole Saragat ebbe a dire nel 1950, in un importante intervento che ebbe luogo in seguito alla crisi governativa che ebbe per effetto l’uscita dalla compagine governativa dei rappresentanti del Partito liberale.

L’onorevole Saragat, in quella occasione, ebbe a dire: «La democrazia politica oggi si deve articolare in funzione non di costruzioni di carattere parlamentare o elettoralistico, o di argomenti di tattica, ma si deve articolare in funzione di una esigen-

za fondamentale: la lotta contro la miseria, la lotta per rispondere ai bisogni della classe operaia. Ed è cimentandosi con queste esigenze che la democrazia si deve articolare; è su una pressione d’una politica di quel tipo che noi vedremo come la democrazia si organizza e si manifesta. Altro che articolazione creata in base a vecchie concezioni di meccanica parlamentaristica!»

E allora noi diremo oggi all’onorevole Saragat: quanto egli è mutato da quel tempo! Se, infatti, non fosse mutato, oggi non sarebbe venuto qui con la preoccupazione di cinque deputati di più o di meno, ma con un programma sociale, sarebbe venuto a dire: noi aspiriamo alla maggioranza, perché noi vi portiamo questo bilancio di nostre realizzazioni, di nostre opere a favore della classe lavoratrice, di nostre indagini, di nostri punti di vista, di nostre prove, di nostre prese di posizione concrete.

E, invece, l’onorevole Saragat, che due anni fa predicava sufficientemente bene, sta razzolando ora, mi sembra, assai male. L’onorevole Saragat ci ha detto che gli interessi della classe lavoratrice italiana sono intimamente legati alle fortune della democrazia politica. Ma questa è una frase; una bella frase, se volete, ma soltanto una frase. Per avere ragione di venircelo a dire, l’onorevole Saragat avrebbe dovuto infatti poterci dimostrare che i paladini della democrazia politica hanno fatto qualche cosa per i lavoratori italiani.

Ora, io non dico che non si sia fatto assolutamente nulla; si è lavorato; in certi settori si può anche aver fatto molto, e in certi casi può essere stato fatto poco e male. Ma quello che poteva essere il vostro piano, onorevoli colleghi della socialdemocrazia, non si è realizzato, perché i famosi vostri piani contro la disoccupazione, per la piena occupazione della mano d’opera, il Parlamento non li ha né visti né conosciuti, non ha avuto da voi alcun contributo concreto e positivo che non sia stato quello piuttosto divertente talora, anche piuttosto ameno, se volete, ma non certo producente a favore del popolo, a favore della classe lavoratrice, di tutti i vostri congressi, di tutti i vostri incontri e scontri, del vostro continuo riunirvi e dividervi.

L’onorevole Tremelloni, dopo i vani tentativi che egli personalmente ha compiuto per fare non dico conoscere ed apprezzare, ma leggere e consultare in sede governativa i famosi «piani» che si dice abbia nel cassetto, è riuscito in un quinquennio a promuovere un’inchiesta parlamentare sulla disoccupazione. Cioè, questo medico è riuscito in un quinquennio a mettere il termometro sotto il braccio dell’ammalato! “

Una voce all’estrema sinistra: “Non l’ha ancora messo! “

ALMIRANTE: “E non l’ha ancora messo completamente bene! E allora, se mi dite che questa è la cura, aspettiamo l’altro medico che dia l’olio santo all’ammalato, nelle vesti della Democrazia cristiana.

Mi pare dunque, colleghi socialdemocratici, che in questo stia la debolezza della posizione dialettica assunta durante questo dibattito dall’onorevole Saragat. Egli che tre anni fa enunciava programmi e progetti ottimi a parole, ottimi anche nelle intenzioni che credo senz’altro ottime e sincere, si trova oggi nella situazione in cui si tro-

va tutta la maggioranza, la quale continua a presentare al Parlamento e al popolo italiano programmi e progetti senza accorgersi che il quinquennio è scaduto, che non siamo più in fase di preventivi, ma che dovremmo cominciare a metterci nella fase dei consuntivi. È un consuntivo che si deve fare al popolo italiano! Non può l’onorevole Saragat, in nome della democrazia politica, dire nel 1953 un sunto dei suoi discorsi elettorali del 1948; non può dire: vogliamo edificare la democrazia politica in nome della quale ci batteremo per la fortuna dei lavoratori italiani. Certo che nessuno chiede talismani e miracoli al Partito socialdemocratico, ma non presentatevi anche voi a dire «risolveremo», come diceste cinque anni or sono, senza presentare nessun conticino consuntivo… “

INVERNIZZI GAETANO: “Però Ivan Matteo Lombardo va a Parigi! “

ALMIRANTE: “Ivan Matteo è un simpatico socialdemocratico atlantico, sul conto del quale non oso azzardare giudizi politici. “

VIGORELLI: “Per lo meno, non siamo, come voi, soci di quelli là “

( indica l’estrema sinistra Applausi al centro e a destra).

ALMIRANTE: “Noi siamo dei deputati, i quali in questi cinque anni hanno dimostrato di combattere, qui e fuori di qui, le loro battaglie con una certa chiarezza, lealtà e serietà. È evidente che voi giudicate negativamente la nostra parte politica, tanto è vero che ella, onorevole Vigorelli in persona, dopo aver dichiarato alla stampa essere iniqua la precedente legge Scelba contro di noi, ha parlato a favore di quella legge e l’ha votata. “

VIGORELLI: “È inutile questa discussione. “

DE VITA: “Da un’ora e mezzo parla con aria di sufficienza abusando della nostra cortesia! “

ALMIRANTE: “Il repubblicano storico onorevole De Vita considera un’opera di sopportazione ascoltare un oratore che parla. “

PRESIDENTE: “I commenti facciamoli ciascuno nel proprio animo senza esprimerli, perché sono sempre soggettivi. “

ALMIRANTE: “In questa situazione, colleghi socialdemocratici, mi riferisco ancora al discorso dell’onorevole Saragat mi sembra inutile che Saragat dica, come ha detto qui, che per risolvere la situazione politica italiana Nenni dovrebbe essere Bevan. Nenni non può essere un Bevan in Italia, per la buona ragione, oltre a tante altre io non difendo Nenni, ma rispondo ad un oratore della maggioranza e credo che questo rientri nei doveri del relatore che Saragat non è un Attlee,

non è neanche uno Schumaker, non è uno di quei socialdemocratici, purtroppo stranieri, i quali hanno saputo nei loro paesi e con le esperienze dei loro paesi che io non credo siano ripetibili esattamente in Italia, ma che comunque possono essere prese a monito e ad esempio, perché siete voi stessi che lo fate ogni giorno hanno saputo, dicevo, conciliare le esigenze sociali con le esigenze nazionali. Essi non si sono mai dimenticati degli interessi inglesi, in quanto laburisti, o degli interessi tedeschi; essi non hanno mai anteposto gli interessi della loro nazione agli interessi delle classi lavoratrici e hanno sempre pensato che gli uni andassero di conserva con gli altri. Qualcuno sperò che dal famoso congresso di Firenze qualche cosa di simile potesse o dovesse nascere. Quando in Italia vi fosse stata una socialdemocrazia italiana nel senso che io sto dicendo e che non ha nulla di offensivo nei vostri confronti, perché si tratta di valutazione politica, probabilmente i problemi politici del nostro paese sarebbero stati impostati in modo diverso, probabilmente anche una parte notevole della gioventù italiana avrebbe potuto orientarsi verso simili forme di sociali-smo. Mi pare che proprio voi il vostro partito o alcuni uomini del vostro partito e in particolare Saragat siate venuti meno a possibilità e ad aperture di questo genere.

Quindi mi sembra che non abbiate le carte in regola per muovere rimproveri ad altri uomini di altra parte (ecco perché non difendo affatto la posizione politica dell’onorevole Nenni, e non potrei mai difenderla), ad altri uomini i quali hanno identica o analoga responsabilità, perché in altro senso hanno commesso identici errori. Saragat, oltre alla parte seria del suo discorso, alla quale mi sono studiato di rispondere, si è naturalmente servito anche dei soliti espedienti polemici. E gli è capitato di dire che l’opposizione di estrema destra è costituita da elementi fascisti e monarchici, che tendono a rovesciare le istituzioni vigenti. Questa definizione dell’onorevole Saragat mi sembra semplicistica. Se egli è un socialista come dichiara, egli c’ insegna che la sua democrazia politica non è una democrazia statica, ma una democrazia per lo meno riformista, la quale tende a costituire una società migliore. Per altre vie, con altri metodi, noi pure tendiamo a costituire quella che a noi sembra una società migliore. L’importante è che il presupposto per tutti sia la sovranità del popolo, l’educazione progressiva del popolo. Alla sovranità del popolo, noi che siamo bestemmiati, ci siamo tranquillamente rimessi dopo il 18 aprile 1948. Cinque anni fa il popolo italiano ci assegnò cinque modesti posti su quei banchi. Ce li prendemmo: vi era poco da protestare. In questi anni abbiamo cercato di meritarci dal nostro punto di vista la fiducia di più larghe schiere di italiani. Ci sembra di esserci riusciti. Ora, che cosa chiediamo? Che la sovranità popolare sia rispettata. E ci sembra che ciò non significhi tendere al rovesciamento delle istituzioni politiche vigenti.”

CORNIA: “Non le avete rispettate per venti anni, e oggi avete il coraggio… “

ALMIRANTE: “Io speravo di essere interrotto con argomentazioni più nuove. Per venti anni, io non ho potuto né rispettare né non rispettare alcunché, in quanto mi trovavo nella situazione in cui si trovavano parecchi colleghi di questa Camera, che erano esattamente della stessa parte della mia barricata che, ad un certo punto, per ragioni che saranno pure rispettabilissime, hanno ritenuto di passare dall’altra parte della barricata per rimproverare ad altri torti che avrebbero commesso.

Io, come gran parte degli uomini che vivono oggi in Italia, uomini della mia stessa età, sui 35-40 anni, mi sono trovato di fronte ad una esperienza costruita, di fronte a un sistema, il quale non mi diceva di essere democratico, ma mi diceva di essere nemico della democrazia parlamentare; ci diceva che la democrazia parlamentare era un sistema decadente, ci diceva di essere il sistema della dittatura e che quello era il sistema migliore. Io mi sono trovato dentro quel sistema, sono vissuto in quel sistema: non ho nulla da rinnegare di ciò che ho detto, fatto, pensato, perché ho detto, fatto e pensato nella mia buona fede. Posso avere sbagliato, ma non ho mai approfittato. Dopo mi sono trovato immesso, attraverso fasi piuttosto drammatiche della mia come del resto della vostra esistenza, in un altro sistema.

Il quale non mi ha detto: io sono maggioritario. Mi ha detto: io difendo e difenderò le minoranze, difenderò le libertà delle opinioni, difenderò il popolo sovrano; io rispetterò la sovranità popolare.

Dopo di che, avendo io creduto in buona fede nelle validità di quello che mi si diceva, avendo pensato che per lo meno queste fossero le intenzioni, essendo divenuto come voi deputato in seguito ad una libera elezione, mi sono trovato di fronte agli stessi uomini, o per lo meno a una parte degli stessi uomini, i quali in un problema fondamentale qual è quello della legge elettorale e della sovranità del popolo cambiano sistema, mutano bandiera. Essi, proporzionalisti, diventano anti-proporzionalisti. Essi che dicevano essere il massimo pregio della democrazia parlamentare quello della possibilità di cambiare i governi secondo che la situazione politica si evolvesse, mi vengono a dire che il pregio che bisogna andare a cercare, onorevole Poletto, è la stabilità governativa, di cui mi sono state riempite le orecchie per tanti anni. “

POLETTO: “Si tratta di una cosa molto diversa. “

ALMIRANTE: “La gioventù italiana ha il diritto di protestare per il modo con cui venite meno alle vostre promesse. Non avete il diritto in questo momento di dire a noi: per venti anni ci avete dato la dittatura. No! Noi abbiamo creduto di aver servito bene l’Italia come l’abbiamo servita. Abbiamo fatto il nostro dovere, Io continuiamo a fare ora, abbiamo creduto nel vostro sistema, non vi abbiamo dato rivoluzione di piazza, non vi abbiamo creato problemi sovversivi e clandestini, non abbiamo fatto cellule: abbiamo fatto un partito politico il quale vi ha presentato sulle piazze italiane il suo programma, la sua bandiera, le sue insegne e che più o meno ha ottenuto la fiducia di una parte pur piccola del popolo italiano. Siamo entrati come deputati in un regime che c’ è stato detto democratico, dopo cinque anni voi.

cambiate le carte in tavola e quando vi accusiamo di ciò (pacatamente e comunque assumendo la nostra responsabilità) ci dite «ma, venti anni fa (questa è la favola del lupo e dell’agnello), ci intorbidaste le acque». Siete voi che avete intorbidato le acque prima e dopo, questa è la realtà.

Quando poi l’onorevole Saragat dichiara che verso l’estrema sinistra non esiste da parte sua alcuna pregiudiziale di carattere assoluto ma solo una impossibilità contingente di natura internazionale, allora io non so se questa dichiarazione vi trovi perfettamente consenzienti. Questa dichiarazione mi sembra piuttosto grave, per due motivi.

In primo luogo perché offre all’estrema sinistra un’arma polemica formidabile. Pare quasi che la barriera fra la socialdemocrazia e l’estrema sinistra sia costituita soltanto dalla impossibilità contingente di natura internazionale. Pare vero cioè, per la socialdemocrazia, che la decisione relativa alla politica atlantica mantiene un determinato schieramento e che il Partito socialista uscirebbe da quello schieramento se le condizioni che l’onorevole Saragat considera contingenti mutassero.

Non è una posizione molto meditata, anche perché l’onorevole Paolo Rossi qui presente ricorderà la scena commovente (a me l’hanno raccontata) che ebbe luogo al teatro dell’Opera quando egli, con suo abile, pacato e brillante intervento fece credere ai poveri ingenui della Democrazia cristiana che la socialdemocrazia non fosse più materialista e marxista. Fu un uragano di applausi. Egli lucrò, con la sua abilità dialettica, in quell’occasione più applausi dell’onorevole De Gasperi e dell’onorevole Gonella nei loro interventi. Fu il vero eroe di quella giornata congressuale. E poi l’onorevole Saragat viene qui a dire ai democratici cristiani: badate, dall’estrema sinistra ci dividono ragioni contingenti di carattere internazionale; il che significa: noi siamo marxisti e materialisti quanto loro, legati alle loro dottrine, ai loro principi. Se domani Eisenhower e Stalin si incontrassero e si mettessero d’accordo, quelle ragioni contingenti potrebbero cadere. Mi pare che l’onorevole Ivan Matteo Lombardo, che ritengo sia più furbo (non vorrei che nascesse un nuovo screzio nella social-democrazia, per carità!), abbia «capito il latino» e sarà d’accordo nel ritenere che non vi convenga dichiarare che dall’estrema sinistra vi dividono soltanto contingenti motivi di politica internazionale.

Non si fonda un partito politico su dei contingenti motivi. Allora è un partito contingente, è il partito del contingente e, per meglio dire, del contingente internazionale, neppure di un contingente italiano, un partito fondato su ragioni contingen-ti di vita interna? Il che significa che se, su contingenti motivi che sfuggono alla vo-stra responsabilità, alla vostra attenzione, alla vostra decisione, un partito politico al di fuori non soltanto delle vostre direttive ma del nostro paese prendesse determinate decisioni diverse, il vostro partito si troverebbe immediatamente allineato con quei partiti contro i quali da anni state combattendo una battaglia che al popolo italiano nelle piazze avete fatto credere sia non solo una battaglia di motivi contingenti e di tattica elettorale ma di principi dottrinari e di fondo.”

VIGORELLI: “Il fascismo è contingente! “

ALMIRANTE: “Allora vuol dire che quando avrete tenuto il potere per venti anni, cambierete il Governo. “

Una voce al centro: “Voi siete finiti piuttosto male! “

ALMLRANTE: “Ma in questi giorni sembra che voi piuttosto siete finiti male, se proprio ci tenete a parlare di fine. “

LA MARCA: “Pensiamo alla Provvidenza, la quale è senza limiti… “

ALMIRANTE: “Malgrado la parentesi rosea nei rapporti tra socialdemocratici e democristiani, malgrado l’intervento davvero prudenziale dell’onorevole Paolo Rossi al teatro dell’Opera, lo stato d’animo dell’onorevole Saragat e della socialdemocrazia in generale nei confronti della Democrazia cristiana deve essere rimasto ancorato ad una affermazione dell’onorevole Saragat medesimo, fatta nell’ottobre del 1950 e pubblicata su La Giustizia. Egli diceva allora: «Si deve constatare che i democratici cristiani non sono altro che dei liberisti ortodossi, voglio dire rimasti alle teorie di Bastiat che circolavano negli ambienti capitalistici di fine ottocento».

Un’affermazione simile non scandalizza certo l’onorevole Ivan Matteo Lombardo; ma, probabilmente, un certo scandalo potrebbe suscitarlo nelle file socialdemo-cratiche ortodosse, e non molto piacere suscita tra le file democristiane. E anche quando l’onorevole Saragat si richiama, come ad un ancoraggio, alla situazione internazionale, mi sembra che esso ancoraggio sia relativamente valido. Sentite come si esprimeva La Giustizia, circa un anno fa: «Se gli Stati Uniti si accordassero con Franco (si parlava allora dei rapporti americano-spagnoli), lascerebbero supporre un totale capovolgimento dei fondamenti morali della politica degli Stati Uniti».

Onorevoli colleghi socialdemocratici, certo ciò a voi dispiacerà, ma gli Stati Uniti in questi giorni, come sapete, si sono accordati con Franco.”

LOMBARDO IVAN MATTEO: “Seguendo certi accordi fatti dalla Russia e dall’Argentina… “

ALMIRANTE: “Ma anche questa considerazione porta acqua al mio mulino. Ad iniziativa anche di altre nazioni che avevano sempre dichiarato di porre determinati sbarramenti contro la teoria franchista, anche gli Stati Uniti si stanno mettendo d’accordo con Franco. Gli Stati Uniti hanno preso importanti iniziative internazionali per raccomandare che Franco, al dì fuori dei vincoli del sistema atlantico, possa entrare a far parte di quel sistema senza, badate bene, chiedere alla Spagna la stessa contropartita e, diciamo così, di primo letto dell’alleanza atlantica.

E allora hanno sbagliato l’onorevole Saragat e i socialdemocratici quando hanno preteso d’ impostare, un anno fa, in termini morali questo problema internazionale? Sbagliano oggi quando lo impostano vagamente in termini contingenti? “

VIGORELLI: “Ma ella sta facendo la relazione sulla socialdemocrazia! “

ALMIRANTE: “Sto rispondendo agli oratori che sono intervenuti; e rispondo in particolar modo alle argomentazioni addotte dall’onorevole Saragat a difesa della legge elettorale, così come risponderò a quelle degli altri oratori degli altri partiti. Ho dedicato un po’ di tempo al discorso dell’onorevole Saragat, perché mi è sembrato un discorso di una certa ampiezza e serietà.

Se mi consentite, un mio modesto avviso è questo: le radici dei guai del vostro partito stanno nel fatto che questo partito non sta dicendo quello che vuole; che questo partito imposta volta per volta problemi di fondo o problemi morali, problemi di gran fondo come problemi contingenti e tattici. Dovete mettervi d’accordo con voi stessi prima di reclamare un premio di maggioranza dal popolo italiano.

Concludo con una citazione che riguarda personalmente l’onorevole Vigorelli. E ricorderò come ella stessa, onorevole Vigorelli, mi abbia dato ragione in anticipo quando in quest’aula, il 18 novembre 1949, in occasione di quella che fu definita la piccola crisi del 1949, ebbe a dire: «La nostra azione del Governo si è diluita ed annullata in quella generica ma numericamente soverchiante degli altri partiti. E ne abbiamo assunta la corresponsabilità senza che ci fosse possibile affermare con anticipo la nostra azione e far prevalere nel Governo la nostra direttiva neppure in quei settori che erano stati confidati alla nostra apparente direzione».”

VIGORELLI: “Questa è la risposta a ciò che dicevo poco fa. “

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, la prego di concludere. “

ALMIRANTE: “Sono arrivato all’ultima citazione per dimostrare all’onorevole Vigorelli che mi sto occupando non del Partito socialdemocratico o della socialdemocrazia ma della legge elettorale. Voi, socialdemocratici, in questo momento vi presentate in Parlamento e di fronte all’opinione pubblica affermando di voler rinnovare per un altro quinquennio il patto del 18 aprile 1948 e dichiarate che in nome di questo rinnovato patto, voi chiedete addirittura al popolo italiano un premio di maggioranza. Ma voi, socialdemocratici, non avete le carte in regola per fare tale dichia-razione perché il popolo italiano in questi cinque anni ha visto che voi quel patto non lo avete potuto osservare; ha visto che voi, dopo essere venuti qui con un impegno politico, questo impegno non lo avete potuto mantenere. E non mi sembra questo un buon biglietto da visita per la futura consultazione elettorale alla quale vi presentate con le stesse tare originarie che in questi cinque anni si sono rivelate a vostro carico.

Per la socialdemocrazia ha parlato l’onorevole Calamandrei, del cui discorso, naturalmente, non ho ragione di occuparmi in particolare, perché rispondo soltanto a coloro che hanno parlato in favore della legge. Però, siccome all’onorevole Calamandrei hanno risposto oratori democristiani, ed in particolare l’onorevole Russo, i quali hanno rilevato che egli si sarebbe contraddetto quando ha sostenuto che il premio avrebbe potuto essere considerato legittimo se concesso ad un partito che da solo avesse superato il 50 per cento dei voti mentre è da considerarsi illegittimo essendo assegnato ad un gruppo di partiti, mi sembra che non vi sia contraddizione con quanto ha detto in proposito l’onorevole Calamandrei. Egli si è limitato a farvi osservare che è contraddittorio da parte vostra definire «premio alla maggioranza» quello che dovrebbe essere un premio alle minoranze riunite insieme, mentre non sarebbe contraddittorio definire premio di maggioranza quello che venisse assegnato a quel partito che da solo avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti.

Acuta, però, mi sembra l’osservazione dell’onorevole Russo all’onorevole Calamandrei. Il collega Russo ha detto che il discorso dell’onorevole Calamandrei è stato il discorso della disperazione. L’onorevole Calamandrei non ha suggerito uno «sbocco». Egli ha detto: impossibile in questo momento l’alleanza con l’estrema sinistra per le solite ragioni contingenti o meno; addirittura inaudita l’alleanza con l’estrema destra; illegittimo il premio di maggioranza, cioè la situazione in cui si po-ne l’attuale maggioranza. Quindi non ha presentato uno sbocco e può darsi che sia stato quello dell’onorevole Calamandrei il discorso della disperazione. Badate, però, che questo argomento si rivolge contro di voi e non contro di noi, perché è il discorso della vostra disperazione. “

POLETTO: “No, è il discorso della disperazione dell’onorevole Calamandrei! “

ALMIRANTE: “Voi non siete in disperazione perché di fronte ai vaticini oscuri delle Cassandre che si levano in seno a quella che fu la maggioranza compatta del 18 aprile, vi tappate le orecchie. Badate, quando delle Cassandre entro un recinto di mura assediate si levano e fanno dei vaticini e gli altri si tappano le orecchie per non sentirli e dicono che sono grida di disperazione, sono pur sempre grida di disperazione che vengono da settori vostri, che si sono presentati insieme con voi il 18 aprile e che hanno combattuto insieme con voi tutte le battaglie politiche in questo quinquennio.

Qualche parola desidero spendere sul Partito liberale per cui ha parlato lungamente l’onorevole Cifaldi, che mi spiace molto di non veder presente. Comincio con il riportare fedelmente le sue affermazioni fondamentali che sono veramente importanti. L’onorevole Cifaldi ha detto testualmente: «Se le elezioni si svolgessero con la legge elettorale del 1948, cioè con la cosiddetta proporzionale impura, la composizione dell’Assemblea risulterebbe probabilmente per il 36-37 per cento socialcomu-nista, per il 40 per cento circa democristiana e per il 20 per cento monarchico-missina. I partiti minori praticamente scomparirebbero». “

POLETTO: “Il 20 per cento ai monarchico-missini è abbondante! “

ALMIRANTE: “Ho citato le parole testuali dell’onorevole Cifaldi, il quale ha concluso dicendo che, ove si facessero le elezioni con quella legge, i partiti minori praticamente scomparirebbero e, quindi, scomparirebbe anche il collega Cifaldi a meno che non fosse compreso in quel 4 per cento che egli grosso modo ha attribuito a tutti i partiti minori nel loro insieme. Da questa constatazione fallimentare l’onorevole Cifaldi non ha tratto alcun insegnamento di ordine politico; non ne ha tratto un monito, sia pure tardivo, a cambiare politica, a migliorare l’organizzazione del suo partito ed a collaborare alla migliore organizzazione degli altri partiti che scomparirebbero. Egli ne ha tratto una sola conseguenza: se si fanno le elezioni col vecchio sistema, noi alla Camera non torniamo più; ma siccome noi vogliamo tornare alla Camera, bisogna modificare il sistema elettorale. Badate che anche questa seconda affermazione, in termini press’ a poco duri come quelli nei quali io li ho manifestati, è dell’onorevole Cifaldi, il quale ha dichiarato che egli così parlava e si batteva in favore della riforma elettorale testualmente «nella speranza che il Partito liberale possa tornare in quest’aula con rappresentanti più numerosi». Più chiari di così non si potrebbe essere.

Naturalmente, l’onorevole Cifaldi si è accorto che occorreva ricercare anche qual-che giustificazione politica ad affermazioni così gravi; e allora ha cercato anche la giustificazione politica. In primo luogo ha cercato una giustificazione al suo riconoscimento che le posizioni del Partito liberale si sono polverizzate, e la sua risposta è questa: «Il quadripartito non è stato durevole perché i partiti minori non erano sorretti da una sufficiente forza parlamentare».

L’onorevole Cifaldi va a peso nel giudicare le passate elezioni e le prossime elezioni; è andato a peso anche nel giudicare la crisi dei partiti minori se la rappresentanza parlamentare fosse stata non più capace, non più adeguata, ma numericamente più consistente egli ragiona la crisi non ci sarebbe stata.

Ha risposto anche all’altra domanda: perché mai bisogna a tutti i costi che i liberali tornino più numerosi. La risposta è questa: per evitare il pericolo grave che la Democrazia cristiana cerchi appoggi a destra, nel qual caso la sinistra non avrebbe altra alternativa che il ricorso alla piazza.

Anche l’onorevole Cifaldi, come già l’onorevole Amadeo, vuol costruire sulla destra della Democrazia cristiana una cintura di castità, per il pericolo che la Democrazia cristiana si lasci sedurre dai richiami della destra politica.

Ha, ancora, l’onorevole Cifaldi aggiunto che, per conseguire questo scopo, cioè per impedire che la Democrazia cristiana possa essere indotta in tentazione, non era neppure sufficiente il 50,1 dei seggi, ma occorreva il premio di maggioranza perché egli ha detto, prevedendo tutte le eventualità in cinque anni possono esservi dei mutamenti di valutazione e di convincimenti politici. Quindi questa legge serve: primo, ad ovviare ai mutamenti di valutazione e di convincimenti politici che nel

passato quinquennio si sono determinati nell’opinione pubblica e nel futuro Parlamento: è una legge ombrello per il passato e per l’avvenire.

Ora, all’onorevole Cifaldi e ai liberali maggioritari che siedono in questa Camera noi dobbiamo ricordare qualche cosa. In primo luogo, dobbiamo far rilevare loro che, secondo quello che essi stessi hanno dichiarato qui dentro, i liberali in questo quinquennio non sono riusciti, quando erano al Governo, a far prevalere una loro linea; quando sono usciti dal Governo a dare un significato purchessia alla famosa opposizione costituzionale della quale hanno tanto parlato: ed è estremamente facile documentare questo. Bisogna ricordare quello che diceva l’onorevole Cocco Ortu in questa Camera al tempo della crisi del febbraio 1950. L’onorevole Cocco Ortu disse: «La nostra decisione di oggi (cioè quella di uscire dal Governo)…. “

PRESIDENTE: “Credo che simili letture non siano più necessarie, data l’ora. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, questa lettura politicamente mi serve: la risparmierei alla Camera se eventualmente non mi servisse dal punto di vista politico.

Dunque, l’onorevole Cocco Ortu diceva, quando i liberali si staccarono dal Governo: «La nostra decisione di oggi mantiene tutto il proprio peso nonostante voi, perché essa risponde all’anelito e alla volontà della parte più politicamente evoluta del popolo italiano, quella che vuole si rompa quel dialogo Democrazia cristiana-comunismo (e non democrazia-comunismo, come ha detto oggi il Presidente del Consiglio), dialogo che non può intristire oltre e permanentemente la vita politica italiana. Con una tale decisione» quella dell’uscita dei liberali dal Governo «ci siamo assunti un grande onere e una grande responsabilità: quella di dare al paese una opposizione costituzionale, rompendo questo dialogo che la Democrazia cristiana o la parte più avveduta di essa avrebbe forse voluto protrarre fino alla prossima consultazione elettorale.

Il Partito liberale si presenta oggi alla Camera dicendo di voler garantire che la Democrazia cristiana non volti a destra. Ora, finché asserzioni di tal genere provengono dai socialdemocratici, finché affermazioni di tale natura provengono perfino dai repubblicani, possono essere prese sul serio dall’opinione pubblica, la quale può ritenere che il Partito socialdemocratico o anche il Partito repubblicano chiedano domani alla Democrazia cristiana una politica più socialmente avanzata di quella che essa non sarebbe indotta a condurre per suo conto. Ma che una simile posizione venga assunta qui dentro e di fronte all’opinione pubblica dal Partito liberale, è veramente troppo!

Voi tutti sapete e furono soprattutto i socialdemocratici a metterlo in rilievo in occasione della crisi politica del febbraio 1950 che il Partito liberale uscì dalla coalizione governativa per due motivi: la riforma agraria e la legge elettorale, un motivo di carattere sociale e uno di carattere elettorale. Essi uscirono dal Governo perché non erano d’accordo sulla riforma agraria, che ritenevano non importa se

avessero ragione o torto socialmente troppo avanzata e troppo demagogica; uscirono dal Governo perché ritenevano che il Governo facesse una politica decisamente sinistroide; si ritirarono dal Governo perché volevano tutelare una politica di destra e combattevano la politica di sinistra, che il Governo, secondo loro, avrebbe fatto.

E dopo due anni vengono qui a dire di volere entrare nel nuovo governo per impedire che esso sbandi sulla destra. Qui si raggiunge veramente il colmo, soprattutto quando posizioni simili ci vengono raccontate, non dirò sostenute, da un liberale di Benevento, l’onorevole Cifaldi.

La posizione politica e sociale del Partito liberale dell’Italia meridionale noi la conosciamo tutti a memoria. Siamo stati a Benevento anche noi e in ogni parte dell’Italia meridionale, e sappiamo a quali ceti e a quali interessi si richiami il Partito liberale. E non ne facciamo affatto una colpa ai deputati liberali, né ai rappresentanti del liberalesimo meridionale in genere. Essi rappresentano quelle posizioni, hanno diritto di rappresentarle, e possono anche dire di averle rappresentate in molta parte con una certa dignità, se hanno avuto i voti e le posizioni politiche che hanno lucrato. Ed essi, che rappresentano la borghesia elevata del mezzogiorno d’Italia, che rappresentano ceti feudali del Mezzogiorno, vengono poi qui in aula a raccontarci, attraverso un rappresentante eletto da quegli ambienti, che hanno la missione sacra di garantire che il Governo conduca una politica di sinistra, dopo che hanno lasciato quel Governo perché conduceva, secondo loro, una politica di sinistra. Questo è veramente l’assurdo degli assurdi: si tratta di una posizione che uomini politici responsabili non dovrebbero sostenere in un Parlamento serio.

Non dica, dunque, l’onorevole Cifaldi e non dicano i rappresentanti liberali di voler tutelare la politica sociale della Democrazia cristiana, che ha bisogno di molti tutori per l’impostazione di una politica chiara, ma non ha bisogno dei tutori del Partito liberale. Ripeto, vi faccio grazia delle molte citazioni che darebbero un peso maggiore ai miei argomenti.

Per il Partito liberale ha parlato anche brevemente l’onorevole Colitto, il quale ha detto (cito testualmente) che il Partito liberale è favorevolmente disposto a ridurre l’entità del premio di maggioranza al minimo possibile. Nessun rappresentante è qui del Partito liberale ma vorrei avere una risposta, se possibile, e l’avremo comunque in sede di emendamento; io vorrei chiedere: l’onorevole Colitto ha parlato a nome del Partito liberale o no? Le dichiarazioni degli altri liberali qui dentro e fuori di qui sembrano smentire quanto egli ha detto, eppure egli lo ha detto, dicendo di poterlo dire in nome del partito. Anche il Partito liberale ha nel suo seno diverse tendenze rappresentate in vario modo? Lo sapremo quando i liberali prenderanno posizione sugli emendamenti.

E vengo alla Democrazia cristiana. Molti colleghi si sono lamentati per il fatto che nessuno dei «magni rappresentanti» della Democrazia cristiana e del Governo a parte l’onorevole Scelba, che ha parlato sulla pregiudiziale abbia preso la parola nella discussione generale della legge elettorale. Si sono lamentati molti che

abbia parlato come massimo esponente, come il più autorevole anche per il posto centrale che gli è stato riservato nella discussione generale, il giovane collega onore-vole Russo e non l’onorevole Gonella. Io personalmente sono lieto che abbia parlato l’onorevole Russo. E spiego il perché. Sono lieto anche che non abbia parlato l’onorevole Gonella. L’onorevole Gonella, se avesse parlato sulla legge elettorale, ci avrebbe impartito una delle sue deliziose lezioni sullo «Stato forte». Io ne ho sentite parecchie di lezioni sullo Stato forte da esponenti più autorevoli e autorizzati ed anche più sintetici nelle loro manifestazioni oratorie. Non mi avrebbe né interessato né divertito molto una lezione postuma sullo Stato forte da parte dell’onorevole Gonella. Sono anche lieto che abbia parlato l’onorevole Russo, perché l’onorevole Russo è un giovane collega della mia generazione e sono portato naturalmente a prestar fede alla sincerità di un collega come l’onorevole Russo più di quanto non potrei essere portato a prestare fede alla sincerità di colleghi più esperti nell’arte politica. Parlo quindi con una specie di tendenziale simpatia nei confronti dell’intervento dell’onorevole Russo, il che non mi può impedire, naturalmente, di fare su questo intervento le mie osservazioni critiche.

Anche per l’onorevole Russo devo dire quello che ho detto per l’onorevole Saragat. Mi sembra che anche l’onorevole Russo abbia sbagliato platea e occasione. Egli ha fatto nascere con una certa efficacia, sullo sfondo di questa legge, le forche di Praga. I suoi colleghi di sinistra hanno risposto urlando. Si poteva continuare all’ infinito. In questi cinque anni quante volte abbiamo assistito a questi duelli oratori fra centro e sinistra, in cui gli uni hanno rinfacciato agli altri sistemi d’oltralpe e d’oltreoceano che risalirebbero o addirittura risalgono alle solidarietà politiche degli uni e degli altri. Ma non si tratta di questo. In questo momento, onorevoli colleghi democristiani, attraverso questa legge il popolo italiano non è chiamato a fare la scelta tra l’Italia e la Russia, né è chiamato a fare la scelta tra l’Italia e l’America. II popolo italiano attraverso questa legge è chiamato a darsi un sistema elettorale che gli consenta di creare il nuovo Parlamento. I tentativi di drammatizzare una situazione che dovrebbe essere normale denunciano uno stato di cattiva decadenza, denunciano un espediente, anche se candido espediente è quello di prospettare, sullo sfondo di questa legge, le forche di Praga.

Si tratta, in questo momento, di dare al paese un sistema elettorale che più gli convenga. I paragoni, i raffronti con altri sistemi, non tornano. Qui siamo in un sistema e non è il caso di mutarlo. È perfettamente inutile dire che altri hanno altri sistemi. Lo sappiamo. Hanno altri sistemi in cui si possono stagliare determinate facilitazioni che possono invogliare taluni popoli ad accettare quei sistemi a preferenza di altri. Vi sono altri sistemi nel cui sfondo si può anche stagliare la sedia elettrica per i Rosenberg, ma nel cui quadro vi sono organizzazioni, sistemazioni che possono tornare piacevoli ad altre genti, che comunque si confanno a quelle determinate si-tuazioni.

Qui, onorevoli colleghi, siamo in Italia ed è perfettamente inutile trasferire il colloquio ad altri paesi. L’onorevole Russo, per la verità, non si è soltanto limitato

a questi espedienti, ma ha anche affrontato il centro della questione, trattando altri problemi e portandosi sul piano di altre argomentazioni cui ora io mi accingo a rispondere. Egli ha detto, anzitutto, che non è da ora soltanto che si tradisce la proporzionale, ma che la proporzionale è stata già tradita quando, nel 1948, furono instaurati dalle sinistre i blocchi elettorali.

Ma se nel 1953 le destre, le sinistre o qualunque altro gruppo dovessero presentarsi camuffate in blocchi elettorali, questa legge lo potrebbe perfettamente consentire. Non è infatti vero, come dice l’onorevole Tesauro, tra le tante cose strane che dice nella sua strana relazione che questa legge è intesa a creare una situazione per legalizzare i blocchi? Se le sinistre volessero presentarsi ancora sotto il segno della testa Garibaldi o sotto qualsiasi altro simbolo, forse che non potrebbero farlo?

La proporzionale è fuori causa. Che cosa hanno fatto le sinistre in quella occasione? Hanno stabilito un piano d’azione fra due partiti che praticamente sono diventati le due facce di un partito solo. Voi dite che questo non è convenuto alle sinistre; l’onorevole Russo, infatti, ha osservato che ciò ha fatto convogliare numerosi voti verso la Democrazia cristiana, diffondendo il panico fra larghi strati dell’opinione pubblica. Ma il problema è un altro; il problema è di dare ai vari partiti o blocchi di partiti, se si presentano in blocco, una rappresentanza adeguata.

D’altra parte l’onorevole Russo lamenta l’esistenza di differenziazione fra i vari settori. Nei riguardi della Democrazia cristiana, un deputato socialdemocratico, l’onorevole Preti, ha trovato una definizione arguta: ha detto che la Democrazia cristiana è il «polipartito». Mi pare abbia ragione. Del resto la stessa Democrazia cristiana dispone di oratori sereni e obiettivi; lo stesso onorevole Russo ha detto che i risultati del 18 aprile non rappresentavano una confluenza di voti di partito, ma rappresentavano piuttosto l’amalgama o il tessuto connettivo di strati diversi del corpo elettorale.

E in effetti la Democrazia cristiana avrebbe potuto fare la politica del polipartito, tentando di conciliare tendenze diverse, tentando di esprimere nel suo seno tendenze diverse, dando nel suo seno l’impulso a tendenze diverse. Ciò essa avrebbe potuto fare. Ma, in verità, quando l’onorevole Russo ha rimproverato al gruppo bloccardo della sinistra di non aver consentito una differenziazione politica, egli non ha trovato un argomento troppo felice: che cosa ha fatto dal canto suo la Democrazia cristiana delle differenziazioni che erano nel suo seno e che pure erano differenziazioni vitali, che rispondevano alla volontà e alla fisionomia del corpo elettorale e che riproducevano, come disse l’onorevole Cappi, una situazione politica obiettiva? Che cosa ha fatto la Democrazia cristiana delle sue tendenze? Come le ha «vitalizzate» la Democrazia cristiana, che ha tanto parlato di vitalizzazione dell’Italia? Che fine hanno fatto i giornali di quelle tendenze?

Ma l’argomento dell’onorevole Russo per giustificare la riforma elettorale è soprattutto un altro: dice che esiste una frattura insanabile fra centro e sinistra e una frattura altrettanto insanabile fra centro e destra; quindi, non possiamo ricorrere

alla proporzionale perché dice la proporzionale richiederebbe, se non oggi, domani, un dialogo fra centro e sinistra e fra centro e destra, dialogo che ritiene impossibile.

Ritenete dunque insanabile la frattura fra centro e sinistra? Non è problema sul quale possiamo intervenire. L’onorevole Russo è stato più drastico dell’onorevole Saragat, perché egli ha detto che il centro è diviso dalla sinistra, oltre che da una concezione politica internazionale, anche da una concezione della vita. Ma egli doveva spiegare al Parlamento la frattura fra centro e quella che viene definita estrema destra: in pratica, cioè, fra la Democrazia cristiana e il Partito nazionale monarchico e il Movimento sociale italiano. L’onorevole Russo ha dichiarato che anche verso la destra la frattura è insanabile. Non ha però parlato di concezione della vita, non ha detto che i nostri settori abbiano una concezione della vita, cioè una dottrina assoluta, incompatibile e inconciliabile con la vostra. Ha detto solamente che i partiti di destra sono nazionalisti e imperialisti e, quindi, sono insanabilmente divisi dai partiti di centro, i quali sono legati alla concezione atlantica e, più vastamente, alla concezione di carattere europeistico, al superamento delle barriere nazionali,

Ma, onorevoli colleghi, parliamoci chiaramente e in termini politici concreti! Patto atlantico: che il partito democristiano sostenga di essere diviso dal Movimento sociale italiano circa la politica atlantica, può essere sul piano parlamentare perfettamente legittimo: quando nel 1949 questa Camera votò per il Patto atlantico, il Movimento sociale italiano votò contro. Spiegammo le ragioni che ora è inutile ripetere, e ci mettemmo in una situazione di opposizione. Ma che voi diciate di essere divisi insanabilmente per quanto riguarda la concezione atlantica e la politica estera dal Partito monarchico, il quale votò a favore del Patto atlantico, mentre i monarchici hanno assunto in tema di politica estera, e atlantica in specie, posizioni talora anche più avanzate delle vostre in senso di maggiore decisione e di maggiore assunzione di responsabilità…..”

BETTIOL GIUSEPPE: “Non è vero: l’onorevole Guttitta ha votato contro! “

GUTTITTA: “Non dica inesattezze, abbiamo votato a favore! Ci vuole una bella faccia di bronzo per alterare così la verità storica! “

AMENDOLA GIORGIO: “Siete tutti atlantici! “

PRESIDENTE: “Onorevole Guttitta, sono piccole distrazioni delle ore piccole….. “

BETTIOL GIUSEPPE: “Io mi riferivo all’ultimo discorso dell’onorevole Guttitta sul bilancio degli Esteri: è stato un discorso di opposizione. “

GUTTITTA: “È naturale. Noi abbiamo un senso di dignità nazionale che non avete voi.”

ALMIRANTE: “Comunque, a parte le polemiche atlantiche, la mia tesi mi sembra estremamente limpida. L’onorevole Russo ha sostenuto essere il centro insana-bilmente diviso da quella che uso chiamare la estrema destra, cioè il Movimento sociale e il Partito monarchico, per il fatto che la estrema destra sarebbe anche in blocco antiatlantica. Io invece ricordo che il Partito monarchico è tra i partiti che votarono in favore del Patto atlantico, e che facendo pure le loro opposizioni vivaci alla vostra politica estera, cioè al modo in cui avete attuato e realizzato, per quanto riguarda la responsabilità italiana, la politica atlantica, ha sempre sostenuto la necessità di tale politica. D’altra parte non mi pare che a voi della maggioranza sia lecito sui vostri giornali attaccare Achille Lauro, presidente del Partito monarchico, perché fa i telegrammi a Eisenhower o a Truman, e poi dire che il Partito monarchico è un partito antiatlantico.

Non potete sostenere le due tesi senza essere in contraddizione con voi stessi. Sostengo anche che quando l’onorevole Russo ha dichiarato essere insanabile la frattura fra il centro e l’estrema destra in blocco, perché sarebbe nazionalista e imperialista, l’onorevole Russo doveva dare esaurienti spiegazioni. Perché la estrema destra in blocco in questo caso anche il Movimento sociale italiano quando si è trattato di passare dalla nazione agli accordi europei, ai famosi pool, sì è espresso favorevolmente, o per lo meno, quando ha fatto le sue riserve, ha fatto delle riserve che non intaccavano mai il principio. Abbiamo avuto ripetute volte l’occasione di dichiarare che non consideriamo affatto tengo a ripetere questa dichiarazione che da parte nostra è assolutamente sincera la nazione, l’ideale nazionale, il sentimento nazionale come preclusivi di più vasti accordi, di più vasti legami, come preclusivi di quei superamenti che sono in atto e che ci auguriamo non siano illusori come molte conferenze climatiche europeistiche e federalistiche che servono soltanto a far passare gradevolmente qualche giorno in riviera, ma siano progressi autentici ed effettivi.

Che cosa vuol dire che l’estrema destra è imperialista? Forse che abbiamo nostalgia di un impero che c’ è stato? Può anche essere. Non mi vergogno di aver nostalgia di un impero. Ma da questo ad essere imperialisti ci corre. Non c’è nessuno di noi così folle da sognare un neo imperialismo italiano o un neo imperialismo europeo. Abbiamo i piedi per terra. Siamo nazionalisti, l’abbiamo dichiarato in molte occasioni, ma il nazionalismo ce lo insegnate voi, ce lo insegnano i socialisti, ce lo insegna l’onorevole Capalozza che ha trovato dopo otto ore di fatica la passione per citarvi Stalin, che ha invitato i partiti socialisti ad elevare alta la bandiera della nazione.”

SPIAZZI: “Nazionalismo è orgoglio; patriottismo è amore, “

ALMIRANTE: “Queste sono parole. Ella è padre di famiglia come lo sono io, e mi insegna che quando un padre ama i propri figli n’ è anche orgoglioso. L’orgoglio di nazione, quando esso induce ad amare la propria nazione e a volere il suo bene, non è da condannare. S’intende rispettando le altre nazioni, quando queste rispettano la nostra.

L’onorevole Russo ha, dunque, dichiarato essere la legge necessaria perché esiste una barriera incolmabile fra il centro e l’estrema destra, in quanto l’estrema destra sarebbe nazionalista e imperialista. Ma egli ha fatto un’altra osservazione interessante. Ha dichiarato che la Democrazia cristiana sta perdendo voti verso destra a causa della sua politica sociale. È una affermazione strana. Che cosa vuol dire l’onorevole Russo? Che coloro che votarono per la Democrazia cristiana e oggi votano per il Movimento sociale italiano o per il Partito nazionale monarchico sono coloro che sarebbero stati colpiti dalla politica sociale della Democrazia cristiana? Prendiamo l’esempio di Roma, dove il Movimento sociale italiano è passato da 50 mila voti nel 1948 a 150 mila voti nel 1951. A Roma vi sono forse 100 mila grossi agrari e industriali, i quali, colpiti dalla politica sociale democristiana, si sono indotti a votare il Movimento sociale? Mi augurerei che la situazione italiana fosse questa e che l’incremento in voti del Movimento sociale e del Partito nazionale monarchico fosse dovuto ai grossi capitalisti i quali, scontenti della politica della Democrazia cristiana, si riversassero nelle nostre file. Ciò vorrebbe dire che in Italia vi sarebbero milioni di grossi capitalisti. E allora si potrebbe facilmente risolvere la situazione economica del nostro paese togliendo a costoro una parte del mal tolto o dell’indebito. Ma non è così. I centomila elettori in più che abbiamo avuto sono stati reclutati fra le file dei disoccupati: non fra le file dei… troppopotenti, ma fra le file dei nullatententi, fra le file degli impiegati scontenti della vostra politica, fra le file degli epurati, ai quali non avete dato lavoro o lo avete dato solo in parte.

È questo il nostro incremento. Quando mai si è visto che una politica sociale fa perdere voti al partito che la fa? Vuol dire che avete fatto male la vostra politica sociale. Voi vi lamentate che i voti dei braccianti che vengono messi sulle nuove terre vadano al Partito comunista e in parte al Movimento sociale. Comprendo il vostro disinganno, ma non date torto a coloro che vi votano contro. Guardate se nel vostro sistema vi sia qualche cosa che l’ induca a votare contro, anche quando date loro la terra. È possibile che il corpo elettorale, soprattutto quello dell’Italia meridionale, debba essere bistrattato ogni qual volta vi vota contro? È possibile che non siate indotti da queste votazioni contrarie a fare un sereno esame di coscienza, il quale vi potrebbe forse spingere ad una politica sociale più avveduta?

L’onorevole Marotta, che è uno dei pochi tecnici della legge (credo che egli darà un notevole contributo alla discussione degli emendamenti, così come un contributo notevole di consigli egli ha dato in Commissione), ha fatto un discorso sereno, si è fatto ascoltare senza interruzioni. Sebbene egli abbia fatto una affermazione più dura dì quella dell’onorevole Russo, poiché ha detto che i tre gruppi politici italiani non hanno assolutamente nulla in comune, non ha però spiegato sufficientemente una così grave asserzione. Egli ha avuto il torto, sul piano tecnico, di lanciarsi un po’ troppo leggermente contro la legge elettorale del 1948.

Noi siamo le vittime principali della legge del 1948. In base a quella legge, per colpa dei congegni di quella legge, il Movimento sociale italiano ha perso (lo dice la relazione di minoranza di sinistra) quasi la metà dei suoi rappresentanti. Saremmo

stati in 11, siamo venuti in 6: quindi non è certo da parte nostra che si può azzardare una difesa di questa legge.

Però devo fare al riguardo due osservazioni, una contingente o parziale che riguarda noi, ed una più generale. La prima è, onorevole Scelba, che noi siamo sempre disgraziati. Nel 1948, quando eravamo un partito più piccolo di quanto non siamo oggi nell’opinione pubblica, vi è stata sul nostro groppone una legge elettorale idonea a colpire i partiti piccolissimi, e abbiamo perso la metà della rappresentanza. Nel 1953, quando siamo più grandicelli, ci viene sul groppone una legge elettorale che colpisce i partiti grandicelli e favorisce le formazioni minori o minime con quel famoso congegno del quoziente che può raggranellarsi attraverso tutte le circoscrizioni. Un partito minore, inesistente come tale, raggranellando mille voti qui e 2 mila voti là riesce a portare un deputato in Parlamento anche se non ha in alcuna circo-scrizione una posizione sufficiente. Invece potrà accadere, se questa legge elettorale sarà approvata, che i partiti di media portata come il Movimento sociale vedano falcidiata la metà o quasi delle loro rappresentanze.

Siamo quindi molto disgraziati con le leggi elettorali. Sono certo che alla prossima consultazione il Movimento sociale che (come mi auguro) sarà non un partito grandicello, ma un grande partito, sono certo che in quella occasione qualcuno escogiterà una riforma elettorale che cascherà proprio sul nostro groppone.

Vi è, dicevo, un’osservazione di carattere generale. La legge del 1948 era una proporzionale spuria o «zoppa», ma era una proporzionale; l’attuale legge non lo è, malgrado le vostre escogitazioni. In che consiste la differenza? Consiste nel fatto che nell’assegnazione dei quozienti interi la legge elettorale del 1948 era decisamente proporzionale, e il congegno che ha portato alla riduzione della nostra rappresentanza interveniva per falcidiare la distribuzione dei resti. Se nel 1948 il Movimento sociale, anziché riportare quozienti interi nelle sole circoscrizioni di Roma, di Napoli, di Catanzaro, di Palermo, avesse riportato quozienti interi in altre circoscrizioni e un numero molto inferiore di resti, il Movimento sociale, con quella legge, avrebbe portato in questa Camera, se non li, almeno 9 o 10 deputati, e sarebbe stato falcidiato di uno o due rappresentanti. Quella legge incideva sulla distribuzione dei resti. Invece la nuova legge incide sui quozienti interi e stabilisce che ogni deputato sia eletto direttamente con l’intero quoziente e che il maggiore resto dei partiti di maggioranza sia valutato in base al quoziente x, cioè 30 mila o 35 mila, per esempio, e che ogni deputato dei partiti di minoranza, comunque eletto, rappresenti un quoziente x più y, cioè un quoziente che può arrivare fino a 80 o 90 mila voti.

Questa è la differenza; e tutte le disquisizioni sono inutili per dimostrare il contrario, perché questa è la verità.

L’onorevole Poletto viene considerato dai giornali illustrati come un nostro acerrimo avversario: non è vero. “

POLETTO: “Altro se è vero: irriducibile avversario!. “

ALMIRANTE: “Le dimostro che non è vero: ella è un nostro buon amico. Stia a sentire: solo un nostro amico poteva dire ciò che ella ha detto. Cito dal resoconto: «Non ho difficoltà ad ammettere che l’idea di questa legge sia venuta al Governo dopo le elezioni amministrative nel centro-sud. Era doveroso che il Governo prendesse i provvedimenti necessari per evitare ciò che si sarebbe verificato se il risultato delle elezioni generali politiche, fatte in base alla vecchia legge, fosse analogo a quello delle amministrative». Solo un nostro amico può dir cose di questo genere: «Il Governo ella dice dovrà prendere i provvedimenti necessari».”

POLETTO: “Non svisi il mio pensiero in questo modo! “

ALMIRANTE: “Ciò ella ha detto; fra il Governo e il paese ella è disposto a stabilire rapporti di questo genere: una parte del paese, sia pure non eccessivamente grande, ad un certo punto si permette di esprimere un avviso che al Governo non piace (spero che non sia una delle forme democratiche instaurate dalla maggioranza; comunque, alla vigilia delle elezioni è un consiglio imprudente dato da un deputato dello stesso partito)… “

POLETTO: “Non si sa mai…. “

ALMIRANTE: “L’onorevole Poletto istituisce tra Governo e corpo elettorale questo rapporto: una parte del corpo elettorale si è permessa di esprimere un avviso che ai rappresentanti della maggioranza non appare utile ed allora il Governo provvede portando via ai responsabili un certo numero di seggi, perché non è ammissibile secondo la logica della maggioranza che i risultati elettorali politici siano analoghi a quelli amministrativi dato che, se cosi fosse, sarebbe in pericolo la maggioranza stessa. Ed ella, onorevole Poletto, aggiungeva anche: «Se nessuno dei gruppi raggiungerà il 50 per cento, bisognerà fare nuove elezioni.

Siamo arrivati a questo punto. Vi sono state delle elezioni amministrative, con un contenuto chiaramente politico (secondo le vostre stesse ammissioni), che hanno dimostrato un certo orientamento nell’opinione pubblica. Secondo i dettami della vostra democrazia, il Governo deve provvedere per correggere non già l’orientamento dell’opinione pubblica attraverso una controcampagna di propaganda, che sarebbe cosa legittima e anche utile, ma attraverso una legge elettorale la quale rubi una parte di seggi a questa gente la quale, secondo voi, non vuole avere nulla a che fare con i vostri sistemi.

Se poi il corpo elettorale non si comporterà come voi richiedete, allora bisognerà fare nuove elezioni. “

POLETTO: “Solo se non si potrà formare un governo. “

ALMIRANTE: “Se non si potrà fare il vostro governo: il governo che a voi piace. “

POLETTO: “Nessun governo; e lo abbiamo spiegato. “

ALMIRANTE: “Non pretenderete voi che fra l’altro siete, come siamo noi, deputati morituri non solo come partito ma anche come simbolo non pretenderete voi, che non siete del tutto sicuri di rientrare in Parlamento, di sostenere che non si potrà fare alcun governo in una determinata situazione! Come potete predeterminare la volontà non solo del corpo elettorale italiano ma anche dei deputati che verranno in Parlamento? Chi vi dice oggi che la Democrazia cristiana, attraverso il verdetto del corpo elettorale, non invii alla Camera deputati democristiani, sì, ma di tendenza diversa da quella che ella esprime, onorevole Poletto? Deputati cioè i quali ritengano di poter formare un determinato governo, sulla destra o sulla sinistra? Ma crede ella, onorevole Poletto, che il giuoco delle tendenze, il quale è proprio di tutti i partiti, non si riveli in tutta la sua espansione durante la battaglia elettorale anche nell’interno del suo partito, attraverso il giuoco delle preferenze? O vuol chiudere gli occhi di fronte alla realtà? Non sa, forse, che nel suo partito, come in tutti i partiti, questo giuoco di tendenze si è già scatenato e che determinate tendenze, che voi chiamate di destra, le quali nel vostro recente congresso possono aver subito un certo scacco, stanno già organizzandosi per prendersi la rivincita sul piano elettorale?

Siete ben certi che i deputati democristiani che verranno in questa Camera la pensino tutti come voi, come lei, onorevole Poletto? Siete certi che la futura maggioranza se voi l’avrete sia essa assoluta o relativa, sarebbe disposta a fare nuove elezioni, a mettere a repentaglio le proprie posizioni personali; le posizioni di deputati eletti, i quali non vorranno certamente correre l’alea di non esser più eletti soltanto per il gusto di dar ragione a lei, onorevole Poletto? Siete proprio tanto certi di poter vedere nel futuro del vostro partito?

A me sembra troppo frettolosa e troppo grave cotesta vostra posizione anche di fronte al corpo elettorale.

Gli onorevoli Armosino e Scaglia hanno svolto interventi di minor ampiezza. Debbo comunque rilevare un’affermazione piuttosto grave dell’onorevole Armosino. Egli ha detto: «Il Governo aveva predisposto le leggi polivalente e sindacale per affrontare l’attuale situazione politica. Ha dovuto rinunciarvi e non insistervi per l’esigenza di un accordo con altri partiti, mentre è convinto che si tratta di provvedimenti indispensabili per la tutela della democrazia».

E, allora, vedete la magnifica contraddizione. Per la tutela della democrazia si fa un accordo quadripartito; in base all’accordo quadripartito si vara una legge elettorale maggioritaria che deve portare al potere la stessa maggioranza e al Governo gli stessi quattro partiti; però, per la tutela della democrazia, bisogna varare determinate leggi dice l’onorevole Armosino fra cui la polivalente e la sindacale;

tuttavia, se si vuol raggiungere l’accordo, non si possono varare quelle leggi: se si debbono varare quelle leggi va a monte l’accordo. Però, tanto l’accordo quanto le leggi sono indispensabili per tutelare la democrazia. Dopo di che è chiaro che nessuno possa più capire quel che per l’onorevole Armosino significhi democrazia.

L’onorevole Scaglia ha, fra l’altro, enunciato una tesi che non mi sembra valida. Egli ha detto non essere giusto che sia violata la volontà popolare che abbia votato per una maggioranza, consentendosi che questa maggioranza venga rovesciata senza ricorso ad una consultazione popolare.

Questa affermazione non mi sembra esatta. Con la proporzionale non si corre affatto questo rischio. Può soltanto accadere che in seno al Parlamento ed al Governo avvengano delle evoluzioni successive al periodo ed al clima elettorale, e che attraverso queste evoluzioni si abbiano dei diversi aggruppamenti. E, allora, delle due l’una: o questi diversi aggruppamenti, nei momenti in cui essi operano parlamentarmente, risponderanno alla situazione politica del momento, e allora saranno in piedi; o non risponderanno, e allora si arriverà fatalmente ad una nuova consultazione elettorale. Non vedo affatto perché la proporzionale possa essere messa in colpa su questo particolare e specifico terreno.

Ho risposto agli oratori che sono intervenuti in favore della legge. Debbo però replicare brevemente alle relazioni dell’onorevole ministro e dell’onorevole Tesauro.

Quanto alla relazione dell’onorevole Scelba, desidero limitarmi ad alcuni rilievi fondamentali. La relazione comincia con queste parole: «Onorevoli colleghi, nell’ap-prossimarsi della consultazione elettorale…». Sono parole che richiamano il famigerato ordine del giorno Bettiol (ed altri) che comincia con questa espressione: «La Camera, considerata la necessità di modificare la vigente legge elettorale…». Molti colleghi si sono chiesti se sia lecito, morale e democratico modificare il sistema elettorale alla vigilia di una consultazione e sono andati a ricercare i precedenti: e hanno visto che in genere le riforme elettorali hanno preceduto di gran tempo la consultazione elettorale.

Ora, io non mi appellerò a richiami democratici, o storici, né discuterò la liceità politica di questo atteggiamento del Governo. Chiedo soltanto se il Governo si renda conto di quale sia il significato politico di una tale ammissione. Nell’imminenza della consultazione elettorale il Governo chiede di mutare il sistema elettorale. Mi domando se questo non sia un sintomo di quella crisi della Democrazia cristiana di cui parlavo prima.

Nella relazione del ministro Scelba è detto: «La legge serve ad assicurare la funzionalità del Parlamento». Che cosa significa?

Vi è una funzionalità tecnica del Parlamento che consiste nei regolamenti parlamentari. Molte volte si è parlato in questi anni di modificare il regolamento, e alla maggioranza è mancato il coraggio di farlo. Non so se abbia fatto bene o abbia fatto male. Sento in questi giorni molti colleghi democristiani i quali lamentano che la maggioranza non abbia avuto il coraggio di modificare il regolamento. Comunque è una responsabilità della maggioranza.

Vi è una funzionalità costituzionale del Parlamento. Anche a questo proposito sento dire da molte parti che il bicameralismo ha rappresentato un errore ed una remora allo sviluppo normale degli istituti democratici; ma la maggioranza non ha avuto la volontà ed il coraggio di apportare delle modifiche al sistema costituzionale

parlamentare.

Rimane il campo della funzionalità politica del Parlamento. Che cosa significa funzionalità politica? Funzionalità politica è, secondo me, l’equivalente di rappresentatività del Parlamento: tanto più sarà funzionale un Parlamento quanto più sarà capace, non solo nel momento in cui è eletto ma via via nel momento in cui funziona di rappresentare gli orientamenti e la volontà del corpo elettorale che esso deve rappresentare. Ora, voi state per costituire o almeno tentate di costituire, attraverso questa legge, un Parlamento con una rappresentatività non genuina, ma corretta. E voi dite in anticipo che questo Parlamento sarà più funzionale dell’attuale. Vi pare che sarà più funzionale dell’attuale un Parlamento sul quale ricadranno fatalmente delle polemiche e su cui l’opinione pubblica potrà dire: ecco un Parlamento con deputati da 30 mila voti e deputati da 60 mila voti? Un Parlamento in cui, soprattutto nelle fasi polemiche, si dirà dall’opinione pubblica e dall’opposizione in specie: ecco un Parlamento di rubaseggi e di derubati di seggi? Vi sembrerà più rappresentativo e funzionale un tale Parlamento? “

PRESIDENTE: “Mi pare di aver letto ciò anche nella sua relazione scritta. “

ALMIRANTE: “Speravo di essere più felice oralmente. Non potevo supporre che ella fosse stato così diligente lettore della mia relazione scritta, del che molto la ringrazio.

Sorvolo quindi sulle altre asserzioni della relazione del ministro dell’Interno, tranne che su una, che è inserita nella relazione scritta ma che l’onorevole Presidente mi consentirà di ribadire brevemente qui.

II ministro dell’Interno sostiene che questa legge è necessaria perché vi sono, nella situazione politica italiana, dal punto di vista della difesa della democrazia, ostacoli di carattere assolutamente eccezionale rappresentati da movimenti che hanno fini totalitari e dittatoriali.

Risparmio tutta la parte che riguarda i movimenti o i partiti di estrema sinistra, perché è una questione che riguarda i rapporti fra il centro e l’estrema sinistra, che non riguarda noi; ma, siccome la polemica inserita nella relazione ministeriale riguarda anche la cosiddetta estrema destra, e riguarda anche noi, io voglio contestare al ministro dell’Interno in persona la legittimità odierna di questo suo atteggiamento.

L’onorevole ministro dell’Interno è stato presentatore della precedente legge Scelba, la quale parte dal presupposto che possono esistere all’estrema destra partiti a sfondo totalitario e con intenzioni dittatoriali, e stabilisce il modo per eliminare tali partiti dalla vita del paese; di togliere dalla vita del paese tale pericolo, se pericolo vi è.

Noi abbiamo combattuto quella legge, l’abbiamo ritenuta anticostituzionale e illegittima e tale continuiamo a crederla; ma, quando fu approvata e divenne legge per volontà del Parlamento, dicemmo: dura lex, sed lex. La legge esiste, e, se diciamo noi dura lex, sed lex, penso che a maggior ragione dobbiate dirlo voi della maggioranza. E, allora, delle due l’ una: o nel settore dell’estrema destra il settore che voi definite dei nostalgici o dei neofascisti esistono tuttora movimenti che conducono una politica di ispirazione totalitaria, e allora voi non li dovete combattere con la legge elettorale riducendo il loro numero di deputati, ma li dovete combattere con la legge Scelba ( la legge l’avete: l’avete reclamata per tanto tempo, avete il mezzo di agire); oppure, se voi non agite, o ritenete di non dover agire, riconoscete, così comportandovi, una situazione di fatto che non esige l’applicazione della legge che avete fra le mani: cioè riconoscete che non siamo antidemocratici. Allora voi non dovete dar vita a una seconda legge Scelba, con la quale ci si tolga una parte di deputati perché ne porteremmo troppi e con quelli chi sa perché minacceremmo la democrazia. Avete il dovere di essere coerenti.

E sorvolo su tutte le altre argomentazioni in risposta alla relazione ministeriale.

Debbo una breve replica di carattere personale alla relazione Tesauro. Io devo dire all’onorevole Tesauro che non mi sono associato alla campagna condotta contro la sua persona, che non ho menato affatto scandalo perché egli sia stato preside fascista di una provincia e sia poi diventato democristiano e deputato. Tutto ciò mi sembra piuttosto normale in una Camera di deputati che vede parecchi dei suoi membri in condizioni analoghe o, se quelle sono colpe, in condizioni peggiori. Che, se dovessi perdonargli qualcosa, gli perdonerei tutto quello che gli è stato rimproverato dall’estrema sinistra, ma non questa relazione, perché essa è scritta troppo male. In questa relazione si dicono cose di questo genere: «La vita politica va al di là della cerchia ormai angusta delle organizzazioni sociali esistenti ….”

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, le sembra che sia l’ora questa per fare citazioni e commenti?

ALMIRANTE: “Le dirò, signor Presidente, che la sostanza della relazione di maggioranza è tutta qui, perché invano io ho cercato in questa relazione degli argomenti solidi per rispondere alla relazione stessa, perché la relazione di maggioranza di argomenti solidi non ne contiene neppure uno: un esame serio della legge non vi è, né vi è una spassionata e seria difesa della legge contro le osservazioni fatte in Commissione. L’unica cosa seria che trovo in essa è tutta in questo arzigogolare seicente-sco di strane frasi.

Voglio solo dire, signor Presidente, che secondo la relazione Tesauro l’inquadramento delle forze politiche deve avvenire su grandi binari verso i quali le sospingono le ideologie che le informano!

Questi sono gli argomenti della relazione Tesauro!

Noi diciamo ai colleghi del «chiavistello» che non vi sono chiavistelli che tengano. Potrete riuscire a ridurre, se farete varare la legge in tempo e se avrete la maggioranza, la nostra rappresentanza parlamentare. E con questo? Siamo venuti in sei l’altra volta. Non so se siamo cresciuti o no, ma siete voi che ci attestate che il nostro aumento è tale da preoccuparvi. Ciò significa che con una rappresentanza parlamentare ridottissima abbiamo potuto compiere dei grandi passi nel paese. Voi siete venuti qui in 306 e avete bisogno di un premio di maggioranza per garantirvi la maggioranza un’altra volta: ciò significa che, malgrado i vostri tanti deputati, vi sentite in pericolo.

Non è, quindi, con questi espedienti che si può fermare la marcia dì un partito. Io sono fiducioso nella marcia del nostro partito. Voi potrete essere di diverso avviso, ma dovreste essere d’accordo con me nel ritenere che problemi politici di tanta gravita non si risolvono in questa maniera.

Ed a proposito del problema della cosiddetta estrema destra, con tutta serenità vi dico: decidetevi ad affrontare questo problema sul terreno politico. Per un certo tempo avete voluto ignorarlo, abbiamo avuto la congiura del silenzio intorno a noi. Si diceva: non ve ne occupate, «minimizzate» (riprendendo il vocabolo del buon tempo antico)… Poi è venuto il contrordine. Vi è stata la sfuriata del temporale diretto sul nostro capo: legge speciale per noi. Adesso una legge elettorale, che per metà ci è dedicata. E non avete risolto nulla. Il problema è lì, anzi nel paese diventa sempre più vasto. Lo dovete affrontare politicamente. Non potete affrontarlo mettendovi d’accordo con noi. Nei confronti di quella che definite l’estrema destra, dovete decidervi ad attuare una politica conseguente.

Oggi non avete una politica nei confronti di quella che chiamate l’estrema destra. I socialdemocratici ne hanno una. I repubblicani ne hanno una leggermente diversa. I liberali ne hanno una molto diversa, tanto che nelle amministrative le loro sezioni hanno quasi ovunque sollecitato alleanze con noi. La Democrazia cristiana ha un orientamento diverso e comunque delle sfaccettature abbastanza notevoli in materia tanto che non voglio farvi perdere tempo tanto che quando vi fu a Roma la famosa iniziativa don Sturzo il giornale ufficiale della Democrazia cristiana disse che quell’iniziativa era stata presa col consenso del partito democristiano. Questo rivelò per lo meno un momento di follia; ma per un istante, comunque, la Democrazia cristiana si trovò in posizioni politiche diametralmente opposte a quelle che oggi dice essere le proprie. Quindi abbiate una politica in materia! Decidetevi a riconoscere che questo problema politico esiste. Non lo potete cancellare. Qualunque sia l’esito della consultazione elettorale, di questa battaglia pro e contro la legge elettorale, ricordatevi che i problemi politici che in queste settimane sono affiorati in Parlamento ve li ritroverete tutti dinanzi e li dovrete risolvere tutti.

Oggi vi potete presentare con formule elettorali e premio di maggioranza. Oggi potete prescindere dalla soluzione dei problemi politici. Domani non Io potrete. Ritenete voi di conquistare il popolo italiano sulla piattaforma elettorale presentandovi con la formuletta dei cinque deputati in più o in meno? Se si trattasse di resipi-

scenza da parte della maggioranza, io rivolgerei il classico appello agli uomini della maggioranza per dire che essi si legano a forme politiche superate e fallite. Con questa legge essi corrono il rischio di irrigidire forse irreparabilmente la frattura fra gli italiani. Con questa legge essi corrono il rischio di dare ai sovversivi, se ve ne sono e dove si annidano, un’arma formidabile contro tutte le istituzioni che essi dicono di voler difendere.

Io ricordo il detto celebre di Victor Hugo: «Date ai rivoltosi una scheda e toglierete loro di mano una carabina». Se togliete loro la scheda, rimetterete loro in mano la carabina o almeno l’istinto piazzaiolo della rivolta.

Simile appello, soprattutto a quest’ora e in queste condizioni, sarebbe effettivamente inutile.

Mi limito soltanto a concludere dichiarando che non speravo, quando entrai cinque anni fa in questa Camera nel banco degli appestati ai quali nessuno ascoltava, non speravo a cinque anni di distanza di poter parlare a nome dello stesso esiguo gruppo parlamentare, sì, ma a nome di una rappresentanza politica nazionale che indubbiamente sgomenta molti di voi. Ne sono lieto. Questo è il nostro bilancio attivo ed il bilancio sarà attivo anche in seguito. Non ci limiteremo a tornare in maggior numero, come diceva l’onorevole Cifaldi per il Partito liberale. Noi torneremo in maggior numero e più agguerriti per combattere nuove battaglie in difesa della libertà della nazione italiana!”

Seduta del 6 giugno 1957

I voti «non graditi» dal governo Zoli

Governo Pella, governo Zoli, due governi Segni, governo Tambroni: negli anni della segreteria Michelini, cinque governi hanno potuto contare sull’appoggio esterno del Msi. Un’epoca che si chiuderà con i fatti di Genova (luglio ’60) e con il successivo avvento del centro-sinistra. Michelini ed Almirante, con i rispettivi schieramenti interni, sono uniti nel proiettare in avanti la battaglia del Movimento, spiegando il loro atteggiamento con la necessità di affidare al partito democristiano tutte le responsabilità, sottraendo i governi ai ricatti e alle pressioni delle sinistre. Ecco il governo Zoli, quello dei voti«non richiesti e non graditi». Ma comunque dati, per il bene dell’Italia, come spiega Almirante.

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor Presidente del Consiglio, il rammarico di parlare ad ora incomoda viene in questo momento superato in me dalla fortuna di avere ascoltato gli interventi dell’onorevole Malagodi e dell’onorevole Nenni dopo il brillante intervento del collega Cantalupo, ma soprattutto dopo l’intervento del segretario della Democrazia cristiana, onorevole Fanfani, perché se avessi dovuto intervenire immediatamente dopo il discorso dell’onorevole Fanfani, confesso che le mie prospettive politiche ne avrebbero, non per mia colpa, sofferto, perché il segretario della Democrazia cristiana, sul cui importante intervento mi permetterò successivamente qualche valutazione politica, ha indubbiamente pronunciato un discorso-bis un discorso da Presidente del Consiglio non so n. 2 o n. 1, e quel che è più grave un discorso che per molti versi mi permetterò di dimostrarlo, del resto è facile e la Camera n’ è stata testimone ha contraddetto le affermazioni che in chiusura di discussione al Senato aveva pronunciato il Presidente del Consiglio.

Per fortuna dicevo ho potuto ascoltare subito dopo l’onorevole Malagodi e poi l’onorevole Nenni, ai quali, o per meglio dire, alle formule politiche che essi per un verso o per l’altro hanno rappresentato o potrebbero o vorrebbero rappresentare, il segretario della Democrazia cristiana si era in precedenza esplicitamente o implicitamente rivolto. E siccome l’onorevole Malagodi e l’onorevole Nenni hanno avuto il merito di rispondere con molta chiarezza, direttamente o indirettamente, alle sollecitazioni dell’onorevole Fanfani, la situazione politica nei confronti della maggioranza parlamentare e del Governo, che all’inizio di questa seduta poteva apparire ingarbugliata, fluida, come si suol dire, in questo momento mi sembra assai più chiara. Perché? Perché ella, onorevole Zoli, in chiusura di dibattito al Senato aveva sepolto il quadripartito; per servirmi della frase che in interruzione ella ha oggi usato nei confronti proprio del discorso dell’onorevole Fanfani, ella aveva preso atto in chiusura del dibattito al Senato che quella porta era chiusa; per servirmi ancora della sua espressione nei confronti del discorso odierno dell’onorevole Fanfani, l’onorevole Fanfani ha tentato di riaprire la porta, l’onorevole Malagodi l’ha richiusa. Ringrazio l’onorevole Malagodi per averlo fatto. Ne prendo atto. E poiché con molto garbo e con molta cortesia l’onorevole Malagodi si è occupato oltre che dei suoi, dei nostri atteggiamenti passati e soprattutto presenti e futuri, gli devo qualche risposta che non è, naturalmente, a carattere personale, ma che è la risposta che in questo momento il deputato del Movimento sociale italiano ritiene di dover dare al segretario del Partito liberale e all’esponente autorevole (fino a ieri) della formula quadripartita o tripartita, della formula governativa.

Devo, in primo luogo, complimentarmi vivamente con l’onorevole Malagodi. E credo di dire cosa esatta e che d’altra parte deve fargli piacere, perché detta da un avversario che a volte è stato nei suoi confronti perfino impetuoso e forse sgarbato. Devo dirle, onorevole Malagodi, che ella ha pronunciato oggi un magnifico discorso nella sostanza e nella forma; e devo dirle che finalmente abbiamo imparato a conoscere il Malagodi vero: cioè che, in sostanza, il ricostituente dell’opposizione le fa veramente bene e mi auguro che le faccia sempre meglio per avere il piacere di ascoltare discorsi di opposizione sempre più interessanti, vivaci e programmaticamente solidi. “

PRESIDENTE: “È un’esperienza personale che ella cede agli altri. Ella si è fatto le ossa all’opposizione. “

ALMIRANTE: “No, signor Presidente, non vorrei cederla. Sto facendo un certo sforzo per conservare i vantaggi dell’opposizione anche entrando in una maggioranza parlamentare. Riconosco però che lo sforzo è pesante e mi rendo conto della pesantezza dello sforzo che l’onorevole Malagodi ha dovuto sostenere per tanti anni. È vero che gli sforzi che si compiono in una coalizione di Governo sono compensati dalle comodità, dai vantaggi e dai privilegi che la coalizione di Governo concede ed offre.

Ora, senza volere certo dispiacere al mio ottimo amico onorevole Lucifero, che ne ha in qualche modo una paternità degnissima, devo rivelare che l’onorevole Malagodi ha oggi, non dico fondato, ma ricostituito, rifondato il Partito liberale. Abbiamo sentito in quest’aula la voce del vero Partito liberale, che da anni non sentivamo più. Abbiamo sentito impostazioni rigidamente e ortodossamente liberali da parte del segretario del Partito liberale. Ci fa piacere. Non sono le nostre impostazioni, noi non le condividiamo; però sentire il segretario del Partito liberale parlare finalmente un linguaggio liberale, criticare la politica economica di questa compagine governativa, criticare, anzi attaccare a fondo l’istituto della regione in nome delle tradizioni alle quali finalmente vi ricordate di ispirarvi, direi che è stato uno spettacolo confortante. Onorevole Malagodi, abbiamo assistito proprio oggi alla nascita o alla rinascita del Partito liberale.

Ci consenta però di dirle, onorevole Malagodi, che abbiamo ancora nelle orecchie, da parte sua e dei suoi amici, e soprattutto dei suoi amici che hanno fatto parte della precedente coalizione governativa, accenti ben diversi, impostazioni ben diverse, o per lo meno impostazioni ben più caute; o per lo meno abbiamo il dolore di non avere ascoltato, per la vostra reticenza opportunistica quando eravate al Governo, le stesse impostazioni di oggi, né sul piano politico ed economico, né soprattutto sul piano politico generale dello Stato rispetto all’istituto della regione.

Onorevole Malagodi, quello che ella ha detto oggi è senza dubbio esatto dal punto di vista vostro e, fra l’altro, è stato detto veramente in modo formalmente mirabile. Ma sono anni che una parte notevole dell’opinione pubblica chiede al Partito liberale di distaccarsi da coalizioni opportunistiche, da posizioni opportunistiche che inducevano o costringevano il Partito liberale a tacere alcune sue fondamentali impostazioni programmatiche! Sono anni che voi siete costretti o ritenete di lasciarvi costringere alla tattica o alla politica del compromesso! Si parla di strizzatine d’occhio nei nostri confronti, ma c’è stata una permanente e decennale strizzata d’occhio fra voi, la Democrazia cristiana e il Partito socialdemocratico!

Si parla oggi dei problemi della pubblica istruzione, si parla oggi dei problemi dell’agricoltura, si parla oggi del problema regionale da parte vostra con rude ortodossia di partito; ma il fatto che tale ortodossia l’abbiate recuperata d’un tratto, essendo passati d’un tratto all’opposizione, non vi qualifica nel modo migliore per essere voi i censori non del Governo, ma delle nostre posizioni e delle nostre impostazioni! Già, perché ella trova incredibile il nostro atteggiamento!

Onorevole Malagodi, il nostro atteggiamento non ci forza in nessun modo, non ci porta, né ci porterà mai, a rinunziare a uno solo degli aspetti morali, storici, programmatici e politici della nostra impostazione, come risulta chiaro dagli interventi degli onorevoli Turchi e Ferretti al Senato e come cortesemente ci può testimoniare il Presidente del Consiglio. I discorsi dei senatori «missini», pur nella conclusione positiva, sono stati discorsi più di critica che di consenso ai programmi e soprattutto a talune impostazioni di fondo dell’attuale Governo.

Dal suo pulpito, dunque, onorevole Malagodi, non ci doveva venire una predica di questo genere.

Ma guardi, per passare dal generale al particolare, il problema delle regioni. Ho l’onore di far parte della prima Commissione (Interni) che si è occupata della nostra proposta di revisione di quegli articoli della Costituzione che appunto concernono l’ente regione. Naturalmente, di fronte alla nostra proposta, i colleghi socialcomunisti hanno gridato allo scandalo, come se la Costituzione fosse qualche cosa di intangibile.

Ma o si intende essere fedeli alla Costituzione, ed allora la fedeltà deve riguardare anche l’articolo 138 che saggiamente ne prevede la possibilità di revisione, o si è fedeli solo agli articoli che fanno comodo e allora non si è dei difensori della Repubblica e dello Stato, ma solo difensori delle proprie tesi di parte e la Costituzione è solo un usbergo. E questo è tanto vero che voi socialcomunisti vi scandalizzate oggi ma non vi scandalizzavate affatto, durante il periodo della Costituente che vi vide avversari o tiepidi assertori della regione, perché speravate che il 18 aprile segnasse la vostra vittoria e guardavate con preoccupazione a un ente regione che avrebbe diminuito il vostro potere centrale e assoluto.

L’onorevole Malagodi, comunque, ha compiuto oggi l’atto coraggioso di chiedere la revisione della Costituzione. O, per lo meno, egli si è espresso in modo da far capire che desidera la revisione degli articoli riguardanti la regione. Senonché, all’inizio dell’altra legislatura e di questa, nel 1948 e nel 1953, quando i parlamentari del Movimento sociale italiano presentarono la proposta di revisione costituzionale, recante per prima appunto la firma del segretario del nostro partito, la maggioranza della Commissione si schierò addirittura contro la presa in considerazione ed il rappresentante del Partito liberale votò contro la nostra tesi. Così quando, alla stessa Commissione interni della Camera giunse la proposta Amadeo per l’ elezione dei consigli regionali, il rappresentante del Partito liberale o votò contro la nostra tesi nuovamente, tesi per fortuna condivisa dalla maggioranza a proposito dell’emendamento Agrimi, o fu un brillantissimo assente. II Partito liberale, dunque, nella sua rappresentanza parlamentare, cioè nella attività legislativa che doveva svolgere in omaggio ai propri princìpi, non ha nessun merito a proposito dell’ente regione.

Non ci si dica dunque che il nostro atteggiamento è inverosimile. Intanto dobbiamo prendere atto con soddisfazione (è una nota positiva che registriamo con piacere) che le dichiarazioni di questo Governo in ordine all’ordinamento regionale sono meno gravi, meno preoccupanti delle dichiarazioni e degli impegni di tutti gli altri Governi dei quali voi liberali facevate parte.

Gli altri Governi hanno sempre programmaticamente dichiarato, salvo a dimenticarsene poi nell’attuazione del programma (consultate gli atti parlamentari dal 1948 in qua), la loro fedeltà all’ente regione e la loro volontà di dargli attuazione. Non solo; ma sia quando la nostra proposta costituzionale venne per due volte respinta, sia quando si parlò in questa aula e nell’altro ramo del Parlamento del problema

a proposito dei continui rinvii della legge elettorale regionale, tutti i governi dei quali voi liberali facevate parte fecero dichiarazioni, che potevano essere fittizie, che hanno potuto per fortuna non essere seguite dai fatti, che per fortuna non sono state mantenute ma che tuttavia sono state responsabilmente pronunciate, di pieno, assoluto ossequio all’ente regione e di volontà di dargli rapidamente attuazione.

Questo Governo ha, in sostanza, fatta sua la posizione che è risultata vittoriosa in Commissione per pochi voti, e contro la vostra volontà, liberali, per lo meno contro la volontà del vostro rappresentante nella Commissione interni della Camera.

Questo Governo dichiara: non si darà attuazione all’ente regione se prima non verrà disposta e attuata la legge finanziaria. È una posizione non soddisfacente per noi, evidentemente, perché non è la nostra posizione, non risponde al nostro punto di vista. Il nostro punto di vista l’abbiamo responsabilmente dichiarato, l’abbiamo tradotto in una proposta di legge costituzionale. Però, tra tutte le posizioni che finora sono state prese dai vari governi in ordine al problema regionale, è quella che meno gravemente si allontana dalla nostra e anche dalla vostra attuale presa di posizione.

A questo riguardo, pertanto, non è inverosimile il nostro atteggiamento; ma, semmai, è inverosimile e inspiegabile il vostro atteggiamento, onorevole Malagodi.

Sono lieto di aver parlato dopo l’onorevole Malagodi e l’onorevole Nenni. Dall’onorevole Nenni ho sentito parlare (ed è sempre commovente) di Provvidenza. Si è parlato di Predappio. L’onorevole Nenni è di quelle parti, e ha parlato come uomo della Provvidenza, e ha gravemente minacciato lei, onorevole Zoli, e tutti noi, l’Italia, con la solita minaccia del caos. Un discorso apocalittico, quello dell’onorevole Nenni. Ma l’onorevole Nenni è abituato da 10-12 anni a fare certe profezie, che per fortuna non si verificano mai. In sostanza egli è un gran bravo uomo, come un bravissimo uomo è lei, onorevole Zoli. Con quel suo temperamentaccio che gli conosciamo ormai, l’onorevole Nenni ha reso oggi, involontariamente, anch’ egli un grosso servizio alla chiarezza della situazione politica, come precedentemente l’aveva reso l’onorevole Malagodi. Perché, se l’onorevole Malagodi ha affermato che il quadri-partito per ora è sepolto (Dio ci salvi dal poi), l’onorevole Nenni ha confermato che per ora, malgrado gli inviti, le sollecitazioni, le graziose serenate odierne del segretario della Democrazia cristiana, non si può parlare d’ apertura a sinistra, che non sia apertura fino ai comunisti. Io ho registrato le più interessanti fra le frasi dell’onorevole Nenni; e credo che anche il Presidente del Consiglio, che è un pazientissimo annotatore, le abbia segnate nel suo taccuino.

L’onorevole Nenni, parlando della maggioranza che potrebbe domani costituirsi sui patti agrari, ha detto: essa vi è già e va dai democristiani fino ai comunisti. E ulteriormente ha dichiarato (e spero che il Presidente del Consiglio e anche l’onorevole Fanfani ne abbiano preso nota): «Noi socialisti non siamo alla ricerca di motivi di differenziazione dai comunisti». E ulteriormente ha precisato ancora meglio: «Badate, che le maggioranze pendolari o interscambiabili non sono per noi». Ed ha aggiunto: «Niente gioco delle mezze ali».

Mi faceva rilevare l’onorevole Lucifero (non voglio rubargli una battuta che mi sembra graziosa) che l’onorevole Nenni non è «sistemista»; usa il vecchio metodo. “

PRESIDENTE: “Il catenaccio. “

ALMIRANTE: “Il catenaccio dovrebbero metterlo loro, i democristiani. Il senatore Zoli da principio lo aveva messo, l’onorevole Fanfani si è incaricato di scassinarlo e l’onorevole Nenni lo ha chiuso. “

ZOLI: “Vi erano dei falli laterali da parte di qualcuno. Allora, rimetteremo le cose a posto. Cercheremo di far entrare il pallone in rete. “

ALIMIRANTE: “L’importante è che tutti possano giocare a questo giuoco e che non si dica come fa il bimbo capriccioso: con te non giuoco. Poi si vedrà chi sa giocare. “

ZOLI: “Si vedrà se è questione di capriccio o di coerenza. “

ALMIRANTE: “Se è questione di coerenza, onorevole Zoli, allora ci sono certi giuochi che ella non vuol fare con noi e che noi non vogliamo fare con lei. Stia sicuro che prima di tutto noi non vogliamo farli con lei, perché offenderemmo noi stessi ancor prima di offendere lei.

Vi sono altri giuochi che siamo invitati a fare dagli elettori, e sono giochi che stiamo facendo tutti quanti come deputati e come italiani lo ha detto l’onorevole Malagodi e gli rendo grazie di questo e sono giochi politici, parlamentari, democratici e tutti siamo qualificati a farli. Può darsi che li facciamo più o meno bene, ma è nostro diritto. La legittimità di farlo non ce l’ha data lei e non ce la può togliere, né noi ci permetteremmo di darla o di toglierla a lei: a lei e a noi l’ha data il popolo italiano quando ci ha mandati qui.

Questa è l’arena dove si gioca. “

ZOLI: “Ci siamo presentati al popolo in un certo modo; e, come ho detto, nessuno mi cambierà i connotati, stia tranquillo. “

ALMIRANTE: “Si immagini se io voglio cambiarle i connotati, che sono così simpatici; quelli devono restare. Non si tratta di cambiare i connotati. Credo che la mia impostazione, anche se scherzosa e che si è voluta servire di una battuta per rispondere ad una sua garbata interruzione, sia come tante altre volte una impostazione seriamente politica.

Questa è l’arena in cui si fanno i giochi. E una volta entrati qui dentro non è possibile essere messi fuori della porta, moralmente e politicamente, da chicchessia.

Si tratta di vedere e lo ripeto come e in quale misura, in quale maniera, con quale impostazione, con quale formula e soprattutto con quale senso di responsabilità, di chiarezza, si vuole partecipare al gioco. E siccome noi a lei non abbiamo contestato affatto né la sua coerenza, né il suo senso di lealtà e di chiarezza, penso che ella non contesterà affatto che il gioco potrà tradursi in un incontro e in uno scontro. Onorevole Zoli, stiamo già giocando, ella sta giocando nel momento in cui parla, mi interrompe, prende atto della mia posizione, e continua questo colloquio.

Crede forse in questo momento di essere ancora non fisicamente, non moralmente, ma come uomo e come uomo politico soprattutto, quello del 1945? No, anche io sono moralmente quello del 1943, quello del 1945 e di altri anni che non arrivano, per mia fortuna, al 1919. E lo sono nella mia ininterrotta coerenza, della quale mi vanto e alla quale certamente non rinunzio. E per queste ragioni onoro la coerenza altrui e sono lieto che ella ne abbia dato prova anche in questo dibattito, anche se talune delle sue espressioni hanno potuto legittimamente ferirci.

Ma dal punto di vista politico, cioè della responsabilità, sono un deputato italiano che parla a nome di un partito politico italiano, il quale non ha bisogno di nessun passaporto e di nessun lasciapassare per inserirsi nella vita politica italiana. Gli elettori ci hanno inserito nella vita politica. Non voglio fare della retorica e dirvi che ci hanno inserito anche le nostre e le altrui sofferenze. Gli elettori italiani ci hanno inserito in questo gioco. E gli ultimi a poterci dire che noi oggi ci inseriamo anche in una maniera probabilmente più penetrante, gli unici a non poterci rimproverare questa nostra capacità di inserimento, sono coloro che ci hanno rimproverato sempre del contrario.

Sono dieci anni che ci sentiamo rimbalzare addosso delle pesanti accuse: gli uomini col volto girato all’indietro, i dannati danteschi, i nostalgici. E quando in Parlamento noi soli, onorevole Zoli, stiamo dando la prova di capacità anche di capacità sofferta di inserimento, di senso di responsabilità, quando noi, forse sbagliando e forse illudendoci, rispondiamo con celerità e prontezza, della quale ci deve esser dato atto, ad un appello che ha voluto qualificarsi, come lo ha qualificato lei, l’appello di un Governo di partito, ma per la nazione, proprio in questo momento trovate modo di dirci: con voi non giochiamo. Altri momenti dovevate trovare, non questo. Noi vi ringraziamo, perché ci fate fare una magnifica figura, ma pensiamo che non sia saggia la vostra posizione. E credo che questo, onorevole Zoli, non la possa offendere, perché non è solo l’espressione di un uomo, ma di un partito. E chiedo scusa di questa digressione che comunque era necessaria.

L’onorevole Nenni chiarendo che non si presterà né a una apertura a sinistra che vada fino ai socialisti ed escluda i comunisti, né a un gioco alterno sulle mezze ali, né alle cosidette maggioranze pendolari e interscambiabili, dichiarando addirittura che non sta neppure cercando motivi di differenziazione dai comunisti, penso che abbia chiuso l’altra porta, abbia messo l’altro catenaccio, abbia dato al segretario della Democrazia cristiana la risposta che forse questi si attendeva e desiderava; e questo fatto non può essere dimenticato, io spero, da questa sera a domani mattina.

Quindi, sepolto il quadripartito dai suoi stessi esponenti; sepolta la possibilità non solo di una apertura a sinistra, ma di un gioco immediato con le sinistre da parte di coloro stessi che del gioco sembravano essere i protagonisti, penso che la situazione si sia chiarita nei suoi termini essenziali, e penso che questo chiarimento giovi a tutti, e che taluni equivoci non possano verificarsi ulteriormente.

Allora, a questo punto il dibattito potrebbe anche essere considerato inutile, potrebbe essere considerato un’appendice ormai oziosa del lungo dibattito svoltosi al Senato. Credo invece che il dibattito sia ulteriormente utile (a parte le precisazioni preziose fornite dagli onorevoli Malagodi e Nenni), perché ho l’impressione di non sbagliare quando dichiaro che in questi ultimi giorni in Italia qualche cosa di molto importante è accaduto.

Quando crolla un palazzo fatiscente, che pure aveva una sua apparenza di austerità e di imponenza, sono molti i calcinacci per terra; qualcuno li può anche scambiare per ruderi, ma sono soltanto calcinacci. Si leva un grande polverone. Qualcuno può dire: è una tempesta, è un ciclone. È il caos, dice l’onorevole Nenni. No: è polvere. Però occorre un po’ di tempo per riordinare i calcinacci e stabilire che sono proprio calcinacci, e non metterci intorno il muretto di cinta. Per carità, non mettete muretti di cinta intorno all’onorevole Saragat!

Ci vuole del tempo perché il polverone si dilegui. Il tempo poi è ancora più lungo quando per avventura, come in questo caso, oltre ai calcinacci veri vi sono quelli artificiali, e oltre al polverone autentico vi è la nebbia artificiale: una nebbia artificiale che in questo momento alita su tutta la situazione politica italiana e sull’opinione pubblica. E questo non per colpa vostra, e certo non per colpa sua, onorevole Zoli, non per colpa della Democrazia cristiana, se si eccettuano taluni interventi del segretario di quel partito. Questo avviene per colpa di taluni grossi organi di opinione pubblica che, guarda caso, sono proprio i cosiddetti giornali borghesi, contro i quali le sinistre tanto inveiscono. Tali giornali in questi giorni e la cosa non si verifica per la prima volta, né sarà l’ultima stanno compiendo un sottile gioco di equivoci che mi propongo in parte di smascherare nel corso di questo mio breve intervento.

Credo che si possa tranquillamente prendere atto che la politica centrista è fallita; ma vorrei pregare i responsabili della Democrazia cristiana, nel loro interesse, di non confonderla con un indirizzo politico di centro, che è altra cosa.

Credo che la Democrazia cristiana, proprio ora, possa incominciare a fare una politica di centro, e credo che non abbia potuto fare una politica di centro, ma abbia dovuto oscillare fra una lenta e talvolta accelerata involuzione a sinistra e un quasi permanente immobilismo, proprio a causa dell’equivoco centrista.

La politica centrista è finita. Che cosa significa in termini chiari? Significa che non esistono in questo momento le condizioni politiche, che non esistono neppure le condizioni personali per attuarla. L’intervento dell’onorevole Malagodi l’ha dimostrato, e l’intervento dell’onorevole Saragat ce lo dimostrerà ancora meglio, sen-

za dubbio, e sarà una delle poche volte in cui l’onorevole Saragat, suo malgrado, sarà utile all’interesse nazionale.

Non esistono, dunque, le condizioni politiche e neppure quelle personali per una collaborazione permanente al vertice tra Democrazia cristiana, Partito liberale, Partito socialdemocratico e Partito repubblicano. È un dato di fatto, è un fatto importante.

Ritengo, dal nostro punto di vista, che sia un fatto politico nazionalmente positivo e a noi non interessa sapere o stabilire o precisare di chi siano state le responsabilità.

Abbiamo letto cose estremamente divertenti in questi giorni da questo punto di vista. Se l’argomento e la discussione non fossero profondamente seri, sarebbe veramente il caso di fare un intervento a base solo di battute. Abbiamo letto, per esempio, in questi giorni a proposito delle ragioni del crollo del precedente Governo, che il presidente Segni sarebbe stato troppo «precipitoso» nel leggere sui giornali le dichiarazioni politiche «precipitose» che l’onorevole Saragat, vicepresidente del Consiglio in carica, aveva fatto «precipitevolissimevolmente» una domenica mattina in un’assemblea di partito.

Ma, senza andare a questi ultimi eventi, io penso che sui metodi veramente singolari di coabitazione al Governo dell’onorevole Saragat, almeno fino ai tempi di Pralognan, voi foste sufficientemente informati ed edotti.

Comunque, prendo atto, e soprattutto dopo il discorso dell’onorevole Malagodi ne prendo atto volentieri, che il quadripartito è in questo momento sepolto e, badate, non soltanto le ragioni che l’onorevole Malagodi ha espresso, egli che finalmente ha dichiarato quali sono i programmi del Partito liberale e riteniamo che indubbiamente non si acconcerà fra poche settimane, fra pochi giorni a rinfoderare quei programmi, a dimenticarli, a rinnegarli, a distruggere quel bel partito… “

BADINI CONFALONIERI: “Eravamo contro le regioni alla Costituente quando ella non aveva ancora salito quei banchi. “

ALMIRANTE: “Appena siamo saliti su questi banchi, abbiamo presentata un’apposita proposta di legge costituzionale alla quale vi siete opposti. Non lo potevamo fare prima per le circostanze di fatto che l’onorevole Zoli antifascista ben conosce. Quindi, non addossateci la colpa, perché non può essere nostra.

Ma a parte, dicevo, il discorso dell’onorevole Malagodi, a parte i fatti personali che si sono verificati in seno al quadripartito, a parte la preziosa interruzione al discorso dell’onorevole Malagodi da parte dell’onorevole La Malfa il quale oggi giustamente ha detto: ma come? Voi continuavate a stare nel tripartito e ci criticavate perché noi ne eravamo usciti; a parte tutto questo, siete stati voi, è stato lei, onorevole Zoli, a chiudere la porta al quadripartito. Con il suo discorso finale al Senato, ella non ha soltanto coperto di male parole l’onorevole Saragat ma ha respinto Sara-

gat sul piano ideologico e sono sicuro che ella se ne è reso conto e che lo ha fatto apposta. Me lo auguro, perché questo accrescerebbe di molto la mia stima nei suoi confronti. Quando ella ha affermato che fra il classismo delle sinistre e il vostro interclassismo esiste una irriconciliabilità che si spinge sul piano delle valutazioni religiose, io penso che ella abbia voluto socialmente e ideologicamente scomunicare non soltanto Togliatti e Nenni, ma anche Saragat, il quale non ha mai negato di essere classista, è una delle poche cose nelle quali egli è stato sempre coerente.

Se la Democrazia cristiana si è accorta che tra interclassismo e classismo non vi è possibilità alcuna di conciliazione sul piano della condotta politica, in quanto si tratta di principi assolutamente inconciliabili, indubbiamente essa in questo modo ha detto a Saragat: bada, non hai i titoli ideologici programmatici per convivere ulteriormente.

Quanto a Malagodi e La Malfa, come ha rilevato l’onorevole Malagodi, essi sono stati respinti sul piano delle intese politiche e programmatiche.

Pertanto, preso atto che il quadripartito è morto e sepolto, mi debbo chiedere che cosa ha inteso dire l’onorevole Fanfani; mi debbo anche chiedere, in questa stranissima combinazione di gioco delle parti, perché Fanfani ha tanto violentemente aggredito, anche se ciò era nel suo diritto e dovere di segretario del partito, l’onorevole Scelba, il quale, in fin dei conti, con la caratteristica che gli è propria, con una certa virulenza, con poco garbo, scarsa tempestività e disciplina, non aveva detto cosa politicamente difforme da quella che oggi, con tanto garbo e stretta aderenza alla disciplina del partito, ha detto il segretario della Democrazia cristiana.

Spero che nel consiglio nazionale del suo partito, che ella farebbe bene a rinviare, se lo statuto lo consente, di qualche giorno… “

ZOLI: “Quanti consigli mi sono stati dati in questi giorni! “

ALMIRANTE: “I nostri consigli sono tutti disinteressati. “

ZOLI: “Sono tutti sprecati. “

ALMIRANTE: “Ma ella, come Presidente del Consiglio, non si può sottrarre ai consigli.

Mi auguro, dicevo, che nel supremo consesso della Democrazia cristiana queste incertezze di valutazione siano chiarite.

Stabilito che il quadripartito è morto e sepolto, che, come ha detto Nenni, di apertura a sinistra e di gioco delle mezze ali non si può parlare, voi avete la scelta tra poche formule: monocolore di affari, monocolore di centro. Come vede, onorevole Zoli, non parlo di monocolore aperto a destra o di centro-destra, perché mi rendo conto che in questo momento a tale formula non potevate condurre il vostro par-

tito senza creare a voi stessi e al paese delle grosse difficoltà. Penso che dobbiate apprezzare questa nostra moderazione di giudizio. Comunque, potevate scegliere tra la soluzione indubbiamente per voi più comoda, monocolore d’affari, e una soluzione qualificata, monocolore di partito di centro. Avete scelto quest’ultima, ed ella ha aggiunto: «Di partito per la nazione».

Io, che in un discorso programmatico di un Presidente del Consiglio vado logicamente a cercare il significato politico impegnativo di ogni frase, penso di non essere lontano dal vero se interpreto la sua definizione così: Governo di partito, come ella ha detto, filiato dal partito della Democrazia cristiana. Il quale partito, onorevole Zoli, nella parola del suo segretario ha dei toni, nei confronti del Governo, come abbiamo sentito oggi, un poco incomodi, un poco presuntuosi. Abbiamo sentito una predica che l’onorevole Fanfani ha rivolto al Governo del suo partito e ne abbiamo avuto pena per lei e per i suoi colleghi ministri: pensiamo che la disciplina instaurata dal partito nei confronti del Governo sia piuttosto rigida.

Ad ogni modo, ella, onorevole Zoli, dice «Governo di partito», io la capisco; quando aggiunge «per la nazione», penso che abbia voluto fare un appello alla responsabilità nazionale, obiettivamente valido. Onorevole Zoli, non mi dica di no, perché io le sto dicendo cose che non possono che giovare alla causa di un Governo, indipendentemente dalle persone e dai gruppi che lo potrebbero con il loro voto appoggiare. Quando un oppositore, comunque un uomo di partito molto lontano dal suo, si rivolge al Governo in questa guisa, ha l’impressione di rendere un modestissimo servigio a quel Governo. Non mi deluda, non mi dica di no, per un istante almeno, aspetti che abbia completato il mio pensiero. Quando ella dice: Governo nazionale, penso abbia fatto un appello obiettivamente valido, cioè abbia inteso dire: la Democrazia cristiana è impossibilitata a dar vita ad altre formule. Potrebbe scegliere una formula di affari. Non vuole scegliere una soluzione così comoda, che sarebbe elusiva dei principali problemi sul tappeto. Sceglie il Governo che esprime o vorrebbe esprimere il programma del partito; si rivolge alla responsabilità nazionale nel senso che chiede alla responsabilità di coloro che possono determinare il crollo od il passaggio del Governo di consentire a questo Governo di stare in piedi fino alle elezioni per l’amministrazione della cosa pubblica nell’interesse obiettivo della vita del paese. “

MALAGODI: “Con quei programmi? “

ALMIRANTE: “Con quei programmi dei quali ho già parlato. “

ZOLI: “Programmi sui quali sono maggiori i vostri dissensi che i consensi. Comincio a non capire. “

ALMIRANTE: “L’aiuterò a capire. “

MICHELINI: “È uno sforzo pesante, perché ella sta cercando da parecchi giorni di non capire. “

ZOLI: “Ella si accorgerà che ho capito. “

MICHELINI: “È una minaccia questa? “

ZOLI: “Non è una minaccia. “

DEGLI OCCHI: “Minaccia semplice. “

ZOLI: “È un preavviso. “

ALMIRANTE: “Quando pertanto, onorevole Presidente Zoli, oggi il segretario del suo partito ha contrapposto una posizione di dovere della Democrazia cristiana ad una presunta posizione di calcolo da parte nostra e dei nostri amici del Partito nazionale monarchico, sarei indotto dal temperamento e dal diritto a capovolgere la non felice impostazione del segretario della Democrazia cristiana; ma dal mio senso di pacatezza e responsabilità sono indotto soltanto a modificarla, a riconoscere cioè che in questo momento la Democrazia cristiana adempie ad un dovere se dà vita ad un Governo, avendo avuto dall’elettorato italiano la qualificazione numerica, se non altro, necessaria ed indispensabile per dar vita in questo momento essa sola ad un Governo. Ma debbo immediatamente aggiungere che da parte nostra, semmai, si deve parlare non solo di un analogo ma anche di un più maturato e più sofferto, e certo di un più disinteressato dovere. Io non penso che il segretario della Democrazia cristiana né i componenti del Governo né il Presidente del Consiglio in persona abbiano diritto di parlare di calcolo da parte nostra in questo momento.

Penso che sia veramente assurdo parlare di calcolo nei nostri confronti quando i calcoli li avete sbagliati o li state sbagliando tutti, avendo puntato le vostre carte (ed i discorsi di Malagodi e di Nenni lo hanno oggi dimostrato) in altri settori ed in altre direzioni.

Si tratta adesso, signor Presidente del Consiglio, di dare qualche interpretazio-ne al nostro atteggiamento. Ella, signor Presidente, ha detto in Senato: «Voi tirate a compromettermi. Lo non mi lascerò compromettere da voi». Si riferiva in quel momento, signor Presidente, come si è riferito anche oggi nel corso di questo mio intervento, ad una compromissione direi di carattere storico e di principio: noi vorremmo fascistizzare il Governo, od applicare al Governo, a uomini del Governo, alla sua persona, signor Presidente, quella etichetta che giustamente l’ opinione pubblica attribuisce a noi.

No, signor Presidente, nulla è più lontano dalle nostre intenzioni, dalla nostra volontà e dal nostro temperamento. Noi siamo fieri della etichetta che portiamo e siamo lietissimi che voi ne portiate un’altra, siamo lietissimi di una differenziazione

che dal piano politico si estende al piano morale e a quello storico. Non abbiamo nulla da rinnegare e non vi chiediamo di rinnegare nulla. Una sola cosa possiamo domandarvi: di avere la bontà, tra un anno, durante i comizi elettorali quale che sia la situazione che si determinerà da adesso ad allora di presentare al popolo italiano, soprattutto nelle contrade dell’Italia meridionale, la stessa Democrazia cristiana antifascista e resistenzialista che abbiamo avuto il piacere di incontrare qui nel colloquio tra noi e il Governo. Non vorremmo ci capitasse di trovare una Democrazia cristiana elettorale di tipo diverso: non vorremmo, durante la prossima campagna elettorale, assistere ad abbracci tra un uomo molto qualificato del Governo, un vostro ministro, e combattenti della Repubblica sociale italiana, in pubblico ed a fini elettorali da parte vostra. Questo ci è successo durante le precedenti elezioni e lo abbiamo molto deplorato. A noi certe contaminazioni non piacciono: intendiamo presentarci al corpo elettorale quali siamo, e vogliamo augurarci che la Democrazia cristiana si presenti quale ella la dipinge, onorevole Zoli, al corpo elettorale, specie a talune zone, a taluni settori di esso, in particolare nell’Italia meridionale. E non ho bisogno di spiegarne i motivi.

È stato detto lo ha scritto il giornale ufficiale della Democrazia cristiana che il nostro atteggiamento sarebbe determinato soltanto da ragioni polemiche, in quanto la polemica contro il quadripartito e la polemica contro l’apertura a sinistra ci avrebbero indotto a considerare come una formula accettabile in linea di massima e prescindendo per ora dai giudizi su questa formazione governativa e sul suo programma la formula monocolore.

Se si sostiene che è puramente polemica una posizione la quale nasce dall’aver constatato con piacere che la formula monocolore rappresenta il sotterramento, almeno per ora, di formule che noi consideriamo esiziali e dannose per la salute pubblica e politica d’Italia, allora anche la medicina è polemica, ed il medico che guarisce l’ammalato lo fa in polemica contro l’ammalato stesso. Io credo piuttosto che egli faccia polemica contro il male al fine di sanare l’infermo.

Noi siamo in posizione polemica, sì, ma contro le formule negative che hanno finora afflitto l’Italia. E che si parli proprio da parte del giornale della Democrazia cristiana e in qualche modo anche da parte sua, signor Presidente, di una nostra presunta posizione negativa in questo momento, mi stupisce perché voi avete dato vita al governo della Democrazia cristiana. Un partito come il nostro, il quale dice: vediamo alla prova questo Governo; vediamo alla prova i vostri programmi eccomi a quell’appuntamento, onorevole Malagodi non penso che possa aprioristicamente essere tacciato di impostazione negativa, a meno che voi non consideriate negativi a priori i programmi della Democrazia cristiana e la possibilità di vita e di battaglia politica di essa. È una impostazione a priori certamente non negativa; è una impostazione tendenzialmente positiva: la positività o meno dipenderà da voi.

Ed eccomi all’appuntamento. Si è detto che il nostro atteggiamento è inverosimile, e lo si è detto con qualche leggerezza, con qualche sgarbo: ma ce ne avete fatti tanti in questi giorni! È un po’ lo stile della Democrazia cristiana”.

ZOLI: “In caso avrebbe imparato da qualche altro partito precedente. Non era certo molto cortese il fascismo. “

ALMIRANTE: “Dal Partito repubblicano, forse, ma da noi no! Non ci sono mai state occasioni precedenti per dialoghi di questo genere. “

ZOLI: “Ella crede che il fascismo non ci abbia mai fatto degli sgarbi? Ella si è vantato di esserne l’erede, ha detto che è fiero di portare, non dico quella bandiera, ma quel gagliardetto. “

ALMIRANTE: “Vogliamo parlare dei tempi nostri, onorevole Zoli? “

ZOLI: “Ma voi parlate dei tempi passati, e li giudicate! “

ALMIRANTE: “Io sono qui per esprimermi sull’attuale situazione politica e poiché nel nostro atteggiamento qualcuno di voi non ha voluto vedere un atteggiamento politico, ma ha voluto insistere nel vedere soltanto un residuo di atteggiamenti nostalgici, ci siamo pronunciati molto rispettosamente sul vostro passato, come intendiamo ci si pronunci rispettosamente sul nostro. Dopodiché si parla del presente e del futuro.

Credo di non sbagliare, di non essere fuori dal seminato invitando garbatamente il Presidente del Consiglio a giudicare il nostro partito a seconda degli atteggiamenti politici che esso prende in questo momento. “

ZOLI: “A seconda dell’idea cui afferma di ispirarsi, non a seconda degli atteggiamenti, che sono contingenti. “

ALMIRANTE: “Sono proprio le idee, che determinano i nostri atteggiamenti, onorevole Presidente; perché mi debbo occupare, in risposta anche dell’onorevole Malagodi, delle ragioni politiche che stanno determinando il nostro atteggiamento, ragioni politiche che sono anche ragioni di principio, ragioni programmatiche. L’onorevole Malagodi ed altri anche lei, signor Presidente del Consiglio in una interruzione hanno considerato singolare il nostro atteggiamento.

La prego, signor Presidente del Consiglio di voler non dico rileggere, perché li ha pronunciati lei e li ricorderà bene, ma riconsiderare i suoi due discorsi al Senato, quello iniziale e quello finale; e di voler considerare, nell’ intervallo, le nostre impostazioni politiche e programmatiche in Senato. Forse quanto sto per osservare le riuscirà nuovo o le dispiacerà, ma si tratta di fatti reali.

Nel suo primo discorso, ella ha fatto un elogio che è stato scherzosamente definito un poema statistico al quadripartito e, in sostanza, attraverso l’elogio al quadripartito, è affiorata una malinconia, la nostalgia del quadripartito stesso e in pari

tempo è affiorato un tentativo di giungere ad un nuovo quadripartito, o quanto meno ad una nuova coalizione di centro. In tale discorso la parola «comunismo» non risultava affatto e non vi era alcun attacco, alcun indizio a quegli aspetti del comunismo su cui ella invece si è pronunziata molto chiaramente nel suo secondo discorso.

Così le sue posizioni nei confronti del Partito socialista italiano erano reticenti o addirittura ambigue. Nei nostri interventi al Senato sul piano politico, ispirandoci ai nostri principi, per quella vitalità che questi principi hanno ancora oggi nel paese, noi abbiamo chiesto al Governo di pronunziarsi in ordine a tre cose: al quadripartito, all’ apertura a sinistra, al grave problema del comunismo. Ebbene, nel suo discorso di replica, forse non intendendo di rispondere direttamente a noi, o in parte forse rispondendo direttamente a noi, ma comunque, l’abbia voluto o non l’abbia voluto, l’abbia fatto a ragion veduta o l’abbia fatto suo malgrado, solo perché a questo l’ha portato la logica delle cose, come poc’anzi diceva l’onorevole Pietro Nenni, nella sua replica ella si è riferita a quei tre problemi e in ordine a ciascuno di quei tre problemi ella ha dato una impostazione.

Quadripartito: chiusura. Ed era questa appunto la nostra vecchia impostazione, la nostra consueta impostazione, anzi. Ella non avrà avuto intenzione di farla sua, ma lo avrà fatto per la logica degli eventi; comunque l’ha fatta sua. Apertura a sinistra: a prescindere, onorevole Presidente del Consiglio, da quanto l’onorevole Nenni ha precisato ora, ella ha detto che c’è un’apertura politica e un’apertura sociale e che per quanto riguarda l’apertura politica la Democrazia cristiana è divisa tra coloro che sono d’accordo per ora per il no, ma che comunque tutti sono d’accordo per il no.

Mi pare queste siano state esattamente le sue parole testuali. Ha poi espresso sul comunismo dei giudizi che non soltanto il nostro settore ma larga parte del Parlamento ha da sempre espresso, quando invece nel discorso iniziale aveva sull’argomento totalmente taciuto.

Non può dunque dirsi che un nostro atteggiamento politico in questo momento sia privo di coerenza e di validità, non può dunque dirsi che il nostro atteggiamento politico in questo momento non si richiami a principi che sono stati sempre nostri e che abbiamo sempre sostenuto in opposizione alle precedenti formule di Governo, in opposizione anche a precedenti impostazioni del partito di maggioranza.

Quando poi ci si consiglia, come qualche amico del giaguaro ci ha consigliato, un atteggiamento astensionistico, cioè un atteggiamento di copertura della nostra responsabilità, noi rispondiamo esattamente quello che l’onorevole Malagodi ha risposto: in questo dibattito non si tratta di astensione, ma si tratta di dire sì o no. Il segretario del nostro partito, onorevole Michelini, preciserà a conclusione del dibattito, il nostro pensiero responsabile, ma egli mi ha autorizzato a dire pubblicamente che si tratterà di dire sì o no e non certamente di un atteggiamento di astensione o di copertura o di sotterfugio. Questo è il dibattito delle aperte e chiare responsabilità e penso che questo atteggiamento, che è forse più di stile che politico, debba essere apprezzato anche da coloro che non condividono il nostro punto di vista.

Ed allora, onorevole Zoli, quando ella dice Governo di centro per la nazione, Governo di partito per la nazione, noi rispondiamo che sulla formula in generale saremmo d’accordo, purché alla formula voi vi atteniate. Governo di partito? Ed allora fuori con il vero volto della Democrazia cristiana. Finora vi siete coperti di alibi più o meno comodi e più o meno tempestivi. Finora, quando vi si chiedeva di chiudere verso Nenni, dicevate: abbiamo Saragat in casa, Saragat che torna da Pra-lognan sta lavorando per la unificazione e se chiudiamo la porta a Nenni, mettiamo Saragat in condizioni di difficoltà. Adesso non potete più dirlo, non avete più questo coinquilino piuttosto incomodo. Quando vi si chiedeva anche da questa parte di affrontare grossi problemi sociali, di struttura, quando vi si chiedeva, per esempio, di tradurre in leggi operanti gli articoli 39 e 40 della Costituzione, di dar vita alle leggi sindacali (e di questi problemi vi parlerà il presidente del nostro gruppo parlamentare, onorevole Roberti, anche come presidente della «Cisnal») voi rispondevate: vi sono i liberali in casa nostra ed è difficile, coabitando con il Partito liberale, poter affrontare i grandi problemi di struttura sociale e sindacale. “

MALAGODI: “Probabilmente presenteremo una proposta di legge.”

ALMIRANTE: “La studieremo volentieri. Potreste intanto cominciare a studiare le vostre. “

MICHELINI: “Ella, onorevole Malagodi, all’opposizione è un grosso acquisto. Sono convinto di questo. “

ALMIRANTE: “Intanto dicevo onorevole Malagodi, potreste cominciare a studiare, ora che siete all’opposizione, ora che potete farlo e l’onorevole Fanfani non ve lo vieta più, la proposta di legge che noi abbiamo presentato per il riconoscimento giuridico dei sindacati. Perché non cogliete la buona occasione ora che siete liberi dal gravame del Governo? Fatelo pure. Potreste anche studiare l’altra proposta di legge, dato che si parla di socialità, dividendo il campo fra partiti sociali e partiti conservatori e reazionari, sulla socializzazione delle aziende I.R.I. e potrebbe anche prendere visione lei, onorevole Zoli, di questa nostra proposta di legge. Potreste dicevo studiare questi problemi e rendervi conto che i partiti non possono essere socialmente divisi in maniera schematica all’uso di Nenni e Togliatti.

Dicevate, finché eravate inseriti in formule quadripartitiche e tripartitiche, che anche la lotta contro il comunismo non poteva essere condotta fino in fondo perché la formula composita e soprattutto la presenza dei repubblicani o socialdemocratici al Governo e nella maggioranza parlamentare vi impedivano talune iniziative. Adesso non avete più alcun alibi e vi incoraggiamo a fare la vostra politica. L’avete esposta? Non credo che il Presidente del Consiglio l’abbia potuta o voluta esprimere in pieno, anche perché il Presidente del Consiglio è stato molto onesto nell’esprimere dinanzi al Parlamento i limiti di tempo della sua azione. Il Presidente del Consiglio

ci ha ricordato e ha ricordato anche a se stesso che questo Governo non vuole essere transitorio, ma che è un Governo a scadenza costituzionalmente fissata, invalicabile. Il Presidente del Consiglio ha fatto riflettere che non molte settimane di lavoro avrà il Parlamento dinanzi a sé per la sua attività legislativa normale. E a questo punto il Presidente del Consiglio, se avesse portato fino in fondo le sue oneste riflessioni, avrebbe probabilmente stralciato qualche parte del programma legislativo che ha esposto alle Camere. Io penso che egli coltivi qualche buona, qualche ottima illusione, se pensa di poter realizzare un programma così vasto.”

ZOLI: “Ho molta fiducia nel Parlamento. “

ALMIRANTE: “O in sé stesso? “

ZOLI: “Nel Parlamento. “

ALMIRANTE: “Gliene siamo grati. Le auguro di poter realizzare un programma ancora più vasto, ma penso che i limiti di tempo diverranno ad un certo momento veramente invalicabili. E credo di non sbagliare prevedendo questo.

Per questa ragione e per altre ragioni che sono politicamente evidenti, penso che il Presidente del Consiglio non abbia esposto tutto il programma del suo partito. E d’altra parte il segretario della Democrazia cristiana ha dichiarato che la Democrazia cristiana pensa di presentare il suo vero programma come manifesto elettorale per la battaglia elettorale, per le future sue glorie e maggioranze. L’attendiamo a questa prova.

Il programma che l’onorevole Presidente del Consiglio ha presentato comporta alcuni problemi di carattere sociale ed economico sui quali si pronuncerà l’onorevole Roberti. Io mi sono pronunciato in merito al problema della regione. Comunque devo dire, per venire al punto più delicato dell’attuale situazione politica, che coloro che in questo momento (alludo a quella tale stampa borghese di cui parlavo all’inizio) vagheggiano una strana operazione, una politica sociale di sinistra coi voti o con la copertura della destra, non hanno ascoltato bene il suo discorso di replica al Senato, onorevole Zoli.

In quel discorso ella è stato molto chiaro e molto efficace quando ha detto: attenzione, classismo è inconciliabile con interclassismo; ha detto: attenzione, classismo è uguale a marxismo; e ha detto ai socialisti dal punto di vista sociale qualche cosa di più: badate voi, sotto le bandiere aperte o arrotolate del Partito comunista, attraverso una vostra impostazione di politica unitaria di classe operaia, in sostanza contrabbandate una merce che è merce comunista perché è merce marxista e classista, e perciò non è conciliabile coi nostri principi.

Ella ha detto questo, onorevole Presidente del Consiglio, ma come accade, gravato da tante fatiche, da tante preoccupazioni e da tante interruzioni, se ne è dimen-

ticato subito dopo, quando ha aggiunto che, se di apertura politica verso sinistra non si può parlare, si può parlare invece di apertura sociale.

Ora noi siamo d’accordo se per apertura sociale si intende che questo Governo vuole realizzare, nei limiti che lo spazio e il tempo gli consentiranno, il programma sociale della Democrazia cristiana, cioè un programma sociale interclassista. Io mi permetterei soltanto di usare una denominazione più propria, più italiana, anche, e perfino più democristiana; oserei suggerirvi di parlare, anziché di interclassismo, di corporativismo. E non lo dico in senso fascista, ma in senso vostro, del vostro corporativismo di Toniolo.

Non penso che vi possiate adontare per un riferimento di questo genere. E vi suggerisco il termine non per confondere le idee, ma per chiarirle. Interclassismo somiglia molto a classismo e somiglia soprattutto a espediente. Corporativismo demo-cristiano e cattolico è, invece, termine storicamente e programmaticamente individuato in maniera perspicua e intorno al quale il segretario della Democrazia cristiana, in senso cattolico e non in senso derivato, potrebbe darci in un suo prossimo intervento una lezione di chiarezza e di definizione programmatica, terminologica e politica. Sarebbe una buona occasione per parlare insieme di un certo passato e di aspetti di quel passato che indubbiamente al professore onorevole Fanfani non possono dispiacere e dei quali non può rifiutare né corresponsabilità né, in qualche modo, paternità.

Comunque, continuate a parlare di interclassismo, però come ne ha parlato lei, onorevole Zoli: cioè stabilendo per sempre che interclassismo e classismo sono termini inconciliabili, perché il primo rientra nel programma cattolico mentre il secondo rientra in quello marxista e materialista. Se dunque il Partito socialista pratica una politica sociale classista, di intesa con il Partito comunista, attraverso la CGIL, non basta dichiarare che non è possibile nei confronti del PSI un’ apertura politica, ma bisogna aggiungere perché è la logica delle cose che vi porta a questa precisazione che nei confronti del Partito comunista e del Partito socialista, se veramente volete essere democristiani e antimarxisti, interclassisti, (come voi vi chiamate) o corporativi (come dovreste chiamarvi senza vergognarvene) non è possibile prima di tutto nemmeno un’ apertura sociale.

Nenni ha dichiarato oggi che sulle leggi sociali troverete una maggioranza che va fino ai comunisti. Ciò sarebbe naturale trattandosi delle leggi sociali dei marxisti e dei classisti. Ma tali leggi, ispirate a una politica di classe, cioè di divisione e di odio, non di soluzione ma di esasperazione dei problemi, non sarebbero leggi di tutela dei legittimi interessi dei lavoratori, ma leggi eversive.

Ma tali leggi voi le approvereste con i voti dei socialisti e dei comunisti e con il nostro «no»! E questo è un «no» programmatico, non politico od opportunista; non è un «no» di questa sera né una minaccia, ma un leale avvertimento: anche perché, vi ripeto, quelle leggi voi le approvereste, non soltanto con i voti di Nenni, ma anche con quelli di Togliatti: quelli di Togliatti prima di quelli di Nenni. Ed in que-

sto caso voi costituirete una nuova alleanza e una nuova maggioranza, assumendo-vene tutte le responsabilità. Giochi di contrabbando a questo riguardo non se ne fanno con questa parte, non se ne faranno mai nella maniera più tassativa.

Ed a proposito di salti, attenzione, perché Nenni non si è stasera dimostrato una quaglia, ma addirittura un canguro: un canguro che porta Togliatti nel marsupio. Voi non riuscirete mai a costituire una maggioranza coi socialisti che non sia tale da comprendere anche i comunisti. “

CORONA ACHILLE: “Ella cerca di spaventare, onorevole Almirante. “

ALMIRANTE: “Onorevole Corona, sono venuto al congresso di Venezia ed i limiti entro i quali l’onorevole Pietro Nenni può muoversi li conosco bene. Oggi l’onorevole Nenni è stato costretto a pronunziare una delle frasi più dolorose, forse, della sua carriera politica. Mentre la leggeva si sentiva la sofferenza: «Noi non cerchiamo ha detto Nenni di differenziarci dai comunisti». Ma come? Tutta la politica di Pietro Nenni da parecchi mesi a questa parte è rivolta a cercare una siffatta differenziazione, tutto il congresso di Venezia si è svolto su quel tema e su quel tentativo. Nenni si è lasciato rivolgere infinite serenate ed ora viene qui, nel momento in cui la Democrazia cristiana, ingenuamente (o malignamente) riapre la porta che il Presidente del Consiglio aveva chiuso l’altro giorno, e proprio in questo momento è costretto a dire ai democristiani (che non gli hanno chiesto che un gioco di mezze ali), a dire, dopo il discorso dell’onorevole Togliatti di ieri: noi non cerchiamo nessuna differenziazione dai comunisti.

Dopo di che io non so che cosa ancora cerchiate per comprendere la vera situazione.

La politica dell’onorevole Nenni è questa, non perché sia ansioso della soluzione dei problemi sociali, ma perché la sua base elettorale è la base sindacale, perché egli non può uscire dalla CGIL Egli ha potuto, nei confronti dei comunisti, usare un linguaggio apparentemente indipendente su problemi molto lontani, oltre cortina; ma quando si è al di qua della cortina e si entra nelle camere del lavoro, i socialisti nenniani sanno benissimo di non poter fare a meno dell’appoggio dei comunisti, sanno che quella è la loro base politica, la loro potenza.

Lo dovete sapere anche voi democristiani, e quindi dovete rendervi conto che certi giochi non sono assolutamente possibili.

Rendetevi conto pertanto che chiudere politicamente al Partito socialista non vuol dire chiudere al progresso sociale. Questo è il vecchio gioco delle sinistre che purtroppo ha attecchito in Italia. Essi sono riusciti ad identificare propagandisticamente il progresso sociale con l’apertura a sinistra e con la politica di classe. Invece, al contrario, non si va verso il popolo andando verso quei partiti. Andando verso quei partiti (lo dico senza retorica: è la realtà, e non faccio che ripetere le sue frasi, onorevole Zoli) significa andare verso Poznan e Budapest; significa mettere domani

(lo ha detto ella al Senato) i lavoratori e i giovani italiani nelle stesse condizioni in cui si sono trovati e ancora si trovano i lavoratori e i giovani in Polonia, in Ungheria e nella Germania orientale.

Non basta dire di no all’apertura politica a sinistra. Bisogna aver chiaro questo concetto: che tutto l’armamentario pseudo-sociale della sinistra è un armamentario antisociale e che per progredire socialmente bisogna aver il coraggio di trasferire sul terreno politico quello che ella ha detto felicemente sul terreno dei principi.

Se l’interclassismo è inconciliabile con il classismo, allora una politica sociale di centro è inconciliabile con una politica sociale aperta a sinistra e con singoli provvedimenti sociali che vengono proposti dalla sinistra, quando si tratti di provvedimenti di grande importanza.

Che cosa potete ottenere attraverso le vostre reiterate serenate all’onorevole Nenni, in questa situazione? Questo magnifico risultato: dare all’onorevole Nenni la possibilità di: 1°) non rompere con i comunisti; 2°) restare all’opposizione e votarvi contro, come ha detto anche oggi; 3°) entrare però a far parte della maggioranza e quindi poter dichiarare all’opinione pubblica di essere contro il Governo e nello stesso tempo di essere necessario al Governo per varare quelle uniche leggi di riforma sociale che i socialisti e i comunisti presenterebbero alla pubblica opinione non come le vostre conquiste, ma come le loro conquiste.

Ma sembra che gli dareste fra le mani una carta più grossa di quella che, ingenuamente, per molti anni avete messo fra le mani dell’onorevole Saragat. Mi auguro che l’equivoco sia stato chiarito. Ad ogni modo credo di aver compiuto il dovere di chiarirvi molto nettamente la nostra posizione al riguardo.

Per avviarmi alla conclusione, voglio soffermarmi su un argomento che concerne anche i vostri rapporti con i socialisti in particolare e con le sinistre in genere: la politica estera. Ne parlerò brevissimamente, anche perché ne ha parlato con grande competenza l’onorevole Cantalupo.

Devo semplicemente limitarmi a rilevare che si fa confusione, che è spesso insidiosa confusione, tra distensione e distensionismo.

Quanto alla distensione, cioè alla speranza di assicurare la pace al nostro paese, all’Europa e al mondo, io penso che siamo tutti d’accordo. Quanto al distensionismo, non solo è un’altra cosa, ma è l’opposto.

Il distensionismo non porta alla distensione; porta alla smobilitazione: smobilitazione degli animi prima, delle alleanze poi, delle forze militari infine, nei confronti della Russia sovietica. In una situazione tutt’altro che chiara, non è sinonimo di volontà di pace, soltanto di velleitarismo e di irresponsabilità in politica estera. Su questo punto noi siamo molto chiari e riteniamo di poter dire queste cose con le carte in regola proprio per l’atteggiamento che abbiamo tenuto sempre in merito ai grandi problemi di politica estera.

Mi associo in questo a quanto è stato detto molto efficacemente, eloquentemente e con parole commosse, dall’onorevole Cantalupo. Devo dire che il Movimento sociale italiano non può affermare di essersi sempre trovato su determinate posizioni d’accordo con voi in politica estera.

Siamo stati in grave dissenso. Al tempo del Patto atlantico abbiamo combattuto una dura battaglia contro la vostra impostazione di allora. Perché? Perché avevamo la sensazione (e i fatti che seguirono non ci hanno dato torto) che si entrasse nel Patto atlantico per la porta di servizio. Cioè avevamo la preoccupazione in senso opposto a quella dell’estrema sinistra, temevamo che lo strumento fosse poco efficace, che la garanzia fosse scarsa, che si trattasse non di un’alleanza ma di una soggezione, e volevamo uno strumento organico di difesa dell’occidente cattolico e anticomunista. Tanto è vero che quando lo strumento, nella dinamica della politica internazionale, è stato adottato e quando in questa Camera sono venuti in discussione gli accordi per l’U.E.O., il Parlamento, la nazione italiana e il partito di maggioranza hanno trovato nei deputati e nei senatori del Movimento sociale uomini che si sono fermamente battuti per la causa della difesa occidentale, della civiltà cattolica, dell’Europa contro la minaccia comunista.

D’altra parte nessuno fra i componenti dell’attuale Governo da questo punto di vista ci conosce meglio dell’attuale e antico ministro degli Esteri, il quale sa quale fu il nostro atteggiamento nei confronti della sua politica ai tempi del non dimenticato discorso in Campidoglio del settembre del 1953 quel discorso con la sua impostazione realistica è costato allora assai caro all’onorevole Pella da parte della Democrazia cristiana, da parte dell’attuale segretario del suo partito, ma in quella occasione l’atteggiamento del Movimento sociale è stato inequivoco. Ed allora il Presidente del Consiglio parlo dell’attuale ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio ce ne ha dato atto, ci ha dato atto del disinteresse col quale ci eravamo comportati.

Concludendo, onorevole Zoli, devo io parlare della penosa vicenda delle formulette che sono state escogitate qui e fuori di qui a proposito dei nostri voti in Senato? «Non richiesti», «non graditi», ha detto il presidente del vostro gruppo senatoriale.”

ZOLI: “«Sgraditi» ha detto. “

ALMIRANTE: “L’onorevole Ceschi ha detto «sgraditi». Invece il segretario della Democrazia cristiana ha detto oggi «non richiesti e non graditi ».

È stato molto duro con noi. Quando si trattava del Governo da lui presieduto, sempre a nome della Democrazia cristiana, egli era più garbato con noi. Chiesti, non richiesti? Potrei parlare in proposito della situazione di allora e della situazione di oggi. Graditi, non graditi? Allora erano molto graditi, e siamo stati deplorati per non averli dati: ci è stato detto che avevamo perso l’autobus ed altre cose. Graditi

e non graditi adesso? Mi esprimo più realisticamente e garbatamente di voi: perché, onorevole Zoli, se dovessi dare ascolto all’animo mio, di fronte ad espressioni di questo genere, legittimamente insorgerei, perché vi sono reazioni di dignità che sono legittime anche in Parlamento; ma anche senza dare ascolto a legittime reazioni, le dico che immaginavo che il segretario della Democrazia cristiana usasse un linguaggio più responsabile. Soprattutto perché egli è stato messo in penosa contraddizione con se stesso, in quanto ha dichiarato, dopo la votazione al Senato, che i nostri voti non erano necessari, ma poi ha dovuto riconoscere che in questo momento la situazione è diversa. Egli lo sapeva prima. Io credo che il segretario della Democrazia cristiana sappia che il Parlamento italiano si compone di due rami: della Camera e del Senato, in cui le votazioni sulla fiducia avvengono con sistemi diversi, in cui la composizione dei gruppi è differente. Penso che il segretario della Democrazia cristiana si renda conto che il voto di fiducia e quindi la vita di questo Governo non sono da considerarsi perfetti se non quando anche la Camera avrà votato. Credo perciò che sia stato imprudente. Ma ancora più imprudente e contraddittorio è stato oggi quando, dopo aver detto che i nostri voti non sarebbero graditi, ha immediatamente soggiunto che il Governo minoritario deve andare in cerca di voti. Dopo di che è andato a cercare voti, e ha trovato una porta sbarrata dall’onorevole Nenni. Non so dove il segretario della Democrazia cristiana possa andare a cercare voti graditi. Penso che egli abbia delle ambizioni eccessive in questo momento, e ritengo che egli dovrà modificare il linguaggio, le sue ambizioni, il tono, oppure, se egli continua a usare un tono di questo genere e a nutrire ambizioni così spavalde in momenti tanto difficili per noi ma anche per voi che non siete ancora nati come Governo, penso che il segretario della Democrazia cristiana, insieme a tutti voi, dovrà cercare diverse, meno comode soluzioni e probabilmente a sentire quanto l’onorevole Nenni ha oggi annunciato e minacciato soluzioni più pericolose.

Noi abbiamo fatto il nostro dovere, non per calcolo. Abbiamo fatto il nostro dovere e continueremo a farlo, siamo decisi a farlo. Ma riteniamo che se altri, come certamente lei, signor Presidente del Consiglio, e come certamente il segretario della Democrazia cristiana, vorranno fare davvero il loro dovere, debbano, prima di tutto, rendersi conto realisticamente di una situazione che non consente licenze, non poetiche ma prosaiche, quali quelle che ancora oggi abbiamo, con disappunto, sentito risuonare in questa aula.”

Seduta del 14 luglio 1949

La ratifica del Patto Atlantico

La ratifica del Patto Atlantico è un «avvenimento» anche per il Msi, è un pezzo di storia. Nell’immediato secondo dopoguerra il dibattito è acceso come non mai, il Msi si fa interprete delle «gravi responsabilità» che comporta la ratifica del Patto stesso; e Almirante chiede la sospensione della discussione con un ordine del giorno nel quale si sostiene che «nessun motivo di particolare urgenza giustifica la ratifica italiana del Patto, prima che esso venga ratificato dagli Stati Uniti d’America». Il documento invita anche la Camera a riflettere su come «possa essere fortemente pregiudizievole al nostro Paese il ratificare un Patto sul quale non si sono ancora in via definitiva e in modo formale pronunciati coloro che ne furono i promotori e che ne sono gli unici effettivi garanti». Ecco come Almirante, allora segretario del Msi, motiva la posizione missino.

ALMIRANTE: “Questa nostra iniziativa è connessa con altra precedente che l’onorevole Ambrosini lo sa fu presa in sede di Commissione degli esteri dall’onorevole Russo Perez a nome del Movimento sociale italiano. È con qualche impaccio personale che prendo la parola su questa precisa proposta, dopo che analoga proposta è stata avanzata dal settore opposto. Dovrei avanzare le stesse preoccupazioni, che avanzò ieri, respingendole subito, l’onorevole Togliatti, il quale disse che non si preoccupava se in qualche occasione i suoi voti coincidevano con i nostri, perché i nostri sono pochi voti. Egli è il capo di un partito di massa, ragiona come capo di un partito di massa, fa considerazioni di quantità; io non sono il capo di un partito di massa, voglio considerarmi il capo di un partito d’ avanguardia e faccio considerazioni di qualità. Rispondo perciò all’onorevole Togliatti che i suoi molti voti non ci preoccupano, perché conosciamo la loro qualità. “

MATTEUCCI: “La sua è buona qualità! “

ALMIRANTE: “E si può anche rilevare che, trovandomi in questa particolare situazione politica, che potrebbe giustificare il solito slogan, di cui la maggioranza fa uso largo e facile: «collusione fra comunisti e Movimento sociale», mi converrebbe forse rinunziare a prendere la parola in simile circostanza. In verità, onorevoli colleghi, nel prendere la parola, più che impaccio o imbarazzo politico, sento in me una specie di ripugnanza morale, perché ancora una volta ci è toccato sentire in questa Assemblea i temi nazionali (le colonie, Trieste) usurpati e profanati da coloro che siedono in quel settore.

Vi prego, onorevoli colleghi della maggioranza, di accettare questa mia ripugnanza e questa angoscia come qualcosa che travaglia noi tutti. Se vogliamo strappare a costoro la falsa etichetta tricolore, bisogna avere il coraggio di sventolare il tricolore dentro e fuori di qui. “

PAJETTA GIAN CARLO: “Con la croce uncinata. “

ALMIRANTE: “Coloro che ragionano e sentono in buona fede non possono confondere noi con loro. “

PAJETTA GIAN CARLO: “Trieste non ha fatto parte nemmeno della Repubblica di Salò quando il vostro gruppo l’ ha vivamente regalata ai tedeschi. Risponda su questo! “

ALMIRANTE: “A questo linguaggio io non mi adeguo ed evito a me stesso la vergogna di pronunziare apprezzamenti su quello che è stato detto. Replico soltanto che i triestini hanno già risposto in modo adeguato al Partito comunista.

E vengo all’argomento. Il mio ordine del giorno è molto chiaro. Noi chiediamo che la discussione sia rinviata, perché il Patto Atlantico non è stato ancora ratificato dagli Stati Uniti d’America. Sarò costretto a servirmi di argomentazioni in verità banali; non credo che sia colpa mia, ma della situazione che si è determinata.

Nella stessa relazione di maggioranza si fa una constatazione ovvia: la formazione del Patto del Nord Atlantico si deve principalmente agli Stati Uniti d’America; essi ne sono stati i maggiori artefici e si sono assunti gli oneri economici e militari più gravi connessi con la sua attuazione.

Ed allora due semplicissime constatazioni: 1°) gli Stati Uniti non sono dei contraenti qualsiasi del Patto Atlantico; essi ne sono gli autori e gli unici effettivi garanti. 2°) Il Patto Atlantico, comunque lo si giudichi, da amici o da avversari, in tanto ha un valore effettivo e in tanto serve a qualcosa, in quanto abbiano una funzione effettiva, esistano e siano approvati i provvedimenti di carattere militare ed economico che soltanto gli Stati Uniti d’America possono adottare.

Qual’è la situazione? L’abbiamo seguita su tutti i giornali governativi o comunque largamente favorevoli alla ratifica del Patto Atlantico. Che cosa hanno detto questi giornali? Che si è determinata nel Senato americano ed in genere nella opinione pubblica statunitense una certa perplessità che prima della conferenza di Parigi non esisteva intorno al Patto Atlantico; che comunque questa perplessità non pare tale da mettere in grave pericolo la ratifica, ma che in ogni modo in grave pericolo è l’approvazione dei piani militari ed economici connessi alla ratifica del Patto Atlantico. Inoltre la stampa ci ha detto che vi è la possibilità da parte del Senato americano, dell’approvazione di qualche clausola modificativa del patto, soprattutto per quanto concerne i poteri del presidente degli Stati Uniti e l’automatismo del Patto medesimo.

Desidero leggervi qualche stralcio di giornali favorevoli alla ratifica del Patto, non per dimostrarvi cose che già sapete, ma per ricordarvi che queste mie dichiarazioni sono assolutamente obiettive e facilmente documentabili. Si legge su Il Tempo del 6 luglio: «Dal modo come si svolgerà la discussione sul Patto Atlantico, si deciderà in America se insistere ancora per far passare in questa sessione anche il programma del riarmo europeo». Quindi si mette in gravissimo dubbio la possibilità che il piano di riarmo passi.

Ancora nello stesso giornale: «L’ostacolo principale è sempre quello che, approvando il Patto, si impegna automaticamente la nazione americana a pagare le spese per il riarmo delle nazioni europee». Ed ancora: «I senatori, ormai convinti nella grande maggioranza della necessità di ratificare il Patto, esitano ancora se approvarlo senza introdurvi qualche clausola che limiti i poteri del presidente e riconfermi il diritto esclusivo del Congresso di dichiarare la guerra. Un altro ostacolo è poi rappresentato dall’opinione che il Patto sia ormai inutile dal momento che la Russia è stata fermata in Germania». Mi permetto di osservare che questa opinione è alquanto illusoria, ma l’apprezzamento non è mio.

Ed ancora: «È stato un grave errore non aver ratificato il Patto prima della conferenza di Parigi, errore da parte del Dipartimento di Stato americano». Un’altra citazione, dello stesso giornale: «Si parla del pericolo che la ratifica del Patto possa venir compromessa. Tale pericolo era seriamente aumentato negli ultimi giorni in conseguenza dell’ostilità della opposizione repubblicana e di una parte dei senatori democratici degli Stati del sud contro la politica interna ed estera del presidente».

Posso citarvi anche un giornale americano, il New York Times, del 9 luglio, che parla anch’esso di una forte opposizione repubblicana alla ratifica del patto e del pericolo che questa forte opposizione determini qualche squilibrio nella votazione del Senato.

Comunque è lungi da me l’idea o l’intenzione di voler forzare questa interpretazione, di voler far credere a qualcuno che la ratifica del Patto da parte del Senato americano possa correre serio pericolo. Vi prego però di riflettere ancora una volta su quanto dicevo prima. La ratifica del patto, se avvenisse indipendentemente dal-

l’approvazione del piano economico e militare connesso col Patto stesso, avrebbe un determinato valore; se invece avvenisse in connessione con il piano economico-militare avrebbe un altro valore, e questa differenza di valore esiste, tanto per coloro che al Patto sono favorevoli quanto per coloro che al Patto sono contrari. Anzi debbo dire di più: queste perplessità debbono proprio sentirle coloro che al Patto sono favorevoli, proprio coloro che ritengono necessario che il Patto funzioni in tutta la sua portata, che non è una portata cartacea o una portata politica soltanto, ma è chiaramente e ostensibilmente una portata economico-militare.

In sostanza ci troviamo di fronte ad un atto politico di enorme importanza senza poterne valutare obiettivamente e coscienziosamente tutti gli elementi. Mi si farà una facile obiezione, e cioè che la discussione del patto al Senato americano è già in corso e che si attende la ratifica domani o dopodomani e quindi durante la nostra discussione si potranno avere notizie precise in merito alla ratifica o alla non ratifica. Potrei fare, allora, una controbiezione altrettanto facile, e cioè che per iniziare la nostra discussione è opportuno e necessario avere già in mano elementi di giudizio definitivo. E d’altra parte non è tanto la ratifica stessa, quanto l’insieme della politica nord americana, che noi dobbiamo valutare.

È questo un momento politico assai delicato, anche senza arrivare agli allarmismi dell’estrema sinistra e non si possono ancora prevedere i risultati finali. Si può dedurre ciò dalla lettura di tutti i giornali. E allora perché l’Italia deve imbarcarsi in questa avventura ad occhi chiusi? Perché noi dobbiamo rifiutare di valutare la situazione nell’interesse del paese? Una soluzione affrettata può forse essere interesse del Governo. Ma sulla politica estera in questi giorni si sono avvertite talune perplessità anche in seno alla maggioranza. I giornali hanno pubblicato che un certo numero di deputati democristiani hanno fatto opposizione alla politica estera in seno al loro gruppo. Probabilmente quei deputati non prenderanno la parola in questa discussione, o se la prenderanno lo faranno per approvare la ratifica senz’altro. Ma è indubbio che perplessità vi siano qui e fuori di qui.

Ora, per quali ragioni ripeto il paese deve trovarsi ancora una volta di fronte a non sufficientemente meditate decisioni? Perché ancora una volta dobbiamo dare l’impressione di votare a «scatola chiusa»? Ragioniamo ampiamente e serenamente, ciascuno dal suo punto di vista, ma ciascuno con illuminata coscienza, intorno ad un problema di tanta gravità! Ecco perché, onorevoli colleghi, vi invito ad accogliere la nostra proposta di sospensiva: essa, lo posso dire, è stata meditata con piena coscienza, come tutte le proposte che provengono da questo settore della Camera, piccolo di numero, ma nello spirito impavido; essa è dettata veramente da una visione chiara e onesta del supremo interesse del nostro paese.”

Seduta del 7 novembre 1950

Sovranità piena dell’Italia

Il Patto Atlantico torna alla Camera dei Deputati per la presentazione di mozioni ad esso collegate. Almirante interviene anche in questa occasione e pronuncia un discorso teso a rivendicare i diritti dell’Italia nel contesto internazionale insieme con «la vigile e concorde difesa della nostra indipendenza e della nostra pace». È un discorso che punta sulla costruzione dell’Europa e sul ruolo italiano nella crescita del vecchio continente, in un momento storico in cui è fortissima l’influenza dei blocchi dell’Est e dell’Ovest. È un richiamo alla coscienza nazionale

ALMIRANTE: “Onorevoli colleghi, signori del Governo, un giornalista (evidentemente assai bene informato!) ha scritto nei giorni scorsi, preannunciando questo mio intervento, che, pur muovendo da premesse diversissime da quelle dell’onorevole Nenni, io sarei giunto presso a poco alle medesime conclusioni.

Devo smentire il giornalista, perché la tesi che io sosterrò dinanzi a voi consiste esattamente nel rovesciamento di quella espressa nella mozione Nenni.

Nella mozione Nenni è scritto che l’esercito unico atlantico menoma la nostra sovranità nazionale. La nostra tesi è che la menomazione, già in atto, della nostra sovranità nazionale non ci consente, sul piano politico e sul piano militare, una adeguata difesa dei diritti e della indipendenza del nostro paese. La nostra tesi è ancora, per quanto riguarda i riflessi interni, il retrofronte (che purtroppo è diventato non meno importante del fronte), che finché nel retrofronte continua a sussistere un vero e proprio diktat nei riguardi di una parte del paese, resta in piedi una situazione di ineguaglianza morale, di ineguaglianza giuridica che non può non avere gravi ripercussioni sull’efficienza del paese intero.

Quando noi sosteniamo che la Repubblica italiana non gode oggi pieni diritti di sovranità, molti fra i nostri avversari politici si stupiscono, arricciano il naso. Infatti, i più sono soliti interpretare il concetto di sovranità su un piano esclusivamente formale. Dal punto di vista formale non vi ha dubbio che l’Italia è oggi un paese sovrano. Ma a noi questa sovranità formale, della quale molti si preoccupano (di solito le sinistre stesse, perché ad esse è piuttosto incomodo scendere sul piano che consente troppo facili, troppo ovvii, troppo banali, ma stringenti raffronti della sovranità sostanziale), a noi, dicevo, questa sovranità formale interessa assai poco; ci interessa molto la sovranità sostanziale, a proposito della quale noi non possiamo non ribadire, in questa occasione, un concetto che molte volte abbiamo espresso qui dentro, vale a dire che tale sovranità sostanziale è venuta meno nel momento stesso in cui in quest’aula è stato ratificato un trattato di pace che non era e non è un trattato di pace, ma un vero e proprio diktat. Esiste, è in atto un conflitto mortale fra la sovranità italiana e il trattato di pace che è stato imposto all’Italia; esiste, è in atto un conflitto ugualmente mortale, anche se in apparenza talora meno drammatico, fra il diktat, che continua a gravare sul nostro paese, e la politica cosiddetta atlantica e qualsiasi politica di alleanze che il nostro paese possa contrarre e condurre.

Molte volte, per mettere in rilievo i progressi che il nostro paese avrebbe fatto nell’ambito internazionale, si è posto e si pone l’accento sull’importanza della nostra ammissione nella comunità dei paesi liberi. Noi non neghiamo tale importanza, anzi proprio noi abbiamo posto in rilievo che l’unica clausola favorevole del trattato di pace, cioè il nostro diritto di essere presenti all’ONU, non è stata realizzata per colpa altrui. Ma più importante, più sostanziale che l’ ammissione, è la funzione che un popolo può esercitare in una comunità internazionale. Ed è su questa che bisogna porre l’accento.

Voi sapete, onorevoli colleghi, che non da oggi, come dicevo, noi stiamo sostenendo qui dentro e fuori di qui questa tesi.

Non è inutile credo che io richiami le occasioni più importanti, più solenni nelle quali l’abbiamo sostenuta, perché esse si collegano agli indirizzi della nostra concezione in politica estera, e, purtroppo, anche a tappe non felici della politica estera del Governo.

Nel 1948, all’inizio della legislatura, proprio la prima volta che avemmo occasione di intervenire qui dentro in materia di politica generale, noi reclamammo dal Governo, per quel che concerneva la politica estera, una impostazione revisionistica nei confronti del trattato di pace. Ci fu risposto dal Presidente del Consiglio con la formula della revisione elastica: formula fino allora inedita, e che ci apparve piuttosto strana, ambigua, curiosa. Quella formula, lì per lì, sembrò placare molte apprensioni. Ci accorgemmo poi, strada facendo, che l’importante non era tanto che la revisione fosse «elastica», ma che qualcuno, nell’interesse del nostro paese, tirasse l’elastico. Questo non è avvenuto; e non vi è da meravigliarsi se pochi giorni or sono l’ambasciatore americano in Italia ha dichiarato che non si pone il problema della revisione di alcune clausole (egli alludeva, evidentemente, alle clausole militari) del trattato di pace con l’Italia.

Il problema non si pone perché nessuno lo pone, perché non lo pongono coloro che avrebbero il diritto e il dovere di porlo.

Una seconda volta impostammo questo problema quando il Governo chiese alla Camera l’autorizzazione a trattare la sua entrata nel Patto atlantico. Allora presentammo un ordine del giorno nel quale si chiedeva che il Governo impostasse trattative per ottenere una revisione del trattato di pace, e particolarmente di quelle clausole militari, di quelle clausole politiche e di quelle clausole morali che erano in insanabile contrasto non tanto e non soltanto con quella alleanza, ma con qualsiasi politica di alleanze, in qualunque senso.

Ci fu risposto allora personalmente dal Presidente del Consiglio che una simile richiesta, in quel momento, non sarebbe stata operante; e, in verità, nessuna richiesta in tal senso fu fatta, a quanto ci risulta, dal nostro Governo.

Finalmente, in una più recente circostanza, quando una volta tanto sembrò che tutti i settori della Camera fossero unanimi (si trattava di Trieste, si trattava del cosiddetto territorio libero, si trattava di difendere, almeno a parole, i diritti del nostro popolo in una delle zone maggiormente doloranti e colpite), in questa ultima circostanza andammo oltre e chiedemmo ci sembrava giusto chiederlo la denuncia del trattato di pace. Il Governo, per bocca del ministro degli Esteri, ci rispose con un «forse» appena modulato, seguito da tanti puntini di sospensione. È passato del tempo, il «forse» è stato cancellato dagli avvenimenti, poi sono stati cancellati anche i puntini di sospensione. Siamo ritornati così al punto fermo. Tanto è vero che il ministro della Difesa, onorevole Pacciardi, ha dichiarato pochi giorni or sono ad una agenzia americana, se non erro, che il nostro Governo sarebbe stato molto contento di vedere l’esercito di Tito entrare nell’alleanza militare atlantica, purché egli ha detto si risolvesse il problema di Trieste.

A questo riguardo, io ebbi già a dire che chiunque pensasse che gli eserciti di Tito possano mai marciare da occidente verso oriente, commetterebbe un tragico errore, perché gli eserciti di Tito, gli eserciti jugoslavi, gli eserciti slavi marcerebbero sempre (è una forza naturale, che va oltre qualunque contingenza politica, qualunque accordo, qualunque patto) da oriente verso occidente. La loro mèta è quella.

Ricordo, e credo non sia una indiscrezione il ricordarlo, che il ministro degli Esteri assentì ripetutamente quando così mi esprimevo. Ora il ministro della Difesa sembra si sia dimenticato di tutto questo, e si sia espresso con molta leggerezza intorno ad un problema che non è soltanto un problema di Governo ed un problema politico, ma una questione vitale che concerne la carne e il sangue del popolo italiano.

Debbo aggiungere e del resto è evidente che non soltanto noi abbiamo agitato più volte questo problema: è un problema che in generale l’opinione pubblica sente profondamente; è uno dei pochi problemi in merito ai quali l’opinione pubblica italiana si è mostrata sensibile. A parte i riflessi generici della opinione pubblica, ho dinanzi a me il titolo con il quale un giornale, abbastanza vicino al Governo, tanto da essere considerato da taluni addirittura come ufficioso Il Giornale d’Italia

si esprimeva pochi giorni or sono; un titolo su parecchie colonne, drammatico: «L’Italia è con le mani legate il diktat vieta la costruzione di navi da guerra, di cannoni e di mortai che il Comitato della difesa voleva affidare alle maestranze italiane». E per citare una testimonianza ancora più diretta ed autorevole, il Presidente del Consiglio, nella seduta del Senato del 3 maggio, ebbe a dichiarare: «Il Patto atlantico non avrebbe senso se il principio di libertà e di democrazia che esso si impegna a difendere contro eventuali attacchi esterni, non ispirasse anche ogni valutazione di rapporti tra le nazioni stesse». Non ho che da riprendere questo concetto, senza togliergli una virgola, senza mutar nulla, e chiedere alla sensibilità del Presidente del Consiglio, alla coscienza responsabile di questo Parlamento se l’Italia sia oggi in una siffatta situazione, e se quindi l’alleanza alla quale noi siamo impegnati abbia un senso, e quale senso possa avere l’alleanza fra chi libero è e chi libero non è, fra chi sovrano è e chi non lo è, l’alleanza fra chi comanda e chi obbedisce. Tali alleanze hanno un nome nella storia ed una funzione, che non è certamente quella che il Presidente del Consiglio auspicò al Senato.

Debbo inoltre far rilevare che questa nostra impostazione non è, come parecchie volte è stato detto polemicamente, un’, astratta e generica impostazione, una impostazione da utopisti, da sognatori: i soliti ragazzi del MSI che hanno il torcicollo e guardano all’indietro. No, qui si tratta esattamente del contrario; si tratta di una impostazione realistica, concreta, aderente ai fatti; ed è facilissimo dimostrarlo. È facile dimostrarlo per quanto concerne la interpretazione politico-militare che si deve dare al trattato di pace imposto all’Italia ed al suo permanere in vigore. Ricordate le caparbie (sembrarono assurde) insistenze della Francia per quelle tali piccole rettifiche sui nostri confini occidentali; avete presenti perché sono più recenti, e sono purtroppo continue le amnesie britanniche relativamente al nostro problema orientale, al trattamento fatto all’Italia sui confini orientali. Collegate questi atteggiamenti, e ne avrete una sola spiegazione, una sola interpretazione della funzione strategica del trattato di pace imposto all’Italia. Il trattato di pace è stato imposto all’Italia presupponendosi la Valle padana indifesa e indifendibile, presuponendosi l’Italia terra di nessuno. È questa la impostazione dalla quale partirono, imponendocela; e finché il trattato di pace resta in vigore è questa la impostazione dalla quale partono, alla quale restano ancorati coloro stessi che ci chiedono di difendere l’Europa, la civiltà e tanti altri purtroppo molte volte astratti e generici concetti.

E il presupposto politico? Pensate alla storia dolorosa delle trattative, cosiddette tali, che condussero al trattato di pace; pensate soprattutto alla storia di questi anni, al trattamento inflittoci non soltanto in problemi di grande importanza, ma anche in problemi d’ importanza veramente trascurabile.

Abbiamo esempi di questi giorni: il vero e proprio reato di appropriazione indebita, di spoliazione, che è stato commesso nei confronti degli italiani di Libia, dei meravigliosi coloni italiani di Libia. Vi sembra forse che ciò faccia parte di una politica, non dirò di alleanza, non dirò di amicizia, non dirò di buon vicinato, non dirò neppure di reciproco rispetto, ma di una politica accettabile da parte di un paese sovrano? Questa è la politica che si può condurre solo nei confronti di sudditi.

Questo è solo un esempio; vi sono gli esempi di Eritrea, che, forse, sono ancora più dolorosi; e ve ne sono tanti altri. Non vi sono, purtroppo, gli esempi in contrario: non vi sono purtroppo, in questi anni di alleanza, di amicizia e di dolci paroline, esempi di gesti concreti, anche piccoli, compiuti per dimostrare tangibilmente che l’alleanza non è una vuota formula, che l’amicizia non è una vana parola; non vi sono. Vi è una serie di menomazioni dei nostri diritti e della nostra dignità; e non in quanto questo è grave il nostro paese abbia condotto o tentato di condurre una politica di dignità, una politica di prestigio Dio ne guardi! o una politica di forza per carità! Ma siete stati buoni, gentili, educati, democratici: avete incassato «le sculacciate di Ernestino» e tante altre ingiurie veramente con una serenità e con un candore, che molti vi hanno invidiato in ogni parte del mondo.

Mai si è visto un Governo e, credo, un ministro degli Esteri così docile nei confronti di certi arroganti atteggiamenti altrui. Non so se questo sia un merito o un demerito. Giudichi lei, onorevole Sforza, come vuole; giudichi il paese. Comunque, è un dato di fatto: e i risultati sono quelli che sono.

Tali risultati interferiscono direttamente anche sul problema del quale ci stiamo occupando. Leggevo l’altro ieri sui giornali un comunicato che, se esatto, non può non preoccupare il Governo italiano e l’opinione pubblica italiana; leggevo che il ministro francese Petsche ha annunziato che alla Francia è stato già assegnato il 50 per cento della somma messa a disposizione dagli Stati Uniti per aiuti straordinari P.A.M. e che, essendoci le quote già riservate per l’Inghilterra e per gli altri paesi, non si sa (concludeva l’informazione apparsa su un giornale di parte governativa), quello che possa restare all’Italia.

È una situazione che non può non preoccupare, perché noi non siamo qui dentro, come altri sono qui dentro, per fare il giuoco in fin dei conti, a lungo andare, sciocco e inutile del rimbalzello delle responsabilità; siamo qui per esaminare, dal nostro punto di vista, che voi non condividete affatto, ma che è punto di vista italiano… (Interruzione del ministro Lombardo). Onorevole ministro, non sia scettico, perché potrebbe avere, come ha già avuto o avrebbe dovuto avere, dure delusioni da amici e collaboratori che ella riteneva italiani. È alla prova del fuoco che si vedono gli uomini. Attenzione! Certe strade sapete dove conducono, ed avreste dovuto pentirvi sufficientemente. “

LOMBARDO (Ministro del commercio con l’estero). “Alle «S.S.». “

ALMIRANTE: “Di fronte a tali preoccupazioni concrete, obiettive, l’onorevole Presidente del Consiglio va da tempo ripetendo il suo motto, che non è privo di efficacia: «Guai ai soli!». Lo ha detto anche recentemente. D’accordo: «Guai ai soli!». Ma, onorevole Presidente del Consiglio ed onorevole Sforza, se a seguito della vostra politica finissimo per trovarci proprio soli sullo scacchiere europeo, se questa vostra politica atlantica (un po’ troppo atlantica, un po’ troppo decentrata) finisse, come da qualche indizio si potrebbe non dico credere ma temere, per isolarvi proprio in Europa?

Degli atteggiamenti francesi si è parlato molto qui dentro. Se ne è parlato ultimamente qualche mese fa, quando erano atteggiamenti giornalistici, accademici. Disse, infatti, allora l’onorevole ministro degli Esteri: cose senza importanza, manifestazioni di intellettuali che non hanno capito nulla. Oggi l’onorevole Nenni ci ha spiegato che hanno capito tutto soltanto i russi ed i loro amici e che gli altri non hanno capito niente.

Ma a parte l’aver capito o meno, è un dato di fatto che determinati fenomeni, che qualche mese fa erano soltanto serpeggianti in certi settori non bene identificati dell’opinione pubblica europea, tanto che l’onorevole ministro degli Esteri poté dire allora che in Francia erano soltanto certi ambienti «petainisti» a sostenere tesi neu-traliste, oggi non sono più fenomeni isolati ma orientamenti che pesano a tal punto nelle decisioni governative da mettere in mora come è accaduto nella recente conferenza di New York il meccanismo del Patto atlantico.

Anche l’Inghilterra, sebbene qui dentro si cerchi di rappezzare il rappezzabile, solleva delle riserve di carattere sostanziale e non formale. Le ha sollevate in un altro settore, e precisamente in merito alla prospettata e progettata unione europea; ma le ha sollevate, le mantiene, le consolida. E, quando pensate che il ministro inglese Dalton qualche giorno fa, coerentemente a quello che è stato il costante indirizzo del suo popolo, comunque sia stato rappresentato, ha dichiarato: «Prima di essere socialisti noi siamo inglesi», voi avete non dico un indizio ma la certezza (e questo

lo sanno coloro che si occupano sia pure superficialmente di politica estera) che trattando con l’Inghilterra bisogna tenere a priori presente questo permanente orientamento nazionalistico dei suoi uomini politici responsabili.

Si dice: ma per un importantissimo settore europeo la Germania vi è stato

il recente viaggio del ministro segretario del partito, che si è recato a Bonn (purtroppo non a Berlino, per adesso) per ricostituire l’«asse» Roma-Berlino. Notizie di tal genere capirete mi riempiono di legittima commozione. Non mi allarmo, come altri settori, non vedo fantasmi; vedo soltanto la storia che cammina, malgrado tutto, malgrado tutti gli errori e tutte le malvagità comunque commesse. La storia cammina, ed i popoli vanno per la loro strada. Non mi allarmo affatto, ma attraverso il testo ufficiale della intervista concessa dal Presidente del Consiglio germanico Adenauer al segretario del partito democristiano, onorevole Gonella, rilevo questa tipica frase di Adenauer, che potrebbe rappresentare il suo biglietto da visita: «La Germania, ricevuti uguali diritti, è pronta ad assumersi doveri uguali a quelli degli altri Stati».

Si è speculato, anche in quest’aula, su una presunta grande divergenza di vedute in Germania in merito alla politica estera tra Adenauer a Schumacher, fra il settore democristiano ed il settore socialdemocratico. Rilevava un giornale del pomeriggio, bene informato, che tale divergenza è più apparente che reale.

Andando al fondo si trovano le stesse impostazioni, che sono impostazioni ger-maniche, nazionali, come guarda caso in Inghilterra, come in Francia. Tanto è vero che Schumacher ha dichiarato: «La patria tedesca non deve venire offerta in

sacrificio per altri paesi». È una affermazione più dura, più drastica, ma il contenuto sostanziale, il tema politico è identico a quello della dichiarazione del presidente Adenauer.

E il generale Guderian un altro spettro che spaventa qualcuno; ma non vi spaventate: è il valore tedesco, un valore concreto, un fattore permanente della storia europea che non si può cancellare, che si può cercare di orientare, ma non cancellare o ignorare e il generale Guderian ha dichiarato: «Nessun tedesco accetterà mai di servire come mercenario!». Questa è in Germania la traduzione militare e morale delle altre due espressioni, e ancora una volta siamo sullo stesso tema politico. In proposito vi citerò brevemente alcuni giornali che appartengono a varie correnti. Il giornale Hamburger Freie Presse, indipendente, scrive: «Non si tratta di un problema militare, ma politico, dal quale si possono dedurre conseguenze militari. Sul piano politico si pongono tre problemi: primo, sovranità tedesca; secondo, uguaglianza tedesca; terzo, sicurezza tedesca. Senza sovranità tedesca non può esistere un esercito tedesco; senza uguaglianza tedesca non può esservi partecipazione della Germania all’internazionalizzazione del continente; senza garanzia di sicurezza la Germania non potrebbe assumere la difesa della Europa occidentale».

Un altro giornale germanico, e questo di parte liberale, la Deutsche Zeitung, scrive: «La Repubblica federale tedesca non è una colonia, né un terreno per manovre delle potenze occupanti…».

Un altro giornale, l’ A achener Volkszeitung, scrive: «Il problema della partecipazione tedesca ad un esercito europeo non dovrebbe venire discusso se non dopo la riabilitazione di fronte alla nazione e al mondo dell’onore e dei diritti del soldato tedesco». E la rivista Kòlnische Rundschau scrive: «La sicurezza prima di tutto, dichiarò un giorno un uomo di Stato britannico. Europa prima di tutto, possono rispondere oggi i tedeschi!». Già, Europa prima di tutto, ma non quella artificiosa di Strasburgo, bensì l’Europa viva, l’Europa vivente, la Europa autentica degli europei che hanno fatto il loro dovere fino in fondo, che hanno creduto nell’Europa, che credono nell’Europa e che sono pronti a combattere per l’Europa, ma con le loro uniformi, non con divise mercenarie! Badate, non crediate che siano questi motivi astratti, generici, sogni, illusioni, utopie di giovani che rievocano il passato perché hanno sofferto.

C’è ben di più! Questo è un lievito morale europeo, è un lievito morale perché questa gente, quella che parla in Germania tale linguaggio, quella che parla in Francia nello stesso modo, quella che parla in Italia pure nello stesso modo, questa gente non ha da chiedere scuse a nessuno e non subisce complessi di inferiorità, ma rivendica l’onore di quello che ha fatto, perché lo ha compiuto in buona fede!

L’altro giorno, a Torino, il ministro Scelba che mi perdonerà se colgo qui l’occasione di straforo per fargli un po’ quel contraddittorio che democraticamente non ha ritenuto di concedere ha creduto di scoprire qualche cosa di scandaloso nei confronti della nefasta politica del nefasto regime, rilevando che il regime fasci-

sta fu il primo a riconoscere la Russia sovietica. E noi diciamo: rovesciamo un po’ questo argomento, e vedremo che i riconoscimenti sono sempre scambievoli: infatti la Russia sovietica riconobbe anch’essa il regime fascista. E non fu la sola a riconoscerlo, ad esaltarlo. Quanti furono! Questo è stato detto molto più autorevolmente già al Senato. Quanti! Proprio fra i puritani di Ellis Island, che ritennero comodo, conveniente, utile esaltare quel regime, come poi è stato comodo, conveniente, utile per essi condannarlo! Ora gli europei dei quali parlo io, complessi di inferiorità, ripeto, non ne hanno, perché non vedono la situazione come la può vedere il ministro Scelba, il quale, indubbiamente, durante i venti anni di regime, non era, come io credevo fosse, pacifico avvocato in quel di Roma; no, doveva essere all’altro mondo e non sapeva queste cose semplici, banali, che si rilevano anche dalle collezioni dei giornali, che tutti sanno.

Gli europei dei quali parlo io hanno vissuto, hanno sofferto quella realtà, altre realtà, e non è facile abbindolarli con argomenti comiziali, indegni di uomini di Governo.

Non è soltanto un lievito morale; è anche un lievito politico, è anche un orientamento politico, perché la gente della quale sto parlando non bada alle formule alle quali, a sue spese, ha imparato a non credere più ma guarda alla realtà, che sta esaminando spregiudicatamente. Per esempio, molti ci dicono: «Avete appreso qualcosa dalla lezione di Corea?». Credo che ce lo abbia detto anche in vari discorsi il Presidente del Consiglio. Noi rispondiamo: sì, abbiamo appreso qualcosa dalla lezione di Corea, abbiamo appreso diverse cose, a parte i risultati e le conclusioni intorno ai quali occorrerebbe esser molto prudenti. Intanto, abbiamo appreso che certi ambienti politici e non politici italiani sono caduti veramente in basso. Lo abbiamo appreso passando talvolta, verso l’ una del pomeriggio, accanto a qualche caffè con altoparlante, che trasmetteva il giornale radio: si formavano voi lo ricorderete: questo avveniva nei mesi estivi i capannelli intorno alla radio che trasmetteva. Vi erano i capannelli dei filoamericani che, quando le cose andavano bene per Mac Arthur, si gonfiavano e guardavano dall’alto in basso i capannelli dei filorussi: e vi era il capannello dei filorussi che, quando i coreani del nord vincevano, guardavano dall’alto in basso i filoamericani. Vi era poi qualche rapido e sdegnoso passante italiano che guardava gli uni e gli altri con un’aria di profonda, sì, di profonda pietà, perché gli uni e gli altri non si erano accorti di essere diventati scimmie, di non essere più uomini nell’istante in cui si comportavano da trionfatori verso altri italiani, per eventi così lontani dai nostri confini e dai nostri concreti interessi.

La lezione ci ha insegnato però cose più importanti: ci ha insegnato che le necessità strategiche, politiche, economiche sono l’unica determinante effettiva degli avvenimenti internazionali.

Si è detto: pensate, se l’Italia non avesse avuto il Patto atlantico, le sarebbe toccata la stessa sorte della Corea. Noi diciamo, molto più realisticamente: se anche la Corea avesse avuto dieci Patti atlantici, ma non avesse rappresentato per gli uni e per gli altri un interesse strategico così effettivo, un interesse politico così stringen-

te, oh, state certi che né gli uni avrebbero sprecato le loro forze per aggredire come si è detto né gli altri avrebbero sprecato le loro forze per liberare.

La storia ci ha insegnato in questi ultimi anni che si può rilevare ovunque l’assenza di ogni principio obiettivo e il trionfo del relativo. La storia è diventata una specie di dramma pirandelliano! E questa è anche la lezione della Corea, della quale bisogna tener conto.

Bisogna tenerne conto perché i fattori strategici, politici ed economici che hanno militato in pro dell’uno e dell’altro intervento in Corea, molto a maggior ragione militerebbero e militano in pro dell’uno e dell’altro intervento in Europa. Si tratta di fattori obiettivi, di fattori sostanziali: si tratta di storia, di geografia, di economia, di dati dai quali non si può prescindere, di dati dai quali non prescindono le grandi potenze mondiali nella loro lotta. Ed è in base a questi dati, in rapporto all’urto fra tali dati e tali interessi che si determinano gli eventi. Inoltre (non credo di insegnarvi proprio nulla di nuovo, assolutamente: ho semplicemente la modestissima presunzione di richiamare voi, me stesso se volete, tutti, a considerazioni le quali una volta tanto prescindano dalle solite parolone, dalle solite frasi fatte di libertà, di democrazia, di difesa della medesima, e ci conducano invece a toccare con mano quella che è la realtà dei nostri giorni, la realtà di sempre), la lezione della Corea ci ha anche richiamato alla mente, perché anche qui si tratta di una vecchia nozione, quella che è la prevalenza del fattore umano su qualunque campo di battaglia. Io ho letto recentemente qualche commento di critici militari, o così detti tali, i quali hanno l’aria di meravigliarsi perché ancora una volta si ripete quello che si è sempre ripetuto dalla guerra di Troia fino ai nostri giorni: vale a dire, al momento decisivo è l’uomo che determina il successo o l’insuccesso. E anche questa è una considerazione importante per quel che concerne i destini dell’Europa e i destini dell’Italia in particolare. Rifletteteci e cercate di trame tutte le conseguenze, tempestivamente.

E infine la lezione della Corea ci ha dato anche questo insegnamento tutt’altro che inedito: quale sia l’importanza fondamentale del retrofronte. È stato il ministro degli Esteri che qualche giorno fa ha dichiarato (spero se ne ricorderà nell’attuare la sua politica): «Non si tiene un territorio la cui popolazione non sia divenuta amica».

Sulla base di questi insegnamenti, sulla base di considerazioni, ovvie, se volete, ma di umane considerazioni, gli europei dei quali io parlo (sono molti, potrebbero anche essere la maggioranza, perché non sono chiusi nell’ambito di partiti, ma si dilatano ogni giorno di più in quelle che sono le correnti naturali, spontanee dell’opinione pubblica), gli europei dei quali io parlo dicono ai loro governi, e diciamo noi al Governo: volete o non volete tener conto delle naturali possibilità e necessità strategiche ed economiche del nostro continente, del nostro paese? Fin qui ci siamo sempre sentiti ripetere: l’Italia ha bisogno dell’America, oppure: l’Italia ha bisogno della Russia, l’Europa ha bisogno dell’America, oppure: l’Europa ha bisogno della Russia. Volete o non volete cominciare a ripetere, prima a voi stessi e poi agli altri, quella che è una grandissima e importantissima e fondamentale, anche se banale, verità: anche l’America ha bisogno dell’Italia, anche la Russia ha bisogno, dell’Italia, anche l’America ha bisogno dell’Europa, anche la Russia ha bisogno dell’Europa? Volete o non volete liberarvi dalle solite formulette in base alle quali gli americani avrebbero speso miliardi in Europa per generosità e i russi avrebbero impegnato tutto il loro potenziale militare e politico in nome del socialismo o del comunismo? Volete o non volete riportarvi sul terreno concreto e vedere se su questo concreto terreno vi sia, come vi è ancora, se pur siamo in ritardo, la possibilità di impostare sollecitamente e seriamente il problema della nostra difesa? Oppure preferite che si fabbrichino anche in Europa dei Ciang Kai Scek a ripetizione? Perché è la strada più facile la più semplice: è già stata percorsa, gli esempi non mancano, si ripetono e potrebbero ripetersi. Vi sembra che sia questa la via della saggezza? Riflettete a quello che è avvenuto: si trattava di un uomo, si diceva pieno di popolarità, di seguito, di prestigio, che discendeva da un ceppo tradizionalmente affermato nel suo paese; aveva, si diceva, all’inizio, la superiorità dei mezzi tecnici, aveva il denaro, aveva le armi, aveva il potere infine. Tutto questo è andato in frantumi, perché? Perché non si è tenuto conto dei fattori reali, non se n’ è tenuto conto in tempo. I comunisti esultino pure per considerazioni di tal genere, ne traggano auspici per le loro future affermazioni. Noi diciamo: verrà l’ora delle delusioni anche per loro, perché gli errori che sono stati compiuti da una parte sono già stati compiuti nell’impostazione generale anche dall’altra. È lo stesso errore, in sostanza, consistente nel presupporre che si possa condurre una politica mondiale sulla base di formule, non sulla base degli interessi concreti, reali, immediati dei popoli. È anche troppo evidente l’agganciamento fra queste considerazioni relative alla politica estera e le parallele, le analoghe considerazioni relative alla situazione interna del nostro paese.

Ho già avuto occasione di rilevare all’inizio che, purtroppo, il retrofronte è diventato importante non meno, forse più del fronte stesso. E ancora una volta, per togliermi quel cotal gusto del contraddittorio mancato, mi limiterò ad una osservazione: la situazione interna italiana, per quel che concerne le responsabilità governative in ordine al tanto dibattuto problema della pacificazione interna, potrebbe essere caratterizzata, ad esempio, da una vignetta un po’ umoristica, ma non tanto umoristica, perché si tratta sciaguratamente di cose assai serie, da una vignetta, dicevo, la quale presentasse da un lato il Presidente del Consiglio che si affanna almeno a parole, ché almeno delle sue parole gli dobbiamo dare atto a cancellare da una lavagna italiana il 38° parallelo; e dall’altro il ministro dell’Interno il quale si affanna non soltanto a parole, ma anche a fatti, coi provvedimenti di polizia a ricostruire, mattone su mattone, la linea gotica.

E qui debbo respingere dal nostro capo la veramente incongrua e turpe accusa di disfattismo che viene lanciata contro di noi anche da organi governativi. È vero, onorevoli colleghi, si è fatto molto disfattismo in Italia in questi ultimi anni, ma non lo abbiamo fatto noi. Si è fatto del disfattismo, e ne trovo traccia in una recente frase scritta proprio dall’onorevole Nenni sull’ Avanti! Sentite: «Come l’intervento nella seconda guerra mondiale fu imposto da un partito, per ragioni di partito, onde alle prime difficoltà quel partito, il fascista, fu spazzato via, così l’intervento italia-

no in una terza guerra mondiale assumerebbe il medesimo carattere di sopraffazione di partito e di classe».

L’onorevole Nenni può scrivere queste cose e la sua stampa le può propaganda-re: perché? Perché, prima che le scrivesse lui, prima che le scrivesse la stampa di sinistra, le avete scritte e avete tollerato che si dicessero e si scrivessero tutti voi, avete cioè tollerato che si infangasse il soldato italiano, e, insieme con il soldato italiano, tutto il popolo italiano: perché non si dice, non si può dire come ha detto anche l’altro ieri il ministro Scelba a Torino, «il popolo italiano manca di coscienza nazionale», senza assumersi è un ministro in carica che parla una pesantissima responsabilità.”

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, ella deve parlare su un argomento di politica estera: ho tollerato larghi accenni alla politica interna, ma ella non può fare di questi la parte preponderante del suo discorso. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, sarei veramente felice se non fosse necessario oggi in Italia, per collegarsi ad argomenti di politica estera, riferirsi allo stato doloroso della nostra situazione interna. “

PRESIDENTE: “Comprendo, onorevole Almirante: ma è una questione di limiti e di misura. “

ALMIRANTE: “Si tratta, d’altra parte, di un problema che è attinente alla mozione in esame, la quale ci riporta alla questione dell’efficienza delle nostre forze difensive: non vi è efficienza materiale che non sia prima di tutto efficienza morale. Comunque, onorevole Presidente, mi sto avviando alla conclusione; e debbo, riprendendo l’argomento, ricordare alla Camera che non ci si può lamentare da parte del Governo e da parte degli organi di stampa che al Governo fanno capo, dell’altrui disfattismo, quando questo disfattismo, nelle sue premesse storiche e morali, è stato sistematicamente alimentato da una impostazione politica che voi sostenete e che ricade oggi sulle vostre teste come un boomerang.”

DE GASPERI: “Il popolo italiano non ha voluto la guerra in Albania, l’attacco alla Francia, ecc, li ha voluti la dittatura! “

ALMIRANTE: “Questo è un argomento che molte volte ci siamo sentiti ripetere; vale a dire che la cosiddetta guerra fascista non era stata voluta né sentita dal popolo italiano. “

CARONIA: “Ma no! “

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, sono le sue divagazioni che provocano interruzioni come questa del Presidente del Consiglio. Ora, ella non estenda la discussione, che sarebbe fuori argomento.”

ALMIRANTE: “La prego di concedermi una brevissima replica e niente altro. A questo argomento ho già risposto altre volte che chi così si esprime ha perfettamente ragione: tanto è vero che il 10 giugno 1940 ero io solo ad applaudire in piazza Venezia. “

MIEVILLE: “C’ero anch’io. “

ALMIRANTE: “Eravamo in due ad applaudire; ed eravamo ugualmente stati noi due, e non anche qualcuno che potrei riconoscere fra voi, ad applaudire per venti anni! E chiudo l’argomento per carità di patria. “

DELLE FAVE: “Questa non è una replica. Ciò non dice niente. “

ALMIRANTE: “Il Presidente della Camera mi aveva pregato di non riprendere la discussione. Io non posso non aderire, e non insisto. Potremo riprendere la discussione con dati, nomi e persino fotografie, nel «transatlantico», se vi aggrada. Certamente io non ho niente da rimettere in una discussione simile. Non so se tutti voi potete dire lo stesso!

Onorevoli colleghi e onorevole Presidente del Consiglio, le considerazioni che il MSI ha espresso in questa occasione non vogliono essere altro, nel dialogo ozioso fra due propagande ormai scontate fino ai limiti dello scontabile, che una parola che sgorga dal profondo di concezioni e d’, interessi unicamente italiani; perché questo, certamente, non vorrete e non potrete negarlo a nessuno di noi. La voce di questi interessi e di questi sentimenti italiani noi la sintetizziamo e la esprimiamo nel seguente modo. La coscienza nazionale oggi richiede: 1) unificazione interna del paese per poter conseguire, nelle sue indispensabili premesse morali, la piena sovranità del nostro paese di fronte al mondo; 2) passaggio dalla sovranità alla rivendicazione integrale dei nostri diritti e alla vigile, concorde difesa della nostra indipendenza e della nostra pace.

Non è questo uno slogan di partito: è una profonda ansia di popolo, la quale prescinde da ogni impostazione e da ogni raggruppamento di parte, la quale tende, come tendono le analoghe impostazioni di popolo che vi ho sottolineato, nei confronti del popolo tedesco, soprattutto, a salvare il paese nella sua sostanza civile, a salvare l’Europa, nella sua storica e civile funzione.

Non presumete di poter eludere questa ansia di popolo, e voglia Iddio che non facciate in tempo a frustrarla definitivamente.”

Seduta del 26 gennaio 1970

Finanze e regioni

Nel gennaio 1970 si apre il dibattito sui provvedimenti finanziari per l’attuazione delle regioni a statuto ordinario Giorgio Almirante prende più volte la parola durante il dibattito: abbiamo scelto tra tanti interventi il lungo discorso del 26 gennaio sull’articolo 15 che prevede l’attribuzione alle regioni delle materie indicate nell’ari. 117 della Costituzione. Si tratta di una norma fondamentale, il Msi-Dn intravede in essa un primo passaggio verso lo Stato federale a cui si oppone con decisione

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi sia consentito un rilievo sui modi con cui i gruppi regionali combattono la battaglia relativa all’articolo 15.

Si è detto abbondantemente nei giorni scorsi lo abbiamo letto su tutti i giornali, lo ha ripetuto stamane l’onorevole Galloni con il linguaggio, vagamente esoterico, della sinistra della Democrazia cristiana, parlando di «punto nodale della legge», e io mutuo la terminologia della sinistra democristiana che credo essere abbastanza pratica in mutui nel dire che l’articolo 15 è un punto nodale della legge.

Sappiamo che sull’articolo 15 si sono svolte, all’interno della maggioranza di centro-sinistra e anche della più larga e reale maggioranza regionalistica, delle discussioni che in taluni casi hanno degenerato, fuori di qui, in clamorose polemiche. Era da attendersi che, giunti alla discussione dell’articolo 15, i gruppi regionalisti ci facessero l’onore e la cortesia di esporre i loro punti di vista. Ma, se sono bene informato, oltre all’onorevole Galloni che ringraziamo per essere intervenuto in un discorso che ovviamente non condividiamo, che anzi respingiamo nella sostanza e nel contenuto, ma che per lo meno ci offre la possibilità di un dialogo, di un dibattito polemico ad armi cortesi nessuno tra gli esponenti dei gruppi regionalisti ha ritenuto opportuno prendere la parola su questo articolo.

Può darsi, anzi lo credo, che colleghi dei gruppi regionalisti intervengano nella illustrazione dei propri emendamenti o nella polemica contro gli emendamenti da noi presentati; ma indubbiamente questo modo di condurre il dibattito da parte dei regionalisti convinti non è il più adatto a chiarire al Parlamento e all’opinione pubblica, anche attraverso la stampa, i contenuti reali del provvedimento in esame. Sicché, se stamane il presidente del nostro gruppo parlamentare, onorevole De Marzio, ha giustamente messo in rilievo la validità politica e morale della nostra battaglia ostruzionistica, io credo di poter tentare di mettere in rilievo, attraverso questo mio intervento sull’articolo 15, che tenterà di non essere soltanto polemico, la validità vorrei dire tecnica e programmatica di respiro programmatico e di contenuto della nostra opposizione ostruzionistica a questo disegno dì legge.

Ho l’impressione di non sbagliare dicendo che il nostro atteggiamento ha fatto esplodere, malgrado l’ostinato silenzio o quasi dei gruppi regionalisti, i punti chiave del disegno di legge che, con maggiore o minore evidenza, hanno il loro centro proprio nell’articolo 15. Credo di non sbagliare affermando che il nostro atteggiamento ha fatto esplodere il primo punto chiave, quello relativo all’effettivo costo dell’istituzione dell’ordinamento regionale a statuto straordinario; e vi è in tal caso un riferimento preciso al contenuto dell’articolo 15 e una risposta precisa da dare all’onorevole Galloni che, proprio a questo riguardo, ci ha accusati di essere in contraddizione.

Credo anche che il nostro atteggiamento abbia fatto scoppiare e lo avete visto nei giorni scorsi quella divertente, ma al tempo steso preoccupante e drammatica, battaglia tra nordisti e sudisti che ha diviso, in seno a ciascun partito, i parlamentari rappresentanti delle regioni del nord e quelli delle regioni del sud. Credo poi che il nostro atteggiamento abbia fatto scoppiare, o abbia evidenziato, lo scollamento tra riforma regionale e politica di piano.

E credo, infine, venendo più particolarmente al contenuto dell’articolo 15 e all’illustrazione polemica che mi permetterò di farne, che attraverso i nostri interventi (e anche, modestamente, attraverso quanto mi accingo a dire), si sia chiarito quanto disarticolata (ecco il tema di fondo al quale intendo riferirmi) sia la cosiddetta maggioranza regionalistica alla quale si è riferito stamane l’onorevole Galloni.

L’onorevole Galloni ha fatto un discorso onesto e corretto quando, riferendosi, a proposito dell’articolo 15 e del problema delle regioni in genere, alla nota polemica in corso sulla delimitazione o meno della maggioranza, ha rilevato che, allorché si discutono problemi di fondo, la maggioranza stessa deve continuamente stare a colloquio Io ha detto l’onorevole Galloni e quindi mi permetto di ripeterlo; l’ho udito bene e spero che dal testo stenografico non sia scomparso con tutte le opposizioni.

Ho apprezzato la correttezza di tale posizione. Ma debbo onestamente dire che ho pure apprezzato la correttezza di un’altra posizione dell’onorevole Galloni, che a me, peraltro, sul terreno politico può non piacere. Mi riferisco alla posizione as-

sunta dall’onorevole Galloni quando, penso anche a nome dei suoi amici della sinistra democristiana, egli ha con un certo coraggio dichiarato che non è molto lecito né molto bello chiedere, o per lo meno ricevere, costantemente, anche da un punto di vista procedurale non lo ha detto l’onorevole Galloni, ma lo ha chiaramente fatto intendere , i voti dell’ estrema sinistra per essere chiari del Partito comu-nista rifiutando poi un colloquio con quei settori dai quali gli stessi si mutuano.

Ineccepibile questo ragionamento dell’onorevole Galloni e della sinistra della Democrazia cristiana, anche se non so quanto esso sia condiviso ma, mi si permetta dire, ciò non ha molta importanza dal gruppo democristiano in quanto tale o dall’attuale Governo. Ineccepibile ho detto se vi fossero delle convergenze effettive, e soprattutto se esistessero delle convergenze effettivamente manifestabili di fronte al Parlamento e alla pubblica opinione, quanto ai contenuti reali della riforma regionale, in seno alla maggioranza regionalista.

Invece, onorevoli colleghi e mi riferisco particolarmente alla sinistra della Democrazia cristiana, che parla di patti costituzionali e almeno ha il pregio di parlare chiaramente che cosa esplode dal contesto di questo dibattito? Da parte nostra nulla di nuovo: le nostre antiche posizioni antiregionalistiche che, semmai, abbiamo perfezionato, chiarito. Da parte dei gruppi regionalisti, invece, molto di nuovo: emergono contrasti di fondo in merito ai contenuti delle regioni.

Qui dentro, in mezzo a voi, e ve lo dimostrerò d’altra parte lo sapete già , vi sono ancora i rispettabilissimi rappresentanti di quel pluralismo cattolico che dal 1946 ad oggi la maggioranza della Democrazia cristiana, nelle sue riunioni e nei congressi, ha sostenuto essere il contenuto di fondo del programma e della tradizione di quel partito.

Mi permetto di ricordare, in proposito, ai colleghi della Democrazia cristiana che il pluralismo cattolico tornerò comunque sulla questione è un pluralismo che si riferisce a quelli che l’amico De Marzio stamane ha ricordato essere i corpi intermedi, ma che molti fra i cattolici militanti nella Democrazia cristiana hanno chiamato, in tempi non sospetti, i corpi sociali intermedi.

Pertanto non si è mai trattato, in dottrina, e mi riferisco ai più seri e validi esponenti della Democrazia cristiana e del mondo cattolico di pluralismo politico, ma di un pluralismo a contenuto sociale e a tinte sociali, il che è fortemente diverso.

Esistono, comunque, nella Democrazia cristiana e potrei facilmente indicarli uomini di grande rilievo i quali, quando parlano di regionalismo, si riferiscono ai contenuti essenziali di quel pluralismo che fa parte della tradizione cattolica. Vi sono però anche, tra i colleghi della DC parlo dei democristiani di oggi, non delle ombre di un passato che molti tra voi vorrebbero per prudenza politica dimenticare o far dimenticare, anche se non è un passato di cui dobbiate vergognarvi alcuni federalisti, tra i quali almeno uno ha avuto il coraggio e la franchezza di manifestarsi: l’onorevole Marchetti, che ancora una volta debbo ringraziare per la chiarezza spregiudicata delle sue impostazioni.

Vi sono, dicevo, tra gli uomini della DC i federalisti, cioè coloro i quali hanno il coraggio di dichiarare come, ripeto, lo ha avuto l’onorevole Marchetti : sono un federalista e per me regionalismo equivale a federalismo. Vi documenterò che ha tanto ragione l’onorevole Marchetti, da un certo punto di vista, che all’epoca della Costituente colui che oggi viene considerato dalla sinistra democristiana un esempio tipico del moderatismo, l’onorevole Tosato, ebbe testualmente a dire: «regionalismo equivale a federatismo». Ed è un chiarimento io penso importante nel tempo.

Vi sono dunque, tra i democristiani, i sostenitori del regionalismo vecchio tipo, così come uscì (non come entrò, ma come uscì) dal forcipe e dai compromessi dell’Assemblea costituente; vi sono i regionalisti vecchio e nuovissimo tipo, vale a dire i federalisti convinti, coloro che hanno il coraggio di dire che lo Stato regionale è uno Stato diverso dallo Stato attuale, cioè che non si tratta di dar luogo alla riforma consistente nell’ attuare le regioni, ma ad un nuovo tipo di Stato, che potrà anche chiamarsi regionale o regionalista o regionalistico, ma che nella sostanza dei suoi ordinamenti dovrà rispondere ai connotati di uno Stato federale; e vi è poi il regionalismo tipicamente politico, strumentato cinicamente (e nessuno si offenda, perché è un apprezzamento politico anche questo), strumentato cinicamente in termini politici, che caratterizza l’estrema sinistra e che debbo dire caratterizza ancor più i socialisti dei comunisti. Caratterizza in termini di cinismo politico ancor più i socialisti dei comunisti, sia per le ragioni che l’onorevole De Marzio stamane ricordava, e cioè perché la conversione rabbiosa dei socialisti a certe forme avanzate (come si dice oggi) di regionalismo coincide con l’ingresso dei socialisti nell’area del potere, sia perché riconosciamolo (è una documentazione che abbiamo tutti a portata di ma-no), all’epoca della Costituente furono assai più accesi nel combattere il regionalismo in toto i socialisti di quanto non lo siano stati, per prudenza politica, per intelligenza politica (non so come giudicare, ma i documenti parlano), a quell’epoca i comunisti; i quali lo dimostrò l’atteggiamento dell’onorevole Togliatti a proposito dell’articolo 7 della Costituzione, cioè del Concordato già allora, nella loro indubbia preveggenza e intelligenza politica, vagheggiavano lo scavalcamento dei socialisti per un tentativo di accordo e di compromesso diretto con la Democrazia cristiana o con alcune sue correnti.

Sono questi i contenuti relativi alla legge in genere, ma in particolare all’articolo 15 della legge, dei quali io desidero occuparmi, visto che non se ne occupano i protagonisti della commedia che sta per trasformarsi in un dramma.

Ho detto che il nostro ostruzionismo ha fatto esplodere un primo problema di fondo, sul quale da ora in poi non sarà più lecito ad alcuno giocare o scherzare o mentire. E penso che l’ultimo tentativo (scusatemi la presunzione) non voglio dire di menzogna, ma di sofisma al riguardo, sia stato quello infelicemente compiuto stamane dell’onorevole Galloni.

Il problema del costo delle regioni è strettamente connesso, molto più di quanto non appaia, con il contenuto e soprattutto con il nuovissimo contenuto, con l’ultimo contenuto dell’articolo 15 di questa legge. L’onorevole Galloni stamane ha detto:

i colleghi del Movimento sociale italiano sono in contraddizione con loro stessi, perché da un lato insistono nel deprecare che le regioni possano far lievitare costi di gestione altissimi e, dall’altro, si oppongo in toto a questo articolo 15, che rappresenta una specie di diga, una specie di argine dato il suo congegno articolato, date le norme sulla delega legislativa a proposito di trasferimento del personale e delle funzioni contro la possibilità di lievitazione o di dilatazione della spesa.

Questo è un sofisma. L’articolo 15, soprattutto nella sua ultima formulazione, attraverso le ultimissime intese intervenute in seno al centro-sinistra, non è un argine: è quello che io chiamavo l’altro giorno, a proposito di diversi articoli, un altro Vajont.

Perché? Perché le regioni tanto più costeranno quanto più saranno politicizzate; tanto meno costeranno quanto più rappresenteranno o potranno rappresentare o potrebbero rappresentare (poiché la mia credo sia ormai una vana illusione) degli organismi meramente amministrativi. L’articolo 15, sia attraverso il congegno della delega, sia e soprattutto attraverso l’abrogazione, improvvisa e improvvisata con enorme leggerezza, dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953, è esattamente l’articolo che politicizza al massimo, che autonomizza al massimo ma in senso politico, vorrei dire, con brutto neologismo, che «sovranizza» al massimo, sino a trasformare lo Stato in uno Stato federale, le regioni a statuto ordinario.

Per dimostrare ancora una volta ai colleghi che noi tentiamo qualche lettura, che non parliamo nella improvvisazione di una polemica politica ma ci riferiamo a testi, non di nostra parte, abbastanza autorevoli, mi permetterò, a questo riguardo, due citazioni. Una relativa a quanto ebbe a scrivere il professor Celestino Arena, l’altra a quanto ebbe a scrivere l’avvocato Ferdinando Carbone; entrambe le citazioni sono tratte dai lunghi testi della commissione Tupini.

Il professor Celestino Arena nel 1961 ebbe a scrivere: «La finanza è solo strumentale per il funzionamento di un dato tipo di regione, e ne resta condizionata. Perciò assumiamo come ipotesi di lavoro alcune interpretazioni realistiche della Costituzione e ad esse adegueremo le possibili finanziarie. La regione non ha funzioni politiche o di elevata politica economica, è un ente di amministrazione con finalità di mera amministrazione. Solo ai fini e nei limiti di questa autonomia amministrativa costituzionalmente garantita, si spiega l’autonomia finanziaria di essa, strumentale. La regione non solo non deve avere un apparato politico e amministrativo parallelo a quello statale, ma per i voluti fini di semplificazione e di snellimento della generale amministrazione amministrativa, esercita le sue funzioni attraverso gli uffici degli enti locali minori. Le regioni sono aggruppameto e coordinamento di funzioni locali effettivamente esercitate di regola da enti minori».

Se questa fosse la regione, se la regione fosse un ente puramente amministrativo o quasi soltanto amministrativo, se attraverso i congegni di questa legge non venissero volutamente, dichiaratamente dilatate le funzioni politiche della regione, il professor Celestino Arena avrebbe ancora oggi ragione nel ritenere contenibili le spese

delle regioni. Il professor Arena ragionava molto bene quando diceva: «Prefiguriamo un tipo di regione e poi diamo luogo ad una determinata legge finanziaria che a quel dato tipo di regione si adegui».

In questo caso è avvenuto, proprio per l’articolo 15, esattamente il contrario: si è dato luogo ad una certa legge finanziaria, ad un determinato preventivo di costo aggirantesi sui 700 miliardi l’anno per i primi anni; si è dato luogo, nel congegno della legge, ad un articolo 15 diverso dall’attuale; arrivati all’articolo 15, si sono aperte le cateratte, senza che il Governo si opponesse; la regione viene investita immediatamente o quasi (ne parleremo) di funzioni altamente politiche, cioè di funzioni legislative sostanzialmente primarie su 18 materie di altissima importanza, tra le quali basterebbe ricordare l’agricoltura: immaginate voi se in in tal guisa l’articolo 15 è da considerarsi, secondo quanto ci ha raccontato stamani scherzosamente, penso l’onorevole Galloni, un articolo «diga».

Le dighe sono state abbattute. Ciò farà piacere ai regionalisti come l’onorevole Marchetti, farà piacere all’estrema sinistra, che da anni reclama l’abbattimento della diga rappresentata dall’articolo 9 della legge n. 62 del 1953, ma non è lecito, a chi abbatte una diga perché la fiumana si scateni, dire nello stesso momento: io sto alzando una diga e siete voi che la volete abbattere. Questo non è lecito! Nessun sofisma può consentire alla sinistra della Democrazia cristiana e all’onorevole Galloni di sostenere ciò che è manifestamente il contrario del vero.

Passo ora alla seconda delle due citazioni preannunziate, ancora più autorevole della prima perché riguarda alcune affermazioni fatte dall’avvocato Ferdinando Carbone al quale, dopo questa sua relazione ai tempi della commissione Tupini, fu affidato il compito di presiedere la seconda delle commissioni che, in ordine di tempo, si sono occupate dei problemi finanziari delle regioni.

Scriveva dunque nel 1961 l’avvocato Carbone, con riferimento ai lavori della Commissione Tupini: «La sottocommissione si è trovata concorde nel definire di carattere, in senso elevato, amministrativo le funzioni attribuite dalla Costituzione alle regioni, ad esclusione di attività proprie della sfera del governo politico, che nei loro aspetti degenerativi non potrebbero che aggiungere confusione e disordine, peggio, elementi di disgregazione nella vita dello Stato, con costi assolutamente proibitivi per un effettivo ed efficiente ordinamento regionale».

Ritengo che queste testimonianze possano essere sufficienti, insieme al ragionamento che ho premesso, per debellare il sofisma dell’onorevole Galloni. Ma vi è qualcuno che durante questo dibattito ci è venuto in aiuto. È per questo che ho l’abitudine di prender nota delle affermazioni fatte dai non molti colleghi regionalisti intervenuti nella discussione generale e che talvolta si sono un poco scoperti con qualche ingenuità.

Ascoltate dunque, onorevoli colleghi, l’onorevole Finelli, del Partito comunista, il quale, riferendosi alle modifiche apportate in Commissione all’articolo 15, e più precisamente all’emendamento con il quale si sopprimeva l’articolo 9 della legge

n. 62 del 1953, ha pronunziato una frase che è bene richiamare, perché forse quelle affermazioni sono sfuggite a molti colleghi e alla stessa stampa. «In un certo senso disse l’onorevole Finelli si può affermare che le modifiche apportate costituiscono una sorta di bomba posta sotto l’edificio finanziario costruito con il testo originario del disegno di legge governativo: bisognerà vedere se tale bomba scoppierà».

I comunisti, forse, sanno quando le bombe scoppiano e in questo caso la previsione del comunista onorevole Finelli era assolutamente esatta: la «bomba» è scoppiata o sta scoppiando. “

RAUCCI: “Desidererei farle osservare, onorevole Almirante, che l’onorevole Finelli fa parte non del gruppo comunista ma del gruppo misto. “

ALMIRANTE: “Attendevo, anzi desideravo, questa interruzione, onorevole Raucci, perché da tempo aspettavo l’occasione per denunziare il sottile doppio gioco (fra i tanti) compiuto dal Partito comunista, il quale, avendo avuto 177 deputati eletti in questa Assemblea, ne ha distribuiti 171 nel gruppo ufficiale del Partito comunista e ne ha assegnati altri sei a quello che si chiama «gruppo misto», che è presieduto da un deputato eletto nelle liste del Partito comunista e che conta sei eletti in quella stessa lista e altri quattro deputati posti quasi, se mi è consentito, come prezzemolo: tre colleghi della Volkspartei e uno della Valle d’Aosta. Cosicché, ad ogni riunione dei capigruppo e ad ogni discussione, il Partito comunista sostanzialmente interviene due volte, una prima in quanto tale e una seconda come «gruppo misto». Si tratta indubbiamente di un’ abile e sottile tattica ed ella, onorevole Raucci, avrebbe fatto meglio ad evitare quella interruzione che mi ha offerto lo spunto per denunziare tale manovra. “

RAUCCI: “Ogni deputato è libero di scegliere il gruppo al quale desidera appartenere. “

ALMIRANTE: “Dirò dunque che il deputato eletto nelle liste del Partito comunista, onorevole Finelli, anche se non iscritto al gruppo del Partito comunista, ha detto esattamente le parole che ho testé letto, citandole dal testo stenografico del suo intervento.

L’onorevole Finelli aveva ragione di fare quella affermazione e l’ha fatta con estrema chiarezza anche se mi si consenta di dirlo con un poco di rozza ingenuità. L’onorevole Finelli ha detto che questo articolo è una «bomba» e che si trattava di vedere se essa sarebbe scoppiata o meno.

Siate felici, colleghi eletti nelle liste del Partito comunista, perché la bomba sta per scoppiare e sarà posta sotto l’edificio di questa legge non appena sarà stato approvato l’articolo 15 nel testo integrato dalla Commissione per gli affari costituzionali. È una bomba che farà saltare tutti gli argini e in particolare quello che non noi, che siamo antiregionalisti, ma voi, colleghi regionalisti, avete costruito attraver-

so il congegno di cui all’articolo 9 della legge n. 62 del 1953. Ma se per avventura si ritenesse poco autorevole la testimonianza di un eletto nelle liste del Partito comunista specialista in bombe, c’è la testimonianza del relatore per la maggioranza, onorevole Tarabini, il quale nella sua relazione ha scritto molte cose contro questa legge, talune delle quali mi sono permesso di far rilevare l’altro giorno, mentre poche altre mi permetto di far rilevare quest’oggi.

L’onorevole Tarabini ha scritto nella sua relazione: «Si ha, cioè, il dubbio (e qualcosa più del dubbio) che il disegno di legge nel testo originario dell’articolo 15, muova da una interpretazione dell’articolo 117 della Costituzione che è restrittiva rispetto a quella del testo deliberato dalla Commissione. Se il dubbio è fondato, le conseguenze finanziarie riguardano non solo l’ammontare dei costi sostitutivi, i quali, di per sé, non costituiscono ragione di preoccupazione, ma altresì quello dei costi aggiuntivi connessi con il trasferimento delle funzioni: costi che secondo le stime della Commissione Carbone hanno, come s’è visto, una incidenza assai elevata».

Quindi il relatore per la maggioranza rileva che si ha motivo di ritenere che attraverso il nuovo testo dell’articolo 15 i costi siano destinati ad aumentare di molto. Lo rileva, l’espressione è sua, «con preoccupazione», e noi lo ringraziamo per queste sue cortesi, platoniche, e tardive preoccupazioni; lo rileva con cognizione di notizie che egli ricava, tra l’altro, dalla relazione Carbone, la quale dimostra che i costi aggiuntivi connessi con il trasferimento delle funzioni potrebbero essere molto elevati.

Sicché, credo di aver dimostrato essere un sofisma quello che l’onorevole Galloni, unico intervenuto in polemica nei nostri confronti, stamani ha tentato di opporci a difesa dell’articolo 15. Ritengo di aver dimostrato che l’articolo 15 abbatte, secondo le dichiarazioni della stessa maggioranza regionalista, nelle sue valide sfumature, le dighe o la diga che precedentemente esisteva, e che da questo momento in poi, dal momento cioè in cui il nuovo testo dell’articolo 15 sarà stato disgraziatamente approvato dalla Camera e poi dal Senato, diventando legge, non sarà possibile (io credo che l’onorevole Tarabini, anche se non gli chiedo di dirmelo ad alta voce, perché non posso spingere fino a tal punto la mia indiscrezione, in cuor suo me ne dia atto) alcuna ragionevole previsione di spesa a proposito delle regioni.

Nel momento stesso, infatti, in cui si attribuisce alle regioni una potestà legislativa praticamente indiscriminata (sia pure su diciotto materie, ma diciotto materie che comprendono l’agricoltura, per cui non si tratta di materie di scarsa importanza), nel momento in cui questo meccanismo si metterà in movimento, nessun ragionevole contenimento di spesa sarà pensabile, il che potrà andare benissimo per i sostenitori di un federalismo tra l’altro piuttosto spinto e incontrollato, potrà andare ancora meglio per i sostenitori del caos e dell’anarchia che siedono all’estrema sinistra, ma non so quanto andrà bene per il cittadino, per il contribuente e per quella larga parte tra voi che in buona fede continua ad essere regionalista in senso pluralista e disaccentratore, in senso articolato, e non si rende conto che la legge è stata portata via di mano alla vecchia maggioranza democristiana regionalista nell’antico senso, ed è stata presa nelle mani dell’estrema sinistra della Democrazia cristiana e dei socialisti di entrambe le specie.

Questa è la realtà politica che sta per tradursi in un assetto costituzionale e in un assetto, o in un disordine, amministrativo ulteriore per il nostro Stato.

Tutto questo, sempre rispondendo all’onorevole Galloni e concludendo per quanto riguarda questa parte, è aggravato dalla delega al Governo. Io non voglio, lo abbiamo già fatto, discutere tale delega dal punto di vista costituzionale.

Mi limito a osservare che, quando si rinunzia a fare ciò che avevano fatto i precedenti Governi, cioè a presentare un disegno di legge per il passaggio del personale dallo Stato alle regioni e si conferisce delega al Governo in tal senso, si sottrae in primo luogo al Parlamento una responsabilità che del Parlamento è propria, data la gravità e la complessità del tema e poi, senza alcun dubbio, si rendono meno efficaci i controlli e si aggravano i pericoli.

Il relatore Tarabini, a questo riguardo, spiritosamente perché credo che sia soltanto una battuta di spirito ha scritto nella sua relazione che «la delega farà guadagnare tempo al Parlamento». È una motivazione, onorevole Tarabini, un poco modesta. Non può, io penso, un relatore per la maggioranza sostenere, di fronte ad un argomento di questa entità, che si conferisce la delega al Governo per guadagnare tempo. Ve lo diciamo proprio noi che stiamo cercando di guadagnare tempo e di ritardare il più possibile l’approvazione di questa legge. Ma ve lo diciamo con franchezza. Il tempo che, secondo voi, si è perduto da oltre venti anni a questa parte abbiate la bontà di riconoscerlo non ve l’abbiamo fatto perdere noi. Noi qualche giorno, qualche settimana, qualche ora di tempo ve l’abbiamo fatta perdere (dal vostro punto di vista) nelle rare occasioni in cui nel corso di questi venti anni un governo responsabilmente ha proposto leggi tendenti a istituire le regioni a statuto ordinario nel nostro paese. Ma le occasioni, come sapete, sono state poche e d’altra parte avrò modo di ricordarvele. Dopo aver voluto o dovuto perdere oltre venti anni di tempo, non ci si può venire a dire: per non perdere qualche giorno o qualche settimana di tempo, trasferiamo al Governo, attraverso la delega, funzioni delicatissime che spettano invece al Parlamento.

Ma, ad ogni modo, ciò che mi preme trattare in questo mio intervento sull’articolo 15 è quello che vi ho preannunziato, cioè verso quale tipo di regime, vale a dire verso quale tipo di Stato stiamo andando. Mi soccorre a questo riguardo ancora una volta il simpatico amico onorevole Marchetti, il quale, tra le tante cose schiette, ne ha detta una che costituisce la vera motivazione, secondo noi, dell’abrogazione in questo momento, dopo tanti anni, dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953.

L’onorevole Marchetti ha testualmente detto: «L’articolo 9 di quella legge salta oggi non per amore della Costituzione, ma in forza delle elezioni che si debbono fare in primavera». Grazie, onorevole Marchetti, per aver detto, non a nome della Democrazia cristiana e magari neanche della Valtellina o della provincia di Varese) ma a titolo personale, quello che pensiamo tutti, cioè che, se non ci si trovasse in una determinata contingenza politica, se non battessero alle porte le elezioni di primavera ammesso e, speriamo, non concesso che vi siano elezioni di tal fatta in prima

vera non si sarebbe acceduto ad abbattere quella diga, cioè ad aderire ad un nuovo tipo di ordinamento regionale, cioè ad un nuovo tipo di ordinamento dello Stato e quindi alla prefigurazione di un nuovo tipo di patto costituzionale o di ordinamento costituzionale.

Si sono bruciate le tappe, si sono accelerati i tempi perché vi è una determinata situazione politica, che si riferisce a una possibile campagna elettorale, che i settori che stanno continuando, occultamente ma tenacemente, a dirigere la Democrazia cristiana e il Governo, vogliono poter condurre con una determinata impostazione che consenta, dopo la campagna elettorale stessa, di superare non tecnicamente la delimitazione della maggioranza, ma politicamente e socialmente, cioè di dar luogo, dopo le elezioni regionali previste per la primavera ed impostate in un determinato modo, ad una spinta popolare, come dite voi, che, giustificata dall’approvazione di un provvedimento di questo genere, vi consenta di riportare al vertice, addirittura nell’aula di Montecitorio, i discorsi che per ora state facendo alla base e fuori dell’aula del Parlamento.

Questa è la realtà. L’onorevole Marchetti l’ha bruscamente dichiarata, ma l’ha dichiarata con ancor maggiore brutalità un deputato comunista (questa volta credo che sia proprio comunista e, se sbaglio, l’onorevole Raucci mi corregga), l’onorevole Giancarlo Ferri. Credo che sia un iscritto al Partito comunista e quindi al gruppo comunista, e che in nome del gruppo e del Partito comunista egli sia intervenuto nel dibattito.

L’onorevole Giancarlo Ferri, parlando nella discussione generale su questo disegno di legge, ha parlato con ancor maggiore chiarezza dell’onorevole Marchetti, ed ha parlato come comunista, quindi senza alcun dubbio in nome di un partito e di un gruppo e non a titolo personale. La democrazia che vige nel Partito comunista è tale, infatti, che, se avesse parlato a titolo personale, avrebbe subito la fine di altri colleghi, quelli del Manifesto, ai quali rivolgiamo le nostre condoglianze, non per essere stati espulsi oggi, ma per essere entrati, quando vi sono entrati, in un partito come quello comunista.

L’onorevole Giancarlo Ferri, dicevo, ha detto che bisogna dar luogo in ogni modo alla approvazione di questa legge perché in primavera si possano fare le elezioni regionali e non si vada alle elezioni politiche.

E state a sentire quale spiegazione classista e marxista egli ha saputo dare (i comunisti lo riconosco con ammirazione sono capaci di tutto: lo diceva poco fa anche l’onorevole Servello) della differenza, in questo momento, fra elezioni regionali ed elezioni politiche.

Noi pensavamo da ignoranti o da modestissimi discepoli, quali possiamo ritenerci in materia di democrazia elettorale o parlamentare, che il dato elettorale fosse sempre la espressione di un dato di popolo. Per quanto si riferisce alle elezioni amministrative e alle elezioni politiche e per quanto questa volta potrebbe riferirsi a quella specie di via di mezzo fra elezioni amministrative ed elezioni politiche che sarebbero

le elezioni regionali, noi abbiamo sempre pensato che il dato elettorale coincidesse con la manifestazione della sovranità del popolo. No, secondo le nuovissime teorie comuniste, vi sono elezioni buone e le elezioni cattive, non a seconda dei risultati, che non sono prefigurabili o che si finge di non poter prefigurare anche se poi è proprio per la prefigurazione di impossibili risultati che si vuole andare lungo una certa strada e non lungo un’altra ma per i contenuti.

Vi sono le elezioni popolari e le elezioni di tipo feudale o aristocratico. In questo momento, le elezioni amministrative e regionali, secondo i comunisti, sarebbero le elezioni autenticamente popolari, mentre le elezioni politiche anticipate sarebbero le elezioni antipopolari e chissà perché? espressive di una volontà deformata dell’elettorato italiano.

Se non credete a quanto vi sto raccontando, ascoltate per cortesia la prosa dell’onorevole Giancarlo Ferri, il quale dice: «La regione si realizzerebbe in coincidenza con la fine dell’intima coalizione moderata e conservatrice e anche repressiva di governo. Il centro-sinistra è un’intesa politica vecchia, superata dalla lotta popolare. Salta il centro-sinistra, nasce la regione». (Com’è bello!) «Questo potrebbe essere uno degli sbocchi dell’intervento popolare, se le elezioni della prossima primavera serviranno ad istituire le regioni».

Quindi, se le elezioni della prossima primavera serviranno ad istituire le regioni ed in questo determinato modo, questo sarà uno sbocco dell’intervento popolare: salterà il centro-sinistra; progresso in nome delle regioni!

L’onorevole Giancarlo Ferri continua: «In caso contrario, l’intervento popolare nelle elezioni in primavera si svolgerebbe su un altro piano che noi combattiamo decisamente. La conservazione politica dominante, nei suoi ultimi sussulti, potrebbe cercare di impedire questo avvio costituzionale ad un decentramento dei poteri statali. Non avremmo le elezioni regionali e avremmo le elezioni politiche. Avrebbe la meglio allora un coacervo di interessi economici capitalistici, di conservazione di poteri, di vecchi e nuovi gruppi, di spinte repressive, di burocrazia asfissiante».

Quindi ci sono le elezioni di classe: quelle politiche, in questo momento, sono le elezioni del privilegio, della conservazione e della burocrazia asfissiante; quelle regionali, secondo il gruppo e il Partito comunista, sono invece le elezioni della spinta popolare, del rinnovamento e dell’avanzata verso nuove formule. Quello che ha detto un poco rozzamente, bisogna riconoscerlo il collega Giancarlo Ferri, vogliamo tradurlo in un linguaggio politico? Non ne avete bisogno; non ne avete bisogno perché l’Unità parla questo linguaggio politico tutte le mattine, da parecchi mesi a questa parte; l’Unità è diventata da parecchi mesi a questa parte l’organo ufficiale, non dico del Parlamento italiano, ma di questo Parlamento: non si tocchi questo Parlamento, non si parli di elezioni anticipate; si parli di elezioni regionali.

Vi prego di voler meditare sulla lezione per altro chiarissima che deriva da questo atteggiamento dei comunisti, anche perché si tratta di un atteggiamento non conforme alle tradizioni di questo partito, non conforme alle tradizioni di un

qualsivoglia partito di opposizione, non conforme alle tradizioni e in apparenza ma solo in apparenza agli interessi di un partito che non è solo un partito di opposizione, ma è un grosso partito di opposizione, con formidabili strumenti di potere, di sottopotere, di pressione e di propaganda tra le mani; e quindi di un partito che tutti riteniamo, o dovremmo ritenere, essere in un qualsivoglia momento pronto non ad affrontare, ma a chiedere, a sollecitare, a stimolare, a provocare, a rendere inevitabile, direi, lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni politiche. Il Partito comunista combatte l’attuale formula di governo; l’attuale formula di governo è stata definita «formula di legislatura»; il Partito comunista ha l’evidente interesse di far cadere la legislatura perché cada questa formula di governo, perché si esca da quella che anche noi definiamo la mistificazione del centro-sinistra.

Ma il Partito comunista non vuole gli strumenti atti politicamente a far saltare la mistificazione del centro-sinistra; il Partito comunista vuole gli strumenti atti a dar luogo alla riforma regionale a statuto ordinario, soprattutto dopo che, attraverso l’articolo 15, ha contribuito a mettere la bomba sotto l’edificio dello Stato, della sua legislazione, ed anche della sua articolazione amministrativa.

Non vi offendete, colleghi della Democrazia cristiana (mi riferisco soprattutto a quelli della sinistra della Democrazia cristiana) e colleghi del Partito socialista o socialdemocratici, se noi qualche volta, in momenti di accesa polemica, ma con qualche valida ragione politica, vi definiamo «le truppe ausiliarie degli interessi del Partito comunista», proprio in ordine a questa legge, a questa riforma dello Stato e a questo articolo 15 della legge in esame.

Quanto all’articolo 15 come tale, faccio un rilievo che vi sembrerà curioso ma che ho constatato, nella mia coscienza, rispondere a realtà: esaminando attentamente l’articolo 15 nelle sue componenti, nei suoi dati formativi, così come esso, anche attraverso gli ultimi emendamenti concordati, è venuto ad essere di fronte a noi, noi possiamo un poco malinconicamente, per quello che riguarda me ed i colleghi che hanno la ventura di essere in quest’aula fin dalla prima legislatura rifare la storia politica del dopoguerra. O qualche cosa di più: possiamo addirittura, attraverso un esame dell’articolo 15, del suo attuale testo composito (un esame che farò molto rapidamente, non temiate: non è un espediente ostruzionistico, ma un dato di coscienza), fare qualcosa di più ambizioso che non la storia politica del dopoguerra: una specie di storia delle ideologie politiche come si sono venute trasformando in questo dopoguerra.

Ho davanti a me un foglio ingiallito, che conservavo in un tiretto, come accade, perché è un documento della prima legislatura; è un documento del 1948, primo anno della prima legislatura, e mi ricorda qualche mio primo modestissimo, balbettante intervento nella Commissione affari interni, trasformatasi poi, e diventata in parte, come sapete, Commissione affari costituzionali, la Commissione di cui ho sempre fatto parte e che dal 1948 ha esaminato sempre, tranne che in quest’ultima occasione, essendone stata essa defraudata ingiustamente, i problemi delle regioni, che sono di sua competenza. Questo disegno di legge, che è del 1948 e che ha il n. 211,

portava la firma dell’onorevole Alcide De Gasperi, che presentava il disegno di legge di concerto con l’allora ministro dell’Interno onorevole Scelba.

Questo disegno di legge ebbe una lunga storia che vi risparmio: presentato alla Camera il 10 dicembre del 1948, ha finito per diventare, al termine di quella legislatura, proprio in extremis, la legge n. 62 del 1953. Il titolo secondo relativo alla «potestà normativa delle regioni», contiene l’articolo 9, che è preceduto da questa rubrica: «Condizioni per l’esercizio della potestà legislativa da parte della regione». Poi, tra parentesi, è scritto: «Riservato all’Assemblea»; perché dopo anni di dibattito in Commissione si ritenne di riservare al definitivo giudizio dell’Assemblea la formulazione dell’articolo 9.

Io ricordo bene come cominciò il dibattito in Commissione, lo ricordo soprattutto perché è stato molte volte citato il nome di quell’eminente collega della Democrazia cristiana che era allora il validissimo presidente della Commissione affari interni, onorevole Tosato. L’onorevole Tosato è colui che ha redatto il testo dell’articolo 117 della Costituzione e soprattutto il primo comma, colui che ha redatto il testo della norma transitoria IX della Costituzione che l’onorevole Galloni, stranamente perché l’onorevole Galloni è un uomo di cultura e di dottrina stamane c’ è venuto a raccontare non avere alcuna connessione con l’articolo 117 della Costituzione.

Tutti coloro che hanno studiato, anche approssimativamente, il nostro testo costituzionale, sanno che la norma transitoria IX della Costituzione è la trasformazione di un emendamento all’articolo 117, allora 109, presentato dall’onorevole Tosato con il n. 109-bis e non solo in connessione, ma in strettissima correlazione logica e, direi, sintattica, con gli articoli 109, 110, 111, fusisi e diventati il 117 della Costituzione.

Come si fa a venire a dire in quest’aula dove qualcuno che ha letto i testi costituzionali, anche se non era all’Assemblea costituente, pur c’è per pura comodità polemica e mostrando un’ignoranza che non è perdonabile in un uomo capace e preparato come l’onorevole Galloni, che la disposizione transitoria IX deve essere considerata a parte e che essa non a nulla a che vedere con l’articolo 117 della Costituzione, quando le sue norme furono redatte dalla stessa persona nello stesso momento?

L’onorevole Tosato, come chiunque può controllare rileggendosi i testi costituzionali, aderì a trasformare in norma transitoria quello che aveva presentato come un emendamento aggiuntivo all’articolo 117 della Costituzione. E fu corretto, l’onorevole Tosato, quando aderì a trasformare l’emendamento in norma transitoria, perché in effetti tale era, trattandosi di adeguare, attraverso quell’emendamento aggiuntivo all’articolo 109, poi diventato 117, le leggi dello Stato alle competenze delle regioni e di dare un termine allo Stato per questo adempimento.

La norma transitoria, però, nasceva dal corpo stesso degli articoli 109, 110 e 111, poi diventati articolo 117, e redatti dall’onorevole Tosato esattamente come la

disposizione IX transitoria. Non si tratta dunque più di una interpretazione; non si tratta di andare a rileggere oziosamente i lavori preparatori dell’Assemblea costituente per far perdere del tempo ai colleghi o per fare sfoggio di una dottrina che non esiste; ma si tratta di usare un minimo d’ onestà e di correttezza nell’ interpretazione, e si tratta tornerò su questo argomento, e mi si scusi, con una certa pesantezza di non portarci, come diceva l’onorevole De Marzio questa mattina, merce di contrabbando.

Noi abbiamo sempre sostenuto e sosteniamo che nessuno deve dimenticare che, fra gli articoli della Costituzione, vi è anche il 139, il quale ha una particolare importanza, e, vorrei dire, potrebbe addirittura avere più importanza di tutti gli altri articoli della Costituzione messi insieme, se davvero si ritenesse, dopo venti anni, di dover giungere a nuovi patti costituzionali.

Ci sono tre modi per giungere a nuovi patti costituzionali: stracciare il patto costituzionale esistente, e noi ci auguriamo che nessuno voglia giungere a ciò in nessun modo, e non abbiamo mai, da parte nostra, tentato di farlo, oppure rivedere il patto costituzionale esistente che reca le firme di voi tutti, che potrebbe semmai non legare noi che non c’eravamo, perché i più fra noi non fruivano, e voi lo sapete, di diritti politici a seguito delle leggi eccezionali che allora vigevano, e che invece ci lega perché, quando siamo entrati in quest’Assemblea, lo abbiamo fatto nostro. Anche se non esiste il vincolo del giuramento, c’è un giuramento di lealtà che consiste nel fare il proprio dovere quando si riceve uno stipendio per fare il proprio dovere.

Quindi dicevo o stracciare la Costituzione o rivederla: altrimenti esiste quello che io chiamo «il sistema della revisione strisciante», che è un sistema abietto, serpentino e che molti fra voi stanno adottando: si rivede la Costituzione senza rivederla, vengono interpretate come conviene le norme della Costituzione perché si ritiene mutata e può anche darsi che sia vero la condizione sociale e politica del nostro paese.

Ma se la condizione sociale e politica del nostro paese è mutata, se la Costituzione del 1° gennaio 1948 rappresenta un abito stretto per voi che siete cresciuti nei vostri contenuti sociali e politici o rappresenta un abito stretto perché non può contenere sotto di sé, anche perché non è il vestito di Arlecchino, il respiro ampio e grasso delle nuove maggioranze, denunciate tutto ciò in termini corretti, fate le debite proposte, si riveda la Costituzione e noi parteciperemo a quel dibattito con delle proposte, con delle tesi, con dei contenuti. Ma voi venite qui, o tacendo o con la sicumera dei professorini della sinistra della Democrazia cristiana, a insegnarci le cose che non sono scritte sui vostri libri che noi abbiamo letto, che abbiamo considerato e che abbiamo studiato. Questo non è lecito, non è corretto, non è onesto.

Ora, dicevo, questo vecchio foglio ingiallito mi ricorda i nostri, non dico i miei, esordi parlamentari, quelli che ricordava l’onorevole De Marzio stamane, quando entrammo qui in cinque e cominciammo ad occuparci dei problemi e cominciammo, oso dire, più per istinto, e magari, se ce lo consentite, anche per correttezza, che per

educazione politica, a mettere in atto quel che ora io vi sto dicendo a nome di tutto il nostro gruppo, e se mi consentite del nostro partito.

Cioè, poiché talune parti della Costituzione con le quali allora allora prendevamo contatto non ci piacevano, e in particolare non ci piaceva il titolo V della Costituzione, noi studiammo i modi tecnici corretti attraverso i quali tentare di giungere a una revisione costituzionale o per lo meno attraverso i quali manifestare la nostra volontà di giungere a una revisione costituzionale, di combattere contro l’attuazione in quei termini di quella parte della Costituzione e presentammo una proposta di legge che abbiamo vanamente ripresentato tante volte, non di abrogazione in foto, ma di revisione organica del titolo V della Costituzione.

Non ci siamo permessi infatti in quella proposta di legge di negare in loto le autonomie o i principi delle autonomie, perché abbiamo tenuto fermo il principio della autonomia degli enti locali e siamo stati sempre pronti a discutere per una modifica organica della vecchia legge comunale e provinciale che non regge più e non certamente per colpa di chi la emanò allora né per colpa nostra, ma certo per colpa di chi non ha saputo rinnovare istituti fondamentali. È una legge de 1934 e arrivano i rivoluzionari di accatto, non importa se del Partito comunista o della sinistra della Democrazia cristiana, per protestare contro quella, come contro tante altre leggi, perché superata.

Abbiamo anche letto sui giornali, nei giorni scorsi, con rammarico e con sconcerto, che davanti alla tomba di un magistrato di sinistra qualcuno, ritenendo di tessergli l’elogio funebre, ha testualmente detto (la frase è uscita sui giornali): «Lo compiangiamo e lo elogiamo perché ha saputo, come magistrato, disattendere la legge». Siamo a questo: i magistrati vengono elogiati quando disattendono le leggi!”

GASTONE: “Le leggi fasciste! “

ALMIRANTE: “Le leggi vigenti. Le leggi non si distinguono in fasciste e non fasciste, e voi dovreste vergognarvi quando ammettete che nel 1970 esistono leggi che voi definite fasciste. Questo è perfettamente vero: vi dirò che è perfettamente vero che la gran parte delle leggi vigenti (alludo alle leggi di fondo, ai testi unici, alle leggi organiche, dai codici all’urbanistica a talune norme fondamentali sull’agricoltura) risalgono al periodo fascista; ma non sono io a fare apologia di fascismo quando ve lo dico, siete voi a fare antiapologia di antifascismo quando lo riconoscete e vi ribellate in piazza contro tutto ciò, senza essere stati capaci, come legislatori pagati dal contribuente italiano, nel giro di venti anni, di porre rimedio a questa situazione!

Perché deve pagare il cittadino, anche se comunista? Non è giusto che il cittadino, comunista, socialista o missino, paghi perché sono ancora in piedi dite voi istituti repressivi che risalgono al tempo fascista. Perché deve pagare il contribuente, non importa di quale parte sia, se esistono ancora istituti risalenti al tempo fascista?

Ma credete voi che se il regime fascista fosse rimasto in piedi non avrebbe modificato le leggi 1934 e 1940? Le avrebbe modificate dal suo punto di vista, nel quadro del suo sistema: tanto è vero che, dal suo punto di vista e nel quadro del suo sistema, a cominciare dal 1923, modificò due leggi fondamentali: quella per l’ordinamento giuridico dei dipendenti dello Stato e quella sugli esami di maturità. Il fascismo era appena salito al potere e già rivedeva gli istituti fondamentali dal suo punto di vista.

Voi avete ragione quando criticate quel punto di vista, che non può essere il vostro, e avete avuto ragione 25 anni fa, quando avete abrogato talune leggi e taluni istituti fascisti che non potevano corrispondere ai vostri punti di vista. Ma quando, dopo 25 anni, ci venite a dire che non avete saputo sostituire quel che avete abrogato (vedi articoli 39, 40, 46 della Costituzione) con leggi aderenti e rispondenti al vostro stile, al vostro costume, al vostro sistema, e d’altra parte avete lasciato in piedi, in più di 25 anni, talune leggi di fondo che rispondono ai principi, al sistema e al costume di quell’epoca, dovreste vergognarvi di dichiararvi antifascisti, oppure dovreste sbrigarvi a dare un contenuto serio a codesto vostro antifascismo, se volete che le giovani generazioni non siano indotte soltanto, come forse volete, ad una protesta di tipo cinese o ad un abbandono di tipo nichilistico o ad astrarsi completamente dalla vita politica italiana o ad allontanarsi del tutto dalla società politica italiana.

Fate questi discorsi di contenuto, e noi siamo pronti a farli. Non crediate che noi siamo qui per fare la difesa a tutti i costi di leggi che, anche secondo il nostro punto di vista, possono essere vecchie e superate, tanto è vero che, tra le poche proposte di revisione organica, talune recano le firme dei deputati e senatori del Movimento sociale italiano. Questo è un brutto discorso per voi.

Mi scuso se la passione politica mi ha fatto alzare la voce. Dicevo che questo foglio ingiallito mi permette di rifare la storia politica e ideologica di questo dopoguerra attraverso l’iter dell’articolo 15 del disegno di legge in esame. Come sapete, questo è un articolo composito, è un ibrido, è un articolo che, nella sua buona sostanza, non ha nulla a che fare con la legge di cui trattasi, è un articolo in cui, per delega, è stato inserito il tema del trasferimento del personale, che è estraneo alla legge finanziaria, in cui, per delega, è stato inserito il principio del trasferimento delle funzioni, che è estraneo alla legge finanziaria, e in cui di straforo è stata inserita l’abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953, che è estranea essa pure alla legge finanziaria e che nel nostro ordinamento legislativo regionale non aveva mai trovato psoto in alcuna proposta di legge.

Questa è la conclusione di una vicenda legislativa che ha avuto inizio con il foglietto ingiallito cui ho fatto riferimento e che è proseguita. Vogliamo vederne le tappe? Affinché non possiate cogliermi in contropiede, tale iter rapidissimo della formazione dell’articolo 15 attraverso la storia politica d’Italia in questi venti anni, io lo mutuo (tanto per far piacere alla sinistra democristiana) da uno studio fatto dall’onorevole Luzzatto e pubblicato in una delle relazioni pregevolissime dallo stesso presentate contro precedenti disposizioni di legge sulle elezioni regionali.

L’onorevole Luzzatto ha ricostruito le tappe. La prima è quella che ho ricordato: 10 dicembre 1948, disegno di legge sulla Costituzione ed il funzionamento degli organi regionali, cioè legge-quadro. Seconda tappa: nel 1949 il disegno di legge che vi ho mostrato si è trasformato in Commissione, si è dilatato, e nello stesso sono state inserite dice chiaramente l’onorevole Luzzatto «dettagliate normazioni». Cioè, «da una prima legge-quadro puramente ordinativa si prendeva a passare, dal 1948 al 1949, ad una legge-quadro più dettagliata ed estesa».

Che vuol dire l’onorevole Luzzatto quando parla di legge-quadro più dettagliata ed estesa? Basta confrontare i testi per rendersene conto: vuol dire legge meno autonomistica, vuol dire legge con maggiori garanzie e cautele per lo Stato e con minori poteri per le regioni. Ho parlato dell’anno dal 1948 al 1949. Cercate di ricordare quel che accadeva allora in questo Parlamento, in Italia, nel mondo. Cercate di ricordare che l’anno in questione fu quello in cui Alcide De Gasperi dovette dar luogo, con contrasti violentissimi con l’estrema sinistra, all’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico. Cercate di ricordare tutto questo e forse collegherete le maggiori cautele restrittive di Alcide De Gasperi, regionalista di indubbia buona fede, nei confronti di un istituto regionale che egli voleva sì partorire ma con crescente cautela.

Dal 1949, terza tappa. Si arriva, cioè, all’approvazione della legge 10 febbraio 1953, n. 62. Aggiunge l’onorevole Luzzatto che «dai 40 articoli del disegno di legge governativo già si era giunti ai 75 articoli della legge». Erano dunque stati aggiunti, nel corso della prima legislatura, 35 articoli tutti intesi trattandosi di legge-quadro ad appesantire la cornice dello stesso, e quindi a rendere meno autonome le regioni, a precisare meglio, con leggi dello Stato, i compiti delle stesse. Articoli, dunque, intesi ad inquadrare più ferreamente, ad ingabbiare (è stata usata, non certo da noi, la parola «gabbia»; l’hanno usata, anche nel corso di questa discussione, i comunisti) le regioni a statuto ordinario.

Termina la prima legislatura e passa tutta la seconda dico passa tutta la seconda legislatura senza che si torni sull’argomento. Vogliamo ricordare a noi stessi i contenuti politici e programmatici della seconda legislatura? Sono gli anni dal 1953 al 1958, sono gli anni che cominciano con un invito rivolto il 28 luglio 1953 da Alcide De Gasperi al momento della sua ultima esperienza, subito fallita, di costituzione di un governo; sono gli anni dicevo nei quali Alcide De Gasperi si rivolge a questi settori chiedendone il voto.

Sono gli anni nei quali si passa dall’ultimo tentativo De Gasperi al governo Pella; sono gli anni in cui successivamente si giunge, sino al 1958, alle formazioni governative che non si squilibravano verso sinistra, che tenevano atteggiamenti possibilmente centristi, in qualche caso di centro-destra; quegli atteggiamenti che oggi vengono definiti moderati e che allora, qualche volta persino sui banchi della Presidenza del Consiglio, venivano chiamati di chiusura a sinistra e a tinte nazionali. Gli anni in cui, quando un Presidente del Consiglio parlava di «cara patria», non veniva ritenuto un patriottardo e riceveva gli applausi e i consensi, non solo nostri, ma di tutta quanta la Democrazia cristiana. In quegli anni non si parla di leggi regionali, né «quadro» né di altro tipo.

Passa un’intiera legislatura, il Governo non assume iniziative, il Parlamento non si occupa di questi problemi. Si deve arrivare fino all’ultimo anno della terza legislatura, quando il ministro dell’Interno onorevole Taviani presenta, il 21 novembre 1962, un disegno di legge di 30 articoli recante «Modifiche alla legge 10 febbraio 1953, n. 62».

Attenzione alla data: 21 novembre 1962. Era passato Segni, era passato Tambroni, erano passate le convergenze parallele, aveva avuto luogo il congresso della Democrazia cristiana a Napoli nel febbraio del 1962: in quel congresso si era manifestata (avrò modo di ricordarlo più avanti) una forte tendenza antiregionalista, capitanata dall’onorevole Scelga, dall’onorevole Andreotti, dall’onorevole Gonella (se non erro); quella tendenza era stata battuta, ma aveva pesantemente condizionato la maggioranza regionalista attraverso un deliberato del consiglio nazionale della Democrazia cristiana (che se non erro è proprio del novembre 1962) che statuisce che non si possa andare all’esperimento regionale se non nella garanzia che le maggioranze regionali e i governi regionali saranno coincidenti con la maggioranza di governo. Quindi, determinati accordi al centro, determinati accordi ferrei in tutta la periferia.

Quello era l’atteggiamento della Democrazia cristiana. Nel quadro di quell’atteggiamento riprende la vicenda che ha portato fino all’articolo 15 di questa legge.

L’onorevole Taviani viene autorizzato (o sospinto) a presentare, in nome di tutta la Democrazia cristiana, una nuova legge-quadro. Perché una nuova legge-quadro? Forse perché la precedente legge-quadro veniva considerata troppo restrittiva? No: perché, pur essendo la Democrazia cristiana riorientata verso la costituzione delle regioni, ma essendo allora la Democrazia cristiana (una Democrazia cristiana, badate, che veleggiava verso il centro-sinistra organico) orientata altresì verso un controllo politico di vertice e di base del centro-sinistra che escludesse i comunisti da qualsi-voglia partecipazione ai governi regionali, occorreva una legge-quadro proprio per questo più attenta e più vasta. Sicché, alla fine del 1962 viene presentata una nuova legge-quadro dal ministro Taviani, molto più estesa della vecchia legge n. 62 del 1953 che veniva considerata insufficiente.

«La I Commissione ricorda l’onorevole Luzzatto esaminò rapidamente nella III legislatura il disegno di legge, presentò il 14 gennaio 1963 un proprio nuovo testo esteso a nuove norme e a 43 articoli. Sia il disegno di legge governativo, sia il testo della Commissione in ancor maggiore misura, recavano talune modifiche della legge n. 62 del 1953, ulteriormente restrittive dell’autonomia regionale».

Quindi, siamo alla III legislatura, siamo ad una Democrazia cristiana avviata verso il centro-sinistra, ma avviata verso il centro-sinistra nella originaria formula dell’isolamento del Partito comunista, della estensione dell’area democratica dal centro alla periferia e viceversa.

La Democrazia cristiana, in questo quadro e ne ha tutto il diritto vuole le regioni, ma ritiene di dover assumere maggiori cautele proprio perché è in vista l’alleanza con i socialisti, proprio perché si tende a disincagliare i socialisti dai comunisti, proprio perché si sa che, per disincagliarli democraticamente e programmaticamente, bisogna disincagliarli nei centri di potere; proprio perché si sa che forte è la tentazione dei socialisti ad acquisire centri di potere anche insieme con i comunisti facendo il doppio gioco tipico della politica socialista di tutti i tempi nel nostro paese. Proprio per questo, nel momento in cui la Democrazia cristiana si approssima all’esperimento del centro-sinistra, essa mette le mani avanti e cerca una legge-quadro più ampia nella quale, oltre alle cautele dell’articolo 9 che rimane in piedi in questa nuova legge-quadro, vi sono cautele ben più ampie (delle quali non parlo stasera, ma ne parleremo nei prossimi giorni riferendoci ad altri articoli di questa legge). Si tratta delle cautele relative ai controlli.

Tra l’altro, lo dico solo di passaggio, stiamo andando verso la realizzazione della regione a statuto ordinario senza che una qualsivoglia legge-quadro abbia stabilito quali siano le modalità per i controlli di legittimità e di merito che la Costituzione stabilisce a proposito della legislazione regionale e degli atti amministrativi della regione. Guardate la serietà della maggioranza: stiamo andando alla realizzazione dell’ordinamento regionale, ma dei tribunali regionali di giustizia amministrativi nessuno ne sta parlando più seriamente. È un articolo della Costituzione di enorme importanza (i regionalisti dovranno riconoscerlo), di importanza ancora maggiore per gli autonomisti che non per noi, ma non se ne parla.

Quindi si procede con una vecchia legge-quadro che non contempla la norma fondamentale relativa ai tribunali regionali di giustizia amministrativa, nella decadenza, determinata dalla Corte costituzionale, relativa alle giunte provinciali amministrative, in uno stato di vuoto legislativo pauroso.

Cosa ci verrete a raccontare fra qualche tempo, ancora una volta? Che le giunte provinciali amministrative le ha istituite il fascismo e per questo non vi piacciono, ma che non avendo l’antifascismo saputo istituire null’altro si deve rimanere nel vuoto? Mi aspetto da un momento all’altro di essere tacciato di fascismo perché ritengo che fosse meglio lasciare le vecchie giunte provinciali amministrative piuttosto che dar luogo al vuoto giuridico e di controlli attuale. Non so di che cosa mi accuserete quando ripeterò che nell’ ormai vecchia legge-quadro del 1963-64 esistevano norme dettagliate per i controlli di legittimità e di merito sugli atti giuridici e amministrativi della regione; nella vecchia legge del 1953 non esistevano tali norme; oggi si abroga un articolo della vecchia legge del 1953 e si lascia cadere tutto il resto proprio da parte dei regionalisti.

L’onorevole Luzzatto diceva nella scorsa legislatura che era stato presentato «il 4 marzo 1964 un disegno d legge governativo ancora dal ministro dell’Interno onorevole Taviani, esteso a 47 articoli e ulteriormente restrittivo». Attenzione ancora alla data: 4 marzo 1964. Siamo pressappoco nei tempi del «colpo di Stato». Il centro-sinistra, appena sorto, è già in crisi, la Democrazia cristiana si rende conto che avrebbe anche potuto costituire un errore e continua ad essere cauta, a mettere le mani avanti, non vuole concedere troppo ai socialisti, presenta un nuovo disegno di legge-quadro per le regioni, più cauto dei precedenti.

E poi? Il testo nuovo diceva l’onorevole Luzzatto in una relazione del giugno 1964 che ora la Commissione licenzia, è stato portato addirittura a 99 articoli, e la minuziosa regolamentazione proposta, talune norme nuove inserite ulteriormente, restringono e ritardano l’autonomia regionale». Poi dal 1964, mese di giugno, si salta al 1970, mese di gennaio. Si vuole lasciare in piedi la vecchia legge Scelba del 1953, che a suo tempo fu aspramente criticata per i suoi contenuti manchevoli soprattutto dall’estrema sinistra, si abroga di quella legge l’unica norma che rappresentava e rappresenterebbe una cautela e un argine, non si parla più di altre leggi-quadro. Ma c’è di peggio: si rinuncia a quel poco di correttezza legislativa che i precedenti governi, anche di centro-sinistra, avevano dimostrato.

I precedenti governi avevano presentato un disegno di legge per il passaggio del personale: si tratta oggi di trasferirlo ad una delega inserita nell’articolo 15; avevano ritenuto di presentare un disegno di legge per il passaggio delle funzioni: viene degradato a delega anche questo; avevano presentato una timida leggina-quadro a proposito delle modifiche delle circoscrizioni comunali da parte delle regioni: non se ne parla nemmeno più; avevano preso impegno solenne in Parlamento di presentare almeno una legge-quadro (quella relativa all’agricoltura) e almeno un’altra (quella relativa all’urbanistica) e neppure di questo si parla più. Lo stesso onorevole Galloni si è lamentato questa mattina della mancata presentazione di simili provvedimenti di legge soprattutto per quanto riguarda l’urbanistica e ha dichiarato che non si può ragionevolmente, prudentemente andare verso la riforma regionale, senza che almeno per l’urbanistica esistano mi permetto aggiungere, anche per l’agricoltura e le foreste e credo di non essere fuori dalla realtà dei contenuti sociali ed economici attuali delle leggi-quadro.

Il tutto si riduce dopo che tanto numerose sono state le iniziative legislative e dopo che così vivacemente si è discusso su questi temi, nei diversi settori, per più di vent’anni all’ibrido di questo articolo 15, la cui storia è stata da me narrata per quanto riguarda i più lontani precedenti e illustrata brillantemente stamane dal collega De Marzio per quanto riguarda le ultimissime vicende.

A quanto detto dall’onorevole De Marzio sulle vicissitudini che hanno preceduto l’attuale formulazione dell’articolo 15 vorrei aggiungere poche cose, indirizzandomi soprattutto al ministro delle Finanze.

L’onorevole De Marzio è stato molto severo, e giustamente severo, quando ha espresso la opinione che il Presidente del Consiglio (il quale stamane non era presente) avrebbe dovuto dimettersi nel momento in cui veniva sconfessato dalla Commissione, e quindi dalla maggioranza parlamentare, l’operato del Governo. Esso infatti non aveva proposto la abrogazione dell’articolo 9 della legge del 1953, mentre la maggioranza di centro-sinistra della Commissione affari costituzionali si è pronunziata in tal senso, con le conseguenze a tutti ben note.

Per quanto mi riguarda, sarò meno severo dell’onorevole De Marzio, perché non mi riferirò alla responsabilità collegiale del Governo ma solo a quella, non dirò personale ma istituzionale, del ministro delle Finanze, che è qui presente.

Se è vero quanto abbiamo affermato io e colleghi di altre parti, anche della maggioranza, che mi sono permesso di citare, e cioè che l’abrogazione dell’articolo 9 della legge del 1953 comporta senza alcun dubbio una grossa lievitazione di spesa, non dico (sono più benevolo del collega De Marzio) che il signor ministro delle Finanze avrebbe dovuto dimettersi, perché vi sono ministri allergici alle dimissioni e credo che in questo caso la mia definizione sia abbastanza esatta per antiche esperienze; ma ritengo che, almeno, l’onorevole ministro delle Finanze avrebbe dovuto fornire qualche spiegazione.

Si noti che la relazione governativa dichiara testualmente: «È da ritenere che l’attuazione della delega stessa non sia condizionata alla previa emanazione delle cosiddette leggi-quadro, la cui adozione è invece prevista all’articolo 9 della legge 10 febbraio 1953, n. 62, quale presupposto per l’esercizio della potestà legislativa da parte delle regioni».

È dunque lo stesso ministro che sottoscrive l’affermazione che l’articolo 9 della legge del 1953 rappresenta il «presupposto» per l’esercizio della podestà legislativa regionale: e quando si parla di «presupposto», non se ne può non parlare anche in sede tecnica e finanziaria, con riflessi sulle previsioni di spesa.

Di fronte a modificazioni così profonde dell’impostazione del disegno di legge, il ministro avrebbe almeno dovuto alzarsi e spiegare le ripercussioni finanziarie di tale innovazione. Mi auguro che egli lo faccia e che riesca a spiegare come, dopo questa capitolazione di fronte alle pressioni dell’estrema sinistra, sia possibile mantenere immutata la previsione di spesa che il disegno di legge formulava proprio sulla base di quel «presupposto», che ora non è più tale.

Quanto all’emendamento all’articolo 15, sul quale l’onorevole De Marzio ha svolto stamane alcune facete osservazioni, rilevo soltanto che quell’emendamento (il capolavoro dell’onorevole Andreotti) reca le firme degli onorevoli Bressani, Bal-lardini e Mezza Maria Vittoria. Penso che la gentile collega… Mezza abbia esercitato in questo caso una funzione bivalente, anche per conto del Partito repubblicano italiano, che non si è associato (e vorremmo qualche spiegazione al riguardo) alla proposta degli altri gruppi.

A tale proposito devo poi darle, onorevole De Marzio, una cattiva notizia. Stamane, non essendo ancora giunto l’ultimo «corriere dello zar», ella, come parecchi di noi, pensava che l’onorevole Orlandi avesse detto il vero, quando con fiero cipiglio aveva annunciato che non si era rimangiato nulla; aveva ingoiato, ma era pronto a restituire attraverso la ripresentazione dell’emendamento forestale su cui tanto si è discusso l’altra sera. Caro De Marzio, avevi appena finito di parlare, che il «corriere dello zar» ci ha portato… Per carità, non mi riferisco alla Presidenza né a corrieri della Presidenza. “

PRESIDENTE: “È perfettamente inutile che ella precisi questo, onorevole Almi-rante, non mi sento chiamato in causa perché non ho corrieri. “

ALMIRANTE: “Nemmeno il Corriere della sera? 

PRESIDENTE: “Nessun corriere, sono solo. “

ALMIRANTE: “I riferimenti sono ben altri. Ripeto, il «corriere dello zar» ha portato un ultimo emendamento, firmato Orlandi, Fabbri e, tremate. Giolitti. Si sono messi d’accordo, si sono messi d’accordo sulle foreste; cioè è un accordo Migliarino-Pollino, se così posso dire, riferendomi a due note foreste che sembra interessino i due tronconi del vecchio socialismo. Non so se si tratti di un accordo tosco-calabrese o di un accordo tra socialdemocratici e socialisti, avvenuto con la mediazione gentile della Democrazia cristiana. Comunque a suo tempo lo commenteremo, io non intendo averlo illustrato perché è un pezzo prezioso; ascolteremo poi le illustrazioni dei colleghi, ai quali eventualmente risponderemo.

All’articolo 15, dopo la lettera a) del primo comma aggiungere: «Saranno altresì stabiliti i vincoli atti a garantire l’ inalienabilità, l’indisponibilità o la destinazione» (qui non si capisce bene se sia «e» la destinazione, oppure «o» la destinazione, l’onorevole Andreotti con le «e» e con le «o» è capace di fare dei capolavori, l’abbiamo visto anche con l’altro articolo) «dei beni di cui alla prima parte del comma quinto dell’articolo 10, quando ciò sia necessario alla tutela degli interessi generali dello Stato in rapporto alla natura dei beni».

Quindi qualcuno accerterà la natura dei beni; accertata la natura dei beni qualcuno accerterà ed attesterà, nel quadro dell’autonomismo più spinto naturalmente, e più avanzato in una situazione parafederalistica, quale sia l’interesse generale dello Stato. Poi si vedrà, può darsi che l’interesse generale dello Stato a Migliarino sia manciniano, nella Selva del Pollino sia principesco. E magari a questo punto si chiederà qualcosa che rappresenti anche l’interesse generale dei socialdemocratici. “

PRINCIPE: “Interessi principeschi certamente non ci sono. Siamo molto lontani dal Pollino. “

ALMIRANTE: “Nessuna allusione all’onorevole Principe. “

PRINCIPE: “Ne prendo atto. “

ALMIRANTE: “Nessuna allusione all’onorevole Principe; però se vi sono interessi sono principeschi, e vi sono anche in Calabria degli interessi principeschi che per avventura possono essere manciniani; questo può capitare. E se siamo bene informati, questi interessi raramente coincidono, in termini politici, con quelli che possono essere considerati gli interessi principeschi.

Comunque, caro De Marzio, sei stato deluso nella tua aspettativa, perché fuori dal Parlamento l’onorevole Orlandi non ha respirato a sufficienza quelle arie corroboranti che tu gli auguravi, o forse lo hanno tenuto qui dentro perché non le potesse respirare; l’onorevole Preti non è intervenuto; l’onorevole Lupis ci ha deliziato della sua presenza estetica per qualche minuto ed è scappato via; c’è soltanto l’onorevole Tremelloni, che tace ed acconsente qualunque cosa gli venga detta da qualunque parte e che pertanto non rappresenta un interlocutore valido nei momenti polemici.

Ciò avendo precisato circa la storia di questo testo, desidero riferirmi nella sostanza dei contenuti alla gravità dei problemi che il testo stesso solleva e in ordine a quanto ho già accennato, e in ordine soprattutto al problema di fondo, il quale non è l’abrogazione dell’articolo 9 in quanto tale, ma è rappresentato dal modo di intendere la funzione legislativa delle regioni.

L’onorevole Galloni ha stamane detto cosa sulla quale noi consentiamo in pieno, se ho udito bene. E mi consentano i colleghi di dire onestamente «se ho udito bene» perché, non avendo avuto modo di consultare il testo stenografico, non vorrei essere indotto in errore. Quindi, se per caso ho udito male, accetto una eventuale precisazione da parte dell’onorevole Granelli, che penso sia autorevole interprete dell’onorevole Galloni.

Se ho udito bene, e ho udito quelle parole con vivo compiacimento, l’onorevole Galloni ha detto che bisogna assicurare due limiti invalicabili all’attività delle regioni in genere. Tali limiti invalicabili l’onorevole Galloni, sempre se ho udito bene, li ha così indicati: 1) la parità del trattamento giuridico ai cittadini di qualsiasi regione; 2) l’interesse della nazione e l’interesse delle altre regioni che sono espressamente indicate nel preambolo dell’articolo 117 della Costituzione.

Penso di essere stato fedele nel riferire quanto l’onorevole Galloni ha detto.

Orbene, se è vero che alle regioni bisogna porre questi due limiti, e non soltanto perché essi, o almeno uno di essi, sono chiaramente indicati nella Costituzione, ma perché altrimenti crolla la certezza del diritto e crolla l’unità e la sovranità dello Stato, allora credo che l’onorevole Galloni, che ringrazio per avere indicato questi due limiti, con ottime intenzioni non può che associarsi a noi nel combattere quanto meno l’abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953, perché abrogando quel limite si vengono a far cadere questi altri due.

La disputa che sto facendo in questo momento non è una disputa costituzionale. Questa l’abbiamo già fatta ed oggi ha parlato ampiamente sul tema costituzionale l’onorevole Servello. Quindi, non m’interessa che questi limiti siano stati scritti come in realtà sono e nell’articolo 117 e in tutto il contesto della Costituzione. Infatti, se per avventura il costituente si fosse dimenticato di asserire, come ha asserito, che gli interessi di una regione e l’esercizio della potestà legislativa ed amministrativa da parte di una regione non devono ledere l’interesse e l’esercizio della potestà legislativa ed amministrativa da parte delle altre regioni, ciò sarebbe stato per me, per noi, assiomatico egualmente.

Se il costituente non avesse fatto riferimento agli interessi superiori della nazione nel preambolo dell’articolo 117 della Costituzione, ciò sarebbe stato per me, per noi e credo per tutti, tranne che per l’estrema sinistra, assolutamente ovvio ed evidente. E se nella Costituzione, per avventura, non è detto o chiarito che i cittadini italiani resteranno cittadini italiani di pieno e di pari diritto dopo l’entrata in vigore dell’ordinamento regionale a statuto ordinario, io credo che sia per tutti quanti noi evidente che la certezza del diritto e della parità di trattamento deve essere assicurata ai cittadini italiani di ogni parte d’Italia.

Orbene, non mi sarà molto difficile dimostrare che, entrando in vigore l’articolo 15 del disegno di legge in esame, abrogando l’articolo 9 della legge n. 62, del 1953, la certezza del diritto scomparirà. Non mi sarà molto difficile dimostrare che, entrando in vigore l’articolo 15, non sarà possibile impedire che l’attività legislativa ed amministrativa di una regione contrasti e venga a conflitto e leda gli interessi della nazione.

Onorevole Granelli, mi rivolgo a lei come rappresentante della stessa corrente alla quale appartiene l’onorevole Galloni. Sono costretto a parlare alle correnti, perché non è più possibile parlare ai partiti, riferendosi per lo meno alla Democrazia cristiana e ai partiti di centro-sinistra. Il discorso precedente, onorevole Granelli, non ha nulla a che vedere con l’altro discorso fatto stamane dall’onorevole Galloni circa l’aumento dei conflitti inevitabile lo sappiamo benissimo fra regioni e Stato e nell’ambito delle potestà della Corte costituzionale.

È logico, è inevitabile, è anche deprecabile, secondo il nostro punto di vista, che vorrete accettare come un punto di vista, ma è logico, è inevitabile, è nelle previsioni ragionevoli che, quando le regioni da 5 saranno diventate 20, la Corte costituzionale dovrà occuparsi quasi costantemente, direi quasi unicamente, di quello che l’onorevole Galloni stamattina indicava, d’altra parte, come il compito fondamentale della Corte costituzionale (tesi secondo noi molto discutibile, ma è la tesi esposta stamane dall’onorevole Galloni) quello, cioè, di dirimere i contrasti tra Stato e regione, mentre tutti gli altri compiti, pur importantissimi, della Corte costituzionale sarebbero di secondaria importanza.

Quindi, avrebbe scarsa importanza il giudizio di legittimità della Corte costituzionale sulle leggi dello Stato e avrebbe straordinaria importanza il giudizio di legittimità della Corte costituzionale sulle leggi regionali. È una strana tesi. Comunque, è la tesi, rispettabile, che stamane l’onorevole Galloni ha sostenuto. Ma ciò non ha nulla a che vedere con quanto io stavo dicendo a proposito della inevitabile fine della certezza del diritto per i cittadini in quanto tali e della inevitabile offesa agli interessi di altre regioni e agli interessi generali della nazione, una volta che siano costituite e funzionino le regioni a statuto ordinario.

Ma, prima di inoltrarmi in questa (d’altra parte è piuttosto facile, io credo) rapida dimostrazione, desidero riferire, perché occorre farlo e perché ognuno si assuma le proprie responsabilità, le posizioni politiche che in un recente passato sono

state assunte dai regionalisti a proposito di questo tanto discusso articolo 9. Vorrei citare, prima di tutto, il parere manifestato in quest’aula da un onorevole collega che è presente ed è investito del ruolo di ministro, l’onorevole Carlo Russo.

Nel 1951 l’onorevole Carlo Russo era ancora giovane: non era ancora diventato ministro, non era diventato ancora nemmeno sottosegretario, era alla vigilia di diventarlo, ma era e lo dico con la massima sincerità, come l’onorevole Carlo Russo sa uno dei più eminenti personaggi per l’interesse, la passione, l’intelligenza e lo studio che poneva in particolare a questi problemi. Fu, credo, in riferimento a queste sue obiettive qualità, ma a nome della maggioranza e del Governo di allora, che l’onorevole Carlo Russo ebbe l’onore di essere relatore in questa aula sulla legge n. 62 del 1953 e quindi anche sull’articolo 9, ed ebbe l’onore di esserne il difensore, non di ufficio però. Non credo che ne fosse il difensore di ufficio, perché se mi riferissi all’onorevole Carlo Russo, sia pure edizione 1951, in questi termini, sminuirei la stima che ho avuto sempre di lui, anche se lo considerassi in un solo momento della sua attività politica e parlamentare come difensore d’ufficio di una causa non sentita. Sono sicuro che l’onorevole Carlo Russo non avrebbe accettato di fare il relatore per la maggioranza, se non avesse sentito la causa.

L’onorevole Carlo Russo, riferendosi in quest’aula (seduta del 15 novembre 1951) al famoso articolo 9, ebbe testualmente a dire: «L’onorevole Martuscelli» (un egregio collega di parte socialista che non abbiamo più fra noi) «in sostanza ha ripreso argomenti già sviluppati in sede di discussione generale. L’articolo 9, così com’è concepito, costituirebbe una violazione dell’articolo 11 della Costituzione. Questa accusa, a mio giudizio, non ha alcun fondamento».

Era il suo giudizio di allora. Voglio sperare che i suoi giudizi costituzionali del 1951 non siano stati mutati per opportunità politica.

Egli aggiungeva: «Noi abbiamo chiaramente ripetuto che per princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato intendiamo precisamente i princìpi fondamentali posti dallo Stato nelle singole materie, come aveva proposto l’onorevole Tosato alla Costituente all’inizio, e non i principi generalissimi dell’ordinamento giuridico. La Commissione, nell’opporsi all’emendamento Martuscelli, è dunque fermamente convinta di rispettare la lettera e lo spirito della Costituzione e nello stesso tempo quei princìpi di logica che devono guidarci nell’approvazione di questa legge così delicata, se veramente vogliamo che l’ente regione raggiunga quei risultati concreti che non potranno che essere ostacolati dal frequente sorgere di conflitti e di contestazioni».

L’onorevole Galloni questa mattina quasi esultava per il possibile sorgere o per l’accentuarsi di conflitti e di contestazioni. L’onorevole Carlo Russo io credo più meditatamente alcuni anni fa, quando la situazione politica di maggioranza era diversa, riteneva non augurabili i conflitti e le contestazioni fra Stato e regione; e penso che lo ritenga anche ora, da quel personaggio saggio che è; e pensava che, per evitare o per ridurre al minimo i conflitti e le contestazioni, come a norma di ogni buon legislatore, fosse opportuno ed anzi necessario sancire la costituzionalità

piena di tutto l’articolo 9 della prima e della seconda parte, badate bene e quindi la sua permanenza nella legge quadro.

«L’articolo 9 giustamente da parte dell’onorevole Martuscelli e dell’onorevole Carpano Maglioli», un altro collega socialista non più tra noi, «è stato indicato come l’articolo di maggiore importanza di questa legge». Se quindi allora tutti quanti voi davate tanta importanza a quell’articolo, sarà ammissibile che noi oggi diamo tanta importanza alla sua abrogazione. «A nostro giudizio è proprio con questo articolo che noi fughiamo le preoccupazioni di coloro che temono la costituzione dell’ente regione per il pericolo di suddividere l’Italia in tanti piccoli Stati l’un contro l’altro armato»: quindi, se non altro per fugare le apprensioni di chi temeva allora e teme ancora oggi il regionalismo come fonte di disgregazione dello Stato, bisognava tenere in piedi l’argine e la barriera rappresentata dall’articolo 9.

Oggi gli stessi uomini ci vengono a raccontare che non è più un argine, che non è più una barriera; che anzi gli argini e le barriere siamo noi, che li poniamo quando vogliamo che quell’ostacolo sia abbattuto! Ma un poco di coerenza è pure opportuno chiedervela!

L’oratore continuava: «Noi troviamo in questo articolo 9, manifestazione della nostra volontà di attuare l’ordinamento regionale nel pieno rispetto dell’unità della Repubblica italiana, una garanzia contro questi pericoli».

Quindi i pericoli non erano immaginari, perché se lo fossero stati, se fossero stati pericoli propagandisticamente messi in piedi da noi o da altri, se fossero stati fantasmi, non ci sarebbe stato bisogno, per combatterli, di un articolo così importante, inserito in una legge quadro così importante. I pericoli erano reali nel 1951; occorreva, contro di essi, uno scudo che, per avventura, è anche lo scudo crociato. Ora si abbassa lo scudo, si alza la celata, si pigliano in pieno volto i manrovesci dell’estrema sinistra, e si considerano immaginari i pericoli che si sono considerati onestamente reali fino a qualche anno fa.

A questo punto interrompeva l’onorevole Scelba, allora ministro dell’Interno e autore della legge, il quale in quest’aula e in quella seduta diceva: «Se sopprimessimo l’articolo 9 noi finiremmo per attribuire alle regioni una competenza che la Costituzione non ha inteso minimamente di riconoscere».

Ora io non so, colleghi della Democrazia crisitiana, quale autorità voi attribuiate adesso all’onorevole Scelba. Ho l’impressione che egli sia un personaggio di rilievo e di rispetto nell’ambito della Democrazia cristiana, anche nell’assetto attuale del partito.”

MARCHETTI: “È Presidente del Parlamento europeo! “

ALMIRANTE: “Ho l’impressione che l’onorevole Scelba sia stato da voi promosso non per rimuoverlo; voglio sperarlo! Non credo che questo sia lo stile del vostro partito; ed ho l’impressione, comunque, che prima di gettare al macero o nel cestino della carta straccia dichiarazioni come queste, tassative, fatte allora, non tanti anni fa, dall’onorevole Scelba su questa stessa norma a nome di tutta la Democrazia cristiana e di tutto il Governo, ci dobbiate pensare.

Mi pare sia indice di leggerezza e di scarso rispetto per voi stessi calpestare quella che è una vostra tradizione politica, che può essere anche un vostro merito politico; oppure venirci a dire: «Noi vogliamo non più le regioni che volevamo allora, ma un altro tipo di regioni, perché è necessario volere un altro tipo di regioni per un altro tipo di Stato, perché è necessario dar luogo ad un altro tipo di Stato, non per realizzare le famose riforme sociali, ma per ottenere consensi politici che ci permettano di realizzare una maggioranza estesa fino al Partito comunista».

Anche questo, comunque, sarebbe un discorso; ma voi non fate più l’uno e non avete il coraggio di fare l’altro; ed io penso che questo sia il maggiore difetto, per non dire la maggior colpa, della Democrazia cristiana nel suo assetto attuale.

Lo stesso onorevole Carlo Russo, nella seduta del 16 dicembre 1949, aveva detto in quest’aula: «Quando l’articolo 117 pone tra le materie di competenza della regione l’agricoltura, è evidente che occorre una legge dello Stato che fissi i principi fondamentali, se non vogliamo assistere alla paradossale situazione di una regione che detta norme a favore dei contadini e di un’altra regione che, avendo una maggioranza conservatrice, si pone su un terreno nettamente opposto».

Onorevole Carlo Russo, la pensa ancora allo stesso modo? Io ritengo di sì, perché non si tratta di pensarla in un modo o nell’altro, ma di porsi di fronte a prospettive reali; e se ella la pensava così nel 1949, nel 1951, negli anni successivi, e la pensa ancora così insieme a tanti suoi colleghi, la certezza del diritto e il principio della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, onorevole Granelli, dove vanno a finire?

Se, per avventura, in una regione si dà luogo a un certo tipo di riforma agraria, intesa dal punto di vista degli interessi di classe, e in un’altra regione si dà contestualmente luogo a un altro tipo di riforma agraria intesa in senso che potreste definire, che potremmo anche noi definire conservatore, la certezza del diritto dove va a finire?

Non pensate voi che un cittadino, ad esempio, potrebbe essere trattato in due diverse guise se per avventura egli fosse possessore come accade anche ad alcuni grossi personaggi della Democrazia cristiana, di fondi cosiddetti rustici in diverse parti d’Italia? Che cosa accadrebbe ai possessori di cosiddetti fondi rustici in Umbria e nelle Puglie non parlo mica a caso: il mio potrebbe anche essere un riferimento preciso i quali in Umbria vedessero segnalati i propri interessi legittimi con una determinata legislazione da parte di un governo progressista, e con un’altra determinata legislazione nelle Puglie da parte di un governo per avventura non progressista o addirittura conservatore? E la certezza del diritto? E l’unità del diritto? E quella garanzia che l’onorevole Galloni statuiva oggi generosamente e chiaramente essere indispensabile per poter dare luogo all’assetto regionale? Mi sembra che questo sia un tema sul quale si debba riflettere.

Ricordo anche, perché è divertente ricordare le opinioni espresse dai colleghi in occasioni recenti, l’opinione espressa a proposito dell’articolo 9 da un collega di parte comunista che credo non sia in odore di santità (non vorrei arrecargli ulteriore danno), ma che in quel momento parlava a nome del partito, del gruppo comunista: l’onorevole Caprara, il quale in quest’aula, nella seduta del 25 maggio 1964, così diceva: «Per ora, intanto, siamo alla discussione della legge di modifica del testo del 1953, la legge n. 62. La nostra posizione su quella legge è stata sempre di sostenere che una sua modifica non è oggi indispensabile. I consigli regionali possono entrare, una volta eletti, nella pienezza delle loro funzioni legislative anche prima della emanazione delle leggi-cornice, in virtù dell’articolo 9, per talune materie».

Quindi nel 1964, il 25 maggio, il Partito comunista in quest’aula accettava l’articolo 9 non solo nel primo comma ma anche nel secondo, sulla costituzionalità del quale noi abbiamo sempre detto, con molta correttezza e lo ha ripetuto molto giustamente l’onorevole Galloni stamane che si sarebbe potuto a lungo discutere.

Esso introduce infatti una discriminazione tra le materie legislative attribuite dall’articolo 117 della Costituzione alle regioni; ed è molto difficile pensare che il legislatore oridnario, con quel secondo comma dell’articolo 9, potesse stabilire una discriminazione tra quelle materie legislative che nell’articolo 117 sono elencate tutte di fila e in un solo comma che non ammette discriminazioni.

Pertanto, se una eccezione poteva farsi noi l’abbiamo fatta a suo tempo all’articolo 9, essa era contro la costituzionalità del secondo comma.

Ma l’onorevole Caprara e il Partito comunista nel 1964, quando sapevano di non poter tirare troppo la corda nella legge elettorale regionale identica nel testo a quella presentata dai repubblicani avrebbero accettato finanche che fosse introdotta l’elezione di secondo grado purché si facesse presto; e quegli stessi comunisti, che avevano allora interesse a far presto, inghiottirono l’articolo 9, primo e secondo comma, e tutta la legge-quadro del 1953 perché allora le loro tesi in favore dell’articolo 9 erano del tutto strumentali, esattamente come lo sono oggi le loro tesi contro l’articolo 9, d’accordo con voi. E con siffatti tipi voi vorreste stabilire dei patti costituzionali? Con siffatti tipi si possono fare degli accordi politici e niente altro: la vernice di questi patti sarebbe forse costituzionale, ma essa non ricoprirebbe nulla di serio.

Ma completiamo il quadro. Un altro difensore dell’articolo 9 della legge del 1953 è il socialista onorevole Di Primio. Anche qui non vorrei arrecargli danno per le sue complesse vicende abuzzesi; non so se mi sia lecito parlarne. Ma l’onorevole Di Primio in quest’aula, nella seduta del 4 giugno 1964, ha dichiarato, e non a titolo personale ma a nome del suo gruppo e del partito: «La disposizione dell’articolo 9 della legge del 1953 n. 62, non può essere colpita dalle eccezioni di illegittimità costituzionale che sono state affacciate, in quanto il legislatore ha rigorosamente rispettato i principi stabiliti dall’articolo 117. Pertanto le regioni possono subito iniziare la loro attività legislativa in relazione alle materie del secondo comma, mentre in relazione alle materie del primo comma dell’articolo 9 debbono attendere che lo Stato emani le leggi-cornice».

Vedo che è arrivato l’onorevole Di Primio. Ecco, io citavo l’onorevole Di Primio 1964 e sono lieto di metterlo a confronto con l’onorevole Di Primio 1970. Quantum mutatus ab illo! Io capisco, onorevole Di Primio, che si possa mutare ragionamento politico in relazione a una diversa… “

DI PRIMIO: “Non è affatto mutato il ragionamento politico. “

ALMIRANTE: “Allora è peggio, perché io le stavo dicendo cortesemente che capisco che si possa mutare… “

DI PRIMIO: “Il discorso è meramente costituzionale. “

DELFINO: “Forse ha dimenticato quello che ha detto. “

ALMIRANTE: “Allora, onorevole Di Primio, le ricorderò che ella, in quest’aula, nella seduta del 4 giugno 1964 ebbe a dire testualmente: «La disposizione dell’articolo 9 della legge del 1953, n. 62, non può essere colpita dalle eccezioni di illegittimità costituzionale che sono state affacciate, in quanto il legislatore ha rigorosamente rispettato i principi stabiliti dall’articolo 117. Pertanto le regioni possono subito iniziare la loro attività legislativa in relazione alle materie del secondo comma, mentre in relazione alle materie del primo comma dell’articolo 9 debbono attendere che lo Stato emani le leggi-cornice».

Qui siamo in sede costituzionale e allora, secondo questo parere che ella non ha modificato, certamente ella voterà contro l’articolo 15. “

DI PRIMIO: “No! “

ALMIRANTE: “Onorevole Di Primio, io confesso che le vie del socialismo sono ancora più larghe e numerose di quelle del Signore e noi attendiamo dalla sua cortesia che ella voglia spiegarci, se crederà di prendere la parola, facendo eccezione alle consegne cui finora sembra essersi attenuta larga parte del suo gruppo, come ella farà a votare in favore e al tempo stesso contro la norma statuita nell’articolo 15, perché, delle due, l’una (tertium non datur): o l’articolo 9 era costituzionale come ella sosteneva allora e dice di sostenere ancora adesso…”

DI PRIMIO: “Non sosteniamo che sia anticostituzionale, ma facciamo una questione di opportunità politica. “

ALMIRANTE: “No, onorevole Di Primio. Io la ringrazio del chiarimento, ma si dà il caso__ “

DI PRIMIO: “Difatti, la questione investiva un profilo costituzionale nel mio discorso di allora. “

ALMIRANTE: “…che il relatore per la maggioranza della Commissione affari costituzionali, l’onorevole Ballardini, appartenga al suo stesso gruppo parlamentare; si dà il caso che la proposta di abrogazione dell’articolo 9 della legge del 1953, n. 62, sia stata avanzata in Commissione affari costituzionali dall’onorevole Ballardini e dalla maggioranza della Commissione…”

DELFINO: “L’ha votata anche l’onorevole Di Primio. “

ALMIRANTE: “…con motivazioni prettamente costituzionali. Si tratta infatti di una Commissione che non poteva esaminare nel merito il problema, tanto è vero che io mi sono lamentato, come membro di quella Commissione, che essa sia stata espropriata del merito politico e abbia avuto solo la possibilità di dare un parere costituzionale.

Il suo vicino di banco, onorevole Ballardini, socialista come lei, per motivi costituzionali ha proposto l’inserimento del comma abrogativo dell’articolo 9. Ella ha votato in quel momento in piena coscienza, da quel deputato intelligente che è, per motivi costituzionali, perché in quel momento la Commissione affari costituzionali si esprimeva per motivi costituzionali. Motivi di opportunità politica possono essere espressi in quest’aula, ma non sono stati espressi e non potevano essere espressi nella sede della Commissione affari costituzionali, chiamata a dare un parere scritto. “

DI PRIMIO: “Anche questo è inesatto, perché la competenza della Commissione affari costituzionali non è circoscritta soltanto al profilo di costituzionalità delle leggi, ma investe altresì l’ordinamento dello Stato. “

ALMIRANTE: “Onorevole Di Primio, ella sostiene esattamente la stessa tesi che ho sostenuto io con scarsa fortuna in Commissione. Quando l’ho sostenuta, l’onorevole Ballardini era d’accordo con me. Egli assunse correttamente l’impegno di chiedere alla Presidenza della Camera che la legge venisse deferita alla Commissione affari costituzionali in via primaria e per il merito politico, in quanto quella Commissione ha, tra le sue competenze, quella che s’ intitola alle regioni. La Presidenza della Camera ha ritenuto di andare in diverso avviso. La legge è stata esaminata nel merito politico e tecnico in sede di Commissione finanze e tesoro, tanto è vero che ne è relatore per la maggioranza l’onorevole Tarabini, e non l’onorevole Ballardini.

La Commissione affari costituzionali è stata riunita avendo all’ordine del giorno l’espressione di un parere di costituzionalità su questo provvedimento. All’atto di esprimere il parere di costituzionalità, onorevole Di Primio, su proposta del suo collega di partito e di gruppo onorevole Ballardini, e per motivi costituzionali, la Commissione ha rappresentato la necessità di abrogare l’articolo 9 della legge n. 62 del 1953. Non accettiamo che si cambino le carte in tavola. Le stavo dicendo cortesemente che per motivi politici ella può anche mutare atteggiamento. “

MACCIOCCHI MARIA ANTONIETTA: “Basta!” (Proteste del deputato Delfino Apostrofe del deputato Tedeschi all’indirizzo del deputato Delfino Vivissime proteste del deputato Delfino).

PRESIDENTE: “Onorevoli colleghi! “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, mi dispiace dell’incidente, e mi dispiace soprattutto che sia stato provocato dall’interruzione di una collega, la quale, non avendo mai parlato, ha detto «basta» perché il suo «basta» fosse inserito nel resoconto stenografico.”

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, la prego di non raccogliere le interruzioni e di proseguire nel suo intervento. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, ella mi dà cortesemente atto che stavo in argomento. Non avevo l’impressione di provocare chicchessia nel momento in cui contestavo ad altre parti politiche i loro precedenti e attuali atteggiamenti.

Poiché mi stavo riferendo all’atteggiamento dell’onorevole Di Primio e poiché accanto a lui c’è l’onorevole Ballardini, io intendo riprendere a questo punto un argomento al quale ho accennato in precedenza, mentre l’onorevole Ballardini non era presente.

Io mi sono doluto che, in ordine a questo disegno di legge, e in particolare in ordine all’articolo 15, si dia luogo a quella che ho chiamato revisione strisciante della Costituzione. Ne do subito un esempio attraverso quanto l’onorevole Ballardini ha scritto nella sua relazione a nome della maggioranza della Commissione affari costituzionali, facendo rilevare che l’onorevole Ballardini ha scritto una frase, che io adesso vi leggerò, prima che l’onorevole Andreotti avesse raggiunto il noto compromesso sul testo definitivo dell’articolo 15: quindi l’onorevole Ballardini ha scritto questa frase soltanto e subito dopo che la maggioranza della Commissione affari costituzionali aveva proposto per motivi costituzionali l’abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953.

Ella, onorevole Ballardini, ha scritto: «Il legislatore regionale può subito legiferare rispettando i principi fondamentali delle leggi dello Stato. Né si dica che tali principi possono non esserci, poiché il vuoto legislativo non esiste. Se tali limiti siano o meno rispettati valuterà il Governo, nell’esercizio del suo potere di controllo e di competenza, rinviando o, in ultima istanza, impugnando la legge regionale che ritenga non rispettosa di detti principi. La Corte costituzionale infine dirimerà il conflitto».

In altre parole ed è questo il passo sul quale io voglio attirare la sua cortese attenzione, onorevole Ballardini la determinazione dei principi fondamentali delle leggi dello Stato spetta sì al legislatore statale, ma se questi non vi provvede in modo espresso, vi soccorre l’opera dell’interprete e precisamente del legislatore re-

gionale, del Governo e della Corte costituzionale, nei momenti e con le procedure previste dalla Costituzione. Ora, questa concezione, secondo cui un Parlamento regionale e un Governo regionale potrebbero essere interpreti della legge e in questo caso interpreti della legge dello Stato io l’ho trovata, di rimbalzo dalla sua relazione, anche nell’intervento di altri colleghi.

Stamane, l’onorevole Galloni ha ripreso questa stessa tesi, asserendo che, ai sensi della Costituzione, l’ente regione potrebbe essere interprete della legge dello Stato.

lo vorrei sapere dalla sua cortesia, come relatore per la Commissione affari costituzionali, qual parte mai della Costituzione possa autorizzare una siffatta interpreta-zione (tanto da restare vicino al vocabolo da lei evocato), in qual parte della Costituzione si trovi la giustificazione della tesi secondo cui la regione può essere interprete della legge dello Stato.

La Costituzione statuisce altro: statuisce quali siano i limiti della legislazione regionale, pone limiti che lo stesso onorevole Galloni stamattina riconosceva. Si vedrà poi quali siano gli strumenti atti costituzionalmente a garantire che si resti entro tali limiti. Ma di limiti si tratta e non di autolimiti.

Quando dal concetto del limite imposto dalla Costituzione (e che potrebbe per avventura essere attuato anche attraverso uno strumento diverso dall’articolo 9 della legge n. 62 del 1953, se si ritenesse noi non lo riteniamo che il primo comma di quella legge sia incostituzionale) quando, dicevo, dal concetto del limite imposto alla regione, e se non vi piace imposto dal limite fissato dal costituente, si passa al concetto di autolimite, ci si trasferisce in una diversa sfera costituzionale, perché cadono le barriere, cadono le dighe quali che esse siano, cade l’unità dello Stato e si arriva ad una concezione che non è più neppure federalista, ma autonomistica in senso anarcoide.

Se neppure per l’attività legislativa delle regioni, prevista dall’articolo 117, è possibile istituire un limite che non sia un autolimite; se il limite diventa opinabile; se

il limite è soggetto ad interpretazione, onorevole Ballardini, ella mi insegna che si tratterebbe di un’ interpretazione senza alcun dubbio politica, cioè mutevole da regione a regione e all’interno di una stessa regione, a seconda del tipo di maggioranza e di governo che quella regione esprimesse in un mutato momento.

Se si passa dal concetto del limite obiettivo al concetto dell’autolimite, si abbia almeno il coraggio di dirlo. Questa è una modificazione costituzionale di fondamentale importanza; questo è un nuovo tipo di Stato cui si vuol dare vita attraverso un tipo di revisione della Costituzione che io non accetto e contro cui lo dico con tutto il riguardo, onorevole Ballardini, perché non voglio suscitare incidenti insorgo con tutte le mie forze.

Quando si vuol rivedere la Costituzione per dar luogo a un nuovo tipo di Stato, migliore dell’attuale, bisogna prima di tutto tentare di dimostrare tale assunto, dando sostanza concreta alle proprie proposte di revisione costituzionale e presentando un nuovo testo del titolo quinto della Costituzione italiana. Un testo non più, onore-

vole Marchetti, federalistico perché qui, checché se ne dica, siamo ben al di là del federalismo, siamo in piena anarchia ma un testo nuovo per una regione nuova per uno Stato nuovo. Su questo mi sembra non possano esservi dubbi.

Io ritengo e anche questo vorrei dirlo sommessamente e con tutto il riguardo

che il ginepraio nel quale si è invischiata la maggioranza regionalistica derivi, per gli uomini in buona fede che, nonostante tutto, ritengo ancora numerosi tra di noi dallo scarso studio con il quale vi siete applicati al problema.

Mi permetto anche di spiegarvi perché oso dire una cosa tanto grave, in quanto la mia accusa non si rivolge agli individui, ma al sistema. La partitocrazia e soprattutto la partitocrazia di potere impigrisce terribilmente il parlamentare. Da più di vent’anni noi stiamo solo in apparenza facendo, qui dentro, lo stesso mestiere. In realtà, stiamo facendo un mestiere profondamente diverso. E non dico che ciò sia dovuto a nostro merito o a vostro demerito; la situazione è diversa e di ciò vi dovete rendere conto.

Da più di vent’anni, tranne pochissime eccezioni, voi siete occupati in cure di governo o in cure e lo dico senza malizia di sottogoverno. Siete scarsamente occupati nelle cure parlamentari perché sapete come si deve votare, quel che si deve votare e sapete anche se non lo sapeste basterebbero le statistiche diramate dall’onorevole Andreotti con solerte cura per far credere agli ingenui che il gruppo demo-cristiano sia il più diligente di tutti giungere sempre puntualmente alle votazioni.Il

tormento per lo studio dei problemi non vi appartiene, perché costa fatica. Il tormento per l’approfondimento dei problemi non vi conviene, perché è incomodo. La dialettica sui problemi, la discussione sui contenuti non fanno parte del vostro costume parlamentare, di parlamentari della maggioranza, di una maggioranza di potere, perché non solo sono incomode, ma possono essere inutili e, in qualche caso, possono essere pericolose. Sicché si arriva, o al silenzio per legislature intere su problemi di questo genere, o al «basta», gridato da qualcuno che non sa nulla, che non ha mai capito nulla, che non si è mai occupato di nulla, che ha fatto il parlamentare ma che non è mai stato un parlamentare.

Dico questo senza alcun disprezzo, ma, anzi, con qualche umano compatimento perché noi non proviamo alcun gusto, a differenza di voi, nel recitare questa parte.

Vi è, infatti, tra le nostre rispettive posizioni una certa distanza di contenuto che, mentre non ci nobilita personalmente non siamo per niente migliori di voi

però nobilita la nostra battaglia, che è una battaglia con una sua impostazione, con un suo fine, con i suoi metodi di stile e di costume.

Perché dico questo? Perché ho l’impressione che non abbiate ben meditato che cosa avverrà se questo disegno di legge, e l’articolo 15 in particolare, sarà approvato anche dal Senato: essa diventerà qualcosa di molto importante, un meccanismo ve ne renderete conto che ruoterà quindici volte al giorno in ogni parte d’Italia.

Dico questo perché, avendo io fatto qualche modestissimo e superficialissimo studio, mi sono reso conto che i cultori di dottrina costituzionale del nostro paese

non sanno cosa sia la legge regionale. Me ne daranno atto i colleghi più esperti in materia, i quali continuano ad esprimere al riguardo tesi nettamente contrastanti, tanto lontane le une dalle altre quanto può esserlo il più tiepido regionalismo del meno convinto autonomista, dal più spinto federalismo del più convinto federalista.

Sarò più preciso e per esserlo desidero risalire ad un vecchio documento del quale nessuno forse si ricorda, perché ho l’impressione che esso non sia stato citato. Questo documento si riferisce agli atti del Ministero per l’Assemblea Costituente. E dico questo con una punta di nostalgia, in questo caso filo antifascista, ricordandomi quando si tentava di studiare prima di legiferare. A quel tempo si dava addirittura via ad un Ministero per la Costituente allo scopo di mettere in condizione l’Assemblea Costituente di non legiferare al buio.

Oggi siamo al buio come Governo, come legislazione, come indirizzo. Allora, lodevolmente si pensava di creare un ministero perché i costituenti disponessero di una elaborata documentazione, ponendo alla testa di quel ministero un personaggio illustre del quale non ho bisogno di fare il nome. Un personaggio che era occasionalmente un deciso antiregionalista ma che non fu certo messo alla testa di quel ministero per questo. Tanto più che, non avendo allora eccessiva dimestichezza con le noiose letture ed essendo un temperamento politique d’abord, è lecito pensare che egli facesse il ministro per la Costituente affidando a delle commissioni di studio, come in realtà fece, questionari molto elaborati che abbiamo letto soprattutto per quanto concerne il diritto del lavoro.

So che l’onorevole Roberti ha compiuto degli studi a questo riguardo. Queste commissioni adempivano alla loro funzione con molto scrupolo.

Non è privo di interesse, per cominciare a capire, ricordare cosa sia la legge regionale, questo istituto nuovo che sta per sorgere. È utile ricordare a questo fine quel vecchio documento. Si legge, nel testo stilato dalla Commissione del Ministero della Costituente: «L’attribuzione della natura amministrativa all’ente regione esclude, ovviamente, la devoluzione ad esso dell’esercizio diretto di funzioni legislative».

Come siamo lontani dalle posizioni attuali! Si riteneva allora addirittura (non dico che si avesse ragione, dico che si riteneva!) che fosse ovvia l’esclusione di qual-siasi attribuzione legislativa all’ente regionale. Data la loro natura squisitamente politica, tali funzioni non possono non essere riservate al Parlamento quale espressione della volontà generale dello Stato. Rappresentando invero la legge una limitazione della libertà individuale, essa può emanare soltanto dallo Stato quale titolare dell’interesse collettivo che solo può giustificare la limitazione stessa.

Si tratta, caro collega De Marzio, di quello che hai detto stamane presso a poco negli stessi termini.

Solo che quando qualcuno di noi si attenta, nell’anno di grazia 1970, a dichiarare che lo Stato è il solo titolare degli interessi collettivi e che soltanto lo Stato può giustificare limitazioni di libertà nei confronti dei cittadini, gli saltano tutti addosso, ritenendo che queste siano nostalgie fasciste. No, sono nostalgie pre-costituente, an-

tifasciste, nenniane addirittura, se pur sono nostalgie. Si è cominciato di qui il lungo cammino nel campo degli studi.

Prima ho parlato del lungo cammino nel campo delle vicende legislative, ora vi parlo del lungo cammino nel campo degli studi per tentare di capire che cosa sia la legge regionale, che cosa voglia dire lo Stato delle regioni. Le stesse cose, con maggiore cautela, per la verità, pensavano e dicevano allora i comunisti.

L’onorevole Laconi, il 5 marzo 1947, allo stesso riguardo diceva: «Pensiamo che non si tratti più di avvicinare il popolo alle istanze della vita democratica e di sottoporre al controllo del popolo i rami e i settori della vita del paese; pensiamo che ormai si tratti di qualche cosa di più, che si giunga al frazionamento dell’unità organica del nostro paese. È indubbio che domani se vedessimo approvare questa parte del progetto (nel frattempo il progetto era stato partorito dalla Sottocommissione dell’assemblea della Costituente) ci troveremmo ad avere in Italia, ancora una volta a ritroso nei secoli, una miriade di staterelli, ciascuno di per sé esercitante potestà legislativa, ciascuno capace di attuare nell’ambito del proprio territorio chissà quali riforme, differenti da quelle della vicina o lontana regione».

Dopo di che si giunse a quello che non più noi, ma voi, o larga parte tra voi, specie coloro che anelano a nuovi patti costituzionali, chiamate il compromesso raggiunto in sede di Assemblea Costituente. Il Presidente del Consiglio-ombra, il ministro Donat-Cattin, ha sostenuto la tesi della Costituzione di compromesso nell’aula del Senato non molti giorni fa. Si giunse al compromesso da altri punti di vista; si giunse al compromesso in ordine alla legge regionale, all’istituto «legge regionale». Quali erano le posizioni di partenza? Esse erano rappresentate dalla suddivisione di quello che prima era l’articolo 117 in tre articoli il 109, il 110 e il 111 ; attraverso tale tripartizione si pensava da parte del Costituente di maggioranza di attribuire tre tipi di potestà legislativa: la potestà legislativa primaria ed esclusiva (articolo 109), la potestà legislativa concorrente (articolo 110) e la potestà legislativa integrativa o di attuazione (articolo 111).

Il compromesso ha portato all’infelice testo, chiarissimo nelle intenzioni, secondo noi, ma infelice e manchevole nella formulazione dell’articolo 117. Che cosa è chiaro a tutti, che cosa nessuno mette in discussione? Che il Costituente non ha voluto attribuire alle regioni a statuto ordinario competenza legislativa esclusiva e primaria. La competenza legislativa esclusiva e primaria figura solo negli statuti delle regioni speciali, approvati con leggi costituzionali, non figura nella Costituzione quanto alle regioni ordinarie.

Al tempo stesso, però, è emersa dal testo mal combinato dell’articolo 117 una potestà legislativa che non è esclusiva, che non è primaria, che è indubbiamente derivata, che nella gerarchia delle fonti rappresenta qualche cosa di meno della legge dello Stato e qualche cosa di meno della legge emanata dalle regioni a statuto speciale, ma che non si può dire a quale punto sia concorrente e fino a quale punto rappresenti un nuovo tipo di legge concorrente.

Infatti una legge concorrente come dicono le stesse parole è una legge che concorre con altra legge gerarchicamente più elevata a determinare in un certo ambito territoriale le funzioni legislative e il loro effetto. Però, quando poi si va a leggere quali sono le materie assegnate dall’articolo 117 della Costituzione alle regioni a statuto ordinario; quando si va a leggere nella norma transitoria IX che lo Stato deve adeguare la propria legislazione alle competenze delle regioni; quando si legge in dottrina tutto quanto è stato scritto, risorge il dubbio che il compromesso sia stato allora stipulato perché bisognava ottenere, con l’approvazione della Costituzione, la più larga maggioranza possibile, ma che la formulazione sia stata tale da consentire il risorgere successivo della polemica fra coloro che ritengono che le regioni possono esercitare la potestà legislativa esclusiva e primaria e coloro che ritengono che la potestà legislativa delle regioni, se fosse esclusiva e primaria, intaccherebbe la sovranità dello Stato, la certezza del diritto e manderebbe all’aria tutto quanto il nostro assetto costituzionale.

Il problema non è stato risolto. Lo dicono tutti i costituzionalisti, ed io non voglio farvi perdere tempo nel citarli tutti quanti; basteranno alcuni accenni rapidissimi, che vi dicano quale sia lo stato degli studi in materia, se io sono bene informato, se mi sono aggiornato nelle letture a questo riguardo, perché ritengo che un Parlamento non possa decorosamente affrontare e risolvere problemi simili senza affrontarli anche in via di dottrina e non soltanto nel corso di compromessi politici, soprattutto se avvengono dietro le quinte, fuori dall’aula di Montecitorio.

L’incertezza è tale che vi sono alcuni studiosi (cito lo Zanobini, che è un nome, penso, abbastanza autorevole) i quali ritengono che sulla base dell’articolo 117 le leggi regionali sarebbero leggi solo in via formale. Lo Zanobini arriva a dire che le leggi regionali sono atti aventi valore di legge ma non sono leggi vere e proprie neppure nell’ambito della regione. È una interpretazione estremamente restrittiva, ne convengo; però è una interpretazione che può essere giustificata dalla lettura del primo capoverso dell’articolo 117 della Costituzione. Da una simile tesi che cosa deriva? Che le regioni non esercitano sovranità? Questo ci sembra ovvio. Deriva anche che le leggi regionali sono equiparate ai decreti-legge, ma sono più limitate.

Lo stesso Zanobini dice: le cosiddette leggi regionali (ci mette prudentemente il «cosiddette») sono atti aventi forza di legge, e in tal senso sarebbero equiparate ai decreti legislativi e ai decreti-legge; ma questi hanno forza di legge senza limiti, mentre le norme regionali hanno forza di legge entro i limiti stabiliti dall’articolo 117. Secondo questa corrente di studiosi, le leggi regionali sarebbero quindi atti assimilabili ai decreti legislativi, ma con minore importanza e minore portata dei decreti veri e propri.

C’è un’altra conseguenza: che le norme statali prevalgono su quelle regionali in ogni caso. Onorevole Marchetti, il suo federalismo potrebbe essere deluso nell’attuazione pratica, se dovessero prevalere questi orientamenti e se non si giungesse a qualche chiarimento di fondo. Infatti c’è addirittura una sentenza della Corte di cassazione a sezioni riunite del 6 settembre 1952, n. 2855, la quale afferma che in caso

di concorso vero o presunto di norme statali e regionali le prime debbono prevalere sulle seconde, anche se dirette a regolare quelle materie per le quali sia stata fatta una espressa riserva legislativa in favore delle leggi regionali. Noi ameremmo che su questi problemi di contenuto si discutesse.

C’è ancora un’altra conseguenza: che le riserve di legge cui si riferisce la Costituzione in tutto il suo ambito riguardano solo le leggi dello Stato e mai le leggi regionali.

A questo proposito esiste una sentenza della Corte costituzionale del 1956, n. 4: ogni qualvolta la Costituzione rinvia alla legge la disciplina di una determinata materia, per legge deve intendersi la legge dello Stato. Da una interpretazione di questo genere può derivare un’ulteriore conseguenza: che le leggi statali si applicano automaticamente in tutto il territorio della nazione.

Anche a questo riguardo si può citare una sentenza della Corte costituzionale del 1957, la n. 6, la quale dice che le leggi statali trovano automatica applicazione in tutto il territorio nazionale senza bisogno di ricezione.

A questo punto, i colleghi che hanno avuto la bontà di seguirmi possono pensare che io abbia sostenuto opinioni contrarie alla mia tesi di fondo, cioè che io abbia sostenuto tesi in base alle quali si può pure abrogare l’articolo 9 della legge del 1962, si può pure consentire la immediata attività legislativa delle regioni su tutte le 18 ma-lerie di cui all’articolo 117: nulla può accadere, perché si tratta di atti aventi forza di legge, non di leggi vere e proprie; perché si tratta di atti che hanno minor valore del decreto; perché prevale sempre la legislazione dello Stato; perché la legislazione dello Stato si applica in tutto il territorio dello Stato; perché le riserve cui si riferisce la Costituzione non riguardano mai la legge regionale, ma sempre quella statale, anche nel caso delle materie espressamente attribuite alle regioni. Siamo tranquilli noi che temiamo che gli argini siano stati rotti del tutto? Nemmeno per sogno.

Onorevole Marchetti, ora le fornisco le controtesi e le necessarie consolazioni, in questa enorme confusione che regna in Italia, anche in dottrina.

Vi è anche la tesi opposta, sostenuta da molti costituzionalisti. Ne cito uno, assai autorevole, l’Amorth, il quale, tra l’altro, ha preso parte ai lavori tecnici indetti dalla commissione Tupini; egli dice: «Quella delle regioni è potestà legislativa primaria, perché le leggi regionali sono fonti con efficacia equivalente a quella dei provvedimenti provenienti del Parlamento nazionale». Ne deriva che le leggi regionali sono vere e proprie leggi.

Un altro autorevole studioso di diritto pubblico, il Miele, scrive: «Le leggi regionali hanno il valore, non solo intrinseco ma anche estrinseco, di vere e proprie leggi, e sono perciò collocate su un piano superiore rispetto ai regolamenti, anche dello Stato».

Ne deriva che le leggi regionali stanno sullo stesso piano delle leggi dello Stato, secondo un’autorevole corrente dottrinaria; ciò significa che, nella gerarchia delle fonti, la legge regionale non viene dopo la legge statale, ma è allo stesso livello.

Scrive sempre lo stesso Miele: «Il rapporto tra i due termini di legge dello Stato e legge regionale appare un rapporto di separazione: come la regione non può emanare norme legislative regolamentari fuori delle materie di sua competenza, altrettanto non può lo Stato, nelle materie costituzionalmente attribuite alla regione, salvo per ciò che attiene alla formulazione dei principi fondamentali.

Quindi , entrate in vigore le autonomie regionali, lo Stato, per quelle 18 materie, non può legiferare assolutamente più e cade quindi tutto quello che finora, sulla base di una certa corrente dottrinaria, ho ritenuto di affermare. Ne deriva che lo Stato incontra limiti altrettanto rigidi quanto quelli delle regioni, perché se le regioni hanno come riferimento i principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato, lo Stato ha come impedimento i principi di competenza attribuiti alle regioni dalla Costituzione e dalle sue stesse leggi.

Ne consegue, ancora, che la legge regionale è sottratta ai controlli giudiziari e amministrativi; e ancora che la legge regionale (e questo è molto importante) abroga le precedenti norme statali. E questo lo afferma un altro costituzionalista illustre, il Galeotti, il quale scrive: «Le leggi regionali, quando per la prima volta intervengono nella materia riservata alla potestà legislativa della regione, hanno l’efficacia giuridica di abrogare le precedenti leggi statali che risultino con esse incompatibili».

Quindi è sufficiente che la regione emani una norma in una delle materie che le sono attribuite dall’articolo 117 della Costituzione perché venga abrogata, nel territorio di quella regione, la norma dello Stato con essa incompatibile. Nel territorio di quella regione, si badi bene; ciò significa che può accadere che una legge dello Stato esca a brandelli dal futuro ordinamento regionale, perché può darsi che 14 regioni su 15 ritengano di abrogarla emanando una loro norma, mentre l’altra si comporti in maniera diversa. Con la conseguenza che una legge dello Stato rimarrà valida soltanto per una certa parte del territorio e non più in un’altra parte: parte ovviamente colorata in termini politici, non certamente per ragioni di dottrina, in quanto vi sarà certamente qualche settore politico che si farà forte dei pareri espressi, in epoca non sospetta, da autorevoli studiosi, secondo i quali la legge regionale è sullo stesso piano della legge dello Stato e quindi può abrogare quest’ultima, naturalmente nelle materie attribuite alla regione.

C’è di più: un costituzionalista, ancora più noto di quelli che mi sono permesso di citare, il Balladore Pallieri, sostiene che la legge dello Stato non può abrogare la legge regionale. Infatti, egli sostiene che nella Costituzione non vi è nulla da cui si possa arguire un potere della legge dello Stato di abrogare la legge regionale. Ne deriva che la legge dello Stato vale nel territorio di una regione finché la regione stessa non abbia legiferato; ne deriva ancora che la legge statale non ha efficacia nel territorio regionale: si può citare una sentenza della Corte costituzionale, la n. 21 del 1959, in cui si dice che le leggi dello Stato si applicano pure nelle materie di competenza piena delle regioni in tutto il territorio nazionale, ma non hanno efficacia nel territorio delle regioni ove siano state emanate e finché rimangano in vigore nelle materie corrispondenti norme regionali valide, poiché queste assumerebbero, rispet-

to alle disposizioni statali, la posizione di leggi speciali rispetto a leggi generali, prevalendo quindi su di esse. Quindi, le leggi regionali non solo in quanto leggi regionali, ma in quanto leggi speciali, prevarrebbero nel territorio della regione sulle leggi statali, anche quando la legge regionale non fosse stata emanata con l’intendimento specifico di abrogare la legge statale corrispondente.

Io, onorevoli colleghi, riferisco tesi che sono state enunciate in dottrina; vi invito a tranne le conseguenze.

Infine, le regioni possono impugnare le leggi statali. Infatti, l’articolo 7 della legge costituzionale n. 1 del 9 febbraio 1948 stabilisce che le regioni possono impugnare le leggi e gli atti aventi forza di legge della Repubblica.

Chi ha ragione? Chi ha torto? A questo punto il discorso esce dalla dottrina e ritorna in politica: e non solo torna in politica, ma anche alle nostre comuni responsabilità di legislatori.

A questo punto, consapevoli che in dottrina non si è giunti ancora a stabilire che cosa sia la legge regionale, e quali possano esserne l’efficacia, le risultanze e i rapporti con la legge dello Stato, che cosa si pensa? Naturalmente ai limiti. A chi è affidato il compito di statuire questi limiti? Alla legge dello Stato. Allora, questa è l’ultima occasione nella quale, approvando una legge quadro generale o modifiche di precedenti leggi quadro generali, noi abbiamo la possibilità di intervenire. Dopo di che, si metterà in moto il meccanismo dei 15 parlamenti regionali, la legge regionale diventerà una realtà, uscirà dalla dottrina per entrare nel vivo degli interessi del popolo lavoratore italiano.

Certamente, si potrà intervenire in sede di contenzioso costituzionale, si potrà intervenire ponendo il Parlamento contro talune regioni, o contro le regioni tutte insieme, si potrà, in ipotesi, arrivare persino, in un secondo momento, ad una revisione costituzionale che, visti gli errori compiuti, l’irresponsabilità alla quale ci si è abbandonati, i danni che derivano al cittadino e allo Stato, l’incertezza e la lesione del diritto costituzionale, l’impotenza organica dello Stato, tenti di rimediare.

E voi credete che, istituite le regioni, vi sarà in Parlamento una maggioranza capace di fare dopo quello che non si ha coraggio, non dico di fare, ma neppure di dire adesso? Voi ritenete che di fronte a quella che potrebbe essere (l’onorevole De Marzio lo affermava questa mattina) una rivolta di piazza, sollecitata con strumenti demagogici facilmente utilizzabili, specie in talune regioni d’Italia, contro il governo nazionale, contro la maggioranza parlamentare, questi ultimi avrebbero la possibilità fisica e morale di resistere, di opporsi, di impedire che il danno maggiore e definitivo ne derivi? Nessuno può crederci.

Ma, anche ammesso che si sia tanto ottimisti, che si possa giungere anche successivamente a rimedi atti a scongiurare il male peggiore, anche ammesso che si debba e che si possa più in là arrivare agli interventi chirurgici, oggi abbiamo dinanzi una possibilità di malattia che noi vi denunciamo, suggerendovi anche le cure.

Ebbene, invece di adottare le terapie atte secondo noi e secondo molti di voi, fino a ieri, a scongiurare i malanni, voi da un lato allontanate le terapie e, dall’altro, ci rispondete alzando le spalle, affermando che si vedrà, come diceva stamane l’onorevole Galloni, con qualche furberia, a proposito della riforma dell’ente provincia, suggerita fino a qualche giorno fa con tanta ostinazione mentre oggi sembra piuttosto accantonata dal Partito repubblicano.

Oggi l’onorevole Galloni ci è venuto a dire con tutta tranquillità che il problema dei rapporti tra regioni, province e comuni, lo vedremo poi; facciamo intanto le regioni, e successivamente si vedrà come modificare le province, come modificare la legge comunale e provinciale. Bisogna mettere allo studio questo problema, ma la priorità spetta all’ordinamento regionale.

Ma voi credete davvero che l’ordinamento regionale, in tutta Italia, non modificherà profondamente le strutture dello Stato italiano? Voi credete di poter fare determinati ragionamenti dall’alto di questo Parlamento, quando di fronte a questo Parlamento ci sarà la volontà politica e la capacità legislativa di venti parlamenti regionali, taluni dei quali con maggioranze che fin da oggi possiamo facilmente prevedere? Queste non sarebbero illusioni; sarebbero responsabilità troppo pesanti, che noi ci auguriamo non vogliate assumere.

C’è un altro problema sul quale temo che i colleghi regionalisti non abbiano riflettuto; penso che molti tra voi non abbiano riflettuto su cosa siano ed ancora una volta non vi voglio offendere gli statuti regionali. E soprattutto sono convinto che molti di voi non si siano resi conto che, per una stranezza davvero inconcepibile, l’Assemblea Costituente non si è accorta di avere, da questo punto di vista, conferito maggiori poteri alle regioni a statuto ordinario che non a quelle a statuto speciale.

Molte volte, durante questo dibattito, mi sono sentito dire, ed anche altri miei colleghi di gruppo se lo sono sentito dire, allorché facevano riferimento alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige ed al Friuli-Venezia Giulia, che quelle sono regioni speciali, come se, essendo regioni speciali, avessero poteri talmente più ampi, talmente più penetranti, talmente più pregnanti, rispetto alle regioni a statuto ordinario, da giustificare un giudizio politico del tutto diverso, o da giustificare addirittura la volontà aprioristica di non prendere atto delle esperienze, che tutti voi definite negative, che si sono sviluppate nelle regioni a statuto speciale.

Mi permetto di chiarire che, ai sensi dell’articolo 123 della Costituzione, gli statuti delle regioni a statuto ordinario hanno un grado di autonomia assai maggiore, nei confronti della legislazione statale, di quanto lo abbiano gli statuti delle regioni a statuto speciale.

Chiarisco ulteriormente: quando nel 1962 si è ritenuto di dar vita alla regione a statuto speciale Friuli-Venezia Giulia, il Governo di allora predispose un disegno di legge; l’iniziativa legislativa, per ciò che concerne lo statuto delle regioni speciali, parte dal Governo. Il Governo ritenne in quella circostanza di presentare un disegno

di legge, che sottopose all’esame del Parlamento come legge costituzionale, e cioè con la procedura delle due letture prevista dall’articolo 138 della Costituzione.

Lo statuto della regione Friuli-Venezia Giulia, se vogliamo usare il linguaggio modernista della sinistra democristiana, è stato imposto, dico imposto, dal Governo e dal Parlamento ai cittadini delle regioni a statuto speciale. Questi cittadini non hanno avuto alcun modo per esprimere il loro parere, e per farlo pesare, durante tutto il corso dell’elaborazione del loro statuto.

Avrebbe potuto per ipotesi, prevalere la nostra tesi, anche allora ostruzionistica e contraria alla concessione dello statuto speciale al Friuli-Venezia Giulia, e quelle province d’Italia non avrebbero avuto, da un punto di vista costituzionale, alcuna possibilità per opporsi ad essa. Avrebbe potuto prevalere la tesi di altri settori, i quali volevano un diverso statuto, e quelle popolazioni, comunque, non avrebbero avuto la possibilità, come non l’ hanno avuta, di intervenire e di interferire. E se domani si dovesse modificare lo statuto della regione Friuli-Venezia Giulia, come lo statuto delle altre regioni a statuto speciale, si dovrebbe tornare qui, perché è necessaria una legge di revisione costituzionale per modificare, anche in una virgola, anche in un articolo, uno statuto speciale. Tanto è vero che si è fatto ricorso, specie per la Sicilia, al solito sistema, un sistema veramente ignobile, che mi permetto di segnalare al Presidente di questa Assemblea nell’esercizio delle sue funzioni costituzionali: cioè, la desuetudine automatica delle leggi costituzionali.

Vi sono alcuni articoli dello statuto speciale della Sicilia il quale, come sapete, è stato approvato con una rapidità dovuta a contingenze politiche, senza essere stato elaborato democraticamente in Sicilia, essendo stato portato avanti da un puro e semplice comitato di vertice dei quali è stata riconosciuta da tutte le parti politiche la inattuabilità. Ebbene, essi restano nello statuto regionale siciliano; sono leggi costituzionali dello Stato italiano, ma nessuno neanche i comunisti ne parla più. Se ne parla qualche volta nei comizi, ma nessuno ne parla più nelle sedi responsabili, perché è tacitamente ammesso che non se ne faccia niente.

Quindi, la potestà costituente delle regioni a statuto speciale è uguale a zero. Per quanto riguarda le regioni a statuto ordinario, l’articolo 123 della Costituzione stabilisce che i consigli regionali delle regioni a statuto ordinario approvano essi il proprio statuto. Occorre una maggioranza qualificata, questo è evidente.

Quanto al contenuto degli statuti regionali ordinari, l’articolo 123 si limita ad inserire se non erro la obbligatorietà di una norma sul referendum regionale, e null’altro. Lo statuto regionale viene quindi presentato al consiglio regionale per iniziativa della maggioranza e del governo regionale; viene approvato dal consiglio regionale con maggioranza qualificata e quindi trasmesso al Parlamento nazionale per la approvazione che, ai sensi della Costituzione, deve avvenire con «legge di approvazione».

Ancora una volta, i costituzionalisti interpretano in guise radicalmente diverse questa formula, piuttosto singolare, che non trova altri riscontri nella nostra Carta

costituzionale: «legge di approvazione». Che significa? Secondo la maggior parte dei costituzionalisti, «legge di approvazione» significa legge formale; cioè una legge da equiparare a quelle attraverso le quali siamo chiamati ad approvare i trattati internazionali. In altre parole, una legge di mera e semplice approvazione generale, senza alcuna possibilità, da parte del Parlamento nazionale, di modificare una virgola e di entrare nel merito, ma con la possibilità di approvare o di non approvare. Questo è indubbio: se il Parlamento è chiamato ad approvare, può anche trovarsi nella condizione di disapprovare. Quindi, ci arriveranno gli statuti regionali uno per uno, perché non è possibile pensare ad uno statuto-tipo. Ogni regione, secondo la sua maggioranza, anche occasionale, approverà un diverso statuto. Ci arriveranno quindici diversi statuti.

Questa è un’ipotesi, ma assai plausibile, perché oltre alle diverse configurazioni politiche delle maggioranze regionali, vi sono le diverse configurazioni socio-economiche delle regioni, vi sono le diverse mentalità di base, e non soltanto di vertice, vi sono gli interessi diversi e molto spesso contrastanti.

Dunque, ci arriveranno quindici statuti regionali uno diverso dall’altro, e noi con quindici leggi di approvazione formale saremo chiamati ad approvarli o a bocciarli. A questo punto, il nostro criterio non potrà essere che globale: o li approviamo tutti, o li bocciamo tutti. Vorrei vedere, poi, una maggioranza parlamentare che si arrischiasse ad approvare un certo gruppo di statuti e a non approvarne un certo altro gruppo. Credo che quella maggioranza correrebbe incontro ad un nero destino.

Penso dunque, che, con riferimento agli statuti, le regioni a statuto ordinario siano del tutto autonome, perché una volta che avranno approvato i loro statuti e quindi avranno realizzato quella che viene definita come la loro fase costituente, il Parlamento nazionale non potrà far altro che metterci lo «spolverino». Ci troveremo in una situazione ancora peggiore di quella in cui si trovò l’Assemblea Costituente quando, nel giro di pochi giorni, fu chiamata a recepire gli statuti della Sicilia, della Sardegna, del Trentino-Alto Adige e della Valle d’Aosta. Non potremo dire una parola nella sostanza; non potremo interferire o non potrete interferire nel merito, quali che siano gli statuti provenienti dalle varie regioni a statuto ordinario.

Non volete riflettere su ciò? E credete che queste considerazioni non debbano incidere sulle vostre attuali decisioni? E ci si viene a raccontare per tranquillizzarci, da parte dell’onorevole Galloni, da parte del relatore per la maggioranza, da parte dell’onorevole Andreotti, come risulta dagli emendamenti presentati dalla maggioranza all’articolo 15, che tanto nei primi tempi l’onorevole Galloni questa mattina ha detto per 15-18 mesi, altri dicono addirittura per 2 anni le regioni non potranno far altro che dare luogo ai loro statuti regionali. Chi ha detto loro che occorreranno 15-18 mesi ad una regione a statuto ordinario per approvare, sia pure con maggioranza qualificata, il proprio statuto? Ma avete così scarsa fiducia negli uffici-studi del Partito comunista?

Ma non sapete forse che in talune regioni d’Italia cito l’Emilia-Romagna e la cito senza sbagliare perché sono notizie di dominio pubblico il Partito comuni-

sta, insieme con i suoi alleati di sempre, ha già designato il futuro presidente della regione, il vice-presidente e gli assessori? Ma non sapete che, giustamente, logicamente io ne rendo loro atto e merito essi si preparano a questa conquista di posizioni di potere da ogni punto di vista?

Crede ella che ad un Parlamento regionale retto da una maggioranza socialcomunista occorreranno 15-18 mesi, onorevole Galloni, per approvare uno statuto prefigurato? O non basteranno che poche settimane? E non verrà il Parlamento nazionale bombardato dalla rapida esigenza di approvare, di approvare subito, di non respingere in alcun caso, di non attentarsi a discutere sul serio lo statuto che diventerà lo statuto-guida, lo statuto-tipo per tutte le altre regioni?

O credete voi che le altre regioni potranno sottrarsi all’ondata di demagogia che si abbatterà su di loro attraverso il varo rapido di taluni statuti-guida, di taluni statuti-tipo, di taluni statuti-esempio? Credete voi che altre regioni, la Calabria ad esempio, potranno sottrarsi all’esempio che verrà loro o che potrà venir loro dalla Toscana, dall’Emilia, dall’Umbria, dalla Liguria? E come potrebbero farlo? E credete voi comunque che le costituende regioni a statuto ordinario accetteranno, qualora vi fossero differenze di fondo tra le loro prerogative e quelle delle regioni a statuto speciale, di rimanere a contatto di gomito e in condizioni di inferiorità?

Questi sono problemi politici, costituzionali, di ordinamento delle regioni, di ordinamento generale dello Stato sui quali noi modestamente vi invitiamo a riflettere.

Inoltre, e con riferimento alle considerazioni che io mi sono permesso di svolgere, ritengo, di poter dire che fra le tre impostazioni di fondo che in relazione all’articolo 15 ho indicato all’inizio, quella pluralistica della Democrazia cristiana di un tempo, quella federalistica e quella che io definisco neo-anarchica, la concezione pluralistica della Democrazia cristiana di un tempo non abbia più spazio. Essa non ha più spazio politico perché si trattava di una concezione pluralistica ma al tempo stesso organica, si trattava, lo riconosciamo noi stessi, di una concezione pluralistica ma che si riferiva ad uno Stato articolato attraverso il riconosciuto pluralismo dei corpi intermedi e soprattutto dei corpi sociali.

Quanto vi abbiamo detto tutti mi permetto di affermare quanto vi sto dicendo io dimostra che non esiste spazio politico e che dall’approvazione di questa legge-quadro in poi non esisterà spazio costituzionale per l’attuazione, per la realizzazione di un pluralismo di quel genere.

Restano quindi a scontrarsi due concezioni, quella federalistica e quella neo-anarchica. Quanto alla prima, ho dato atto all’onorevole Marchetti di averla enun-ziata lui solo con piena schiettezza. Però l’onorevole Marchetti non si dorrà se io rileggo talune sue espressioni le quali chiariranno fino in fondo ai colleghi di che cosa si tratta.

L’onorevole Marchetti ci è venuto a dire esattamente questo: quando chiediamo l’autonomia per le regioni, cioè l’autonomia politica ed amministrativa, per regioni come la Lombardia, il Piemonte, la Campania e altre, chiediamo un potere

che in misura ben maggiore queste regioni ebbero nel passato. Sapete quando? Ve lo dice l’onorevole Marchetti. II Piemonte ebbe addirittura una politica estera, militare, economica, tributaria, agricola che portò allo sviluppo economico e culturale e infine all’unificazione politica dell’intero paese. E che, vogliamo riconquistare l’Italia?

Io ho letto alcune tabelle…”

MARCHETTI: “Il permesso di fissare il numero delle auto pubbliche. “

ALMIRANTE: “Se io sapevo che questo era il problema, glielo davo subito il permesso, onorevole Marchetti, e non davamo luogo né a questa legge né a questa discussione. Se si tratta di qualche permesso per auto pubbliche, onorevole Marchetti, si rivolga al suo presidente di gruppo, sono problemi che risolverà, o al Presidente del Consiglio ad al ministro del Lavoro. Se questo è il problema.

Se poi ella viene a dire in questo Parlamento, in cui c’è pur scritto qualcosa (vediamo qualche cosa intorno a noi, non ce ne siamo dimenticati perché, qualunque sia la nostra impostazione politica, dottrinaria, storica, culturale, ci sono cose che nessuno può dimenticare; badi, io ho studiato a Torino e Torino è per me una specie di seconda patria), dopo tanti anni, che il Piemonte ebbe una sua politica estera e anche militare, onorevole Marchetti, senza alcun dubbio, devo dire, per fortuna il Piemonte ebbe una sua politica estera e anche militare, però ritenne di servirsene per portarci ad una situazione unitaria. Tanta era la volontà unitaria di quella classe dirigente che sacrificò Torino capitale, sacrificò prerogative che potevano essere considerate anche giuste; non parlò, quella classe dirigente, in termini di classe né in termini di clientela politica, ma parlò in termini nazionali unitari.

Vogliamo andare indietro, onorevole Marchetti? Non pensiamo che ella voglia andare indietro. “

MARCHETTI: “Cavour era regionalista. “

ROMUALDI: “Era piemontese. “

ALMIRANTE: “Veda, onorevole Marchetti, non avviliamo nomi simili in una Italia politica come questa. La classe dirigente del risorgimento ha fatto l’Italia. Noi ci rivolgiamo a lei, federalista in buona fede, federalista di Varese, federalista della Valtellina, federalista che considera il regionalismo, il federalismo come il modo di sottrarsi ad una burocrazia centralizzata che le è molto antipatica, e le diciamo: guardi, i problemi che la interessano, e che interessano giustamente tanti abitanti della sua provincia e di altre province, potrei dire di tutte le province d’Italia, a cominciare da Roma, si risolvono e si possono risolvere o avrebbero potuto risolversi in termini di decentramento amministrativo.

A questo riguardo il discorso può andare avanti finché ella vuole, con noi, onorevole Marchetti. E quando ella mi parla delle licenze delle auto, mi dimostra che in fondo all’animo suo c’è questa logica, giusta, sacrosanta esigenza di sottrarre al peso e al gravame non della burocrazia come uomini o come uffici, ma della burocrazia come istituto antiquato, i cittadini italiani, i quali hanno necessità di trovarsi lo Stato cordialmente a portata di mano in ogni parte d’Italia.

Ma per questo esistono istituti di decentramento che non sono stati attuati; esiste un Ministero per la riforma burocratica, che ormai in quasi 15 anni, e dopo che si sono avvicendati a palazzo Vidoni 14-15 ministri, non è riuscito o non ha voluto a far nulla, non ha emanato alcuna norma.

I decreti delegati in tema di decentramento, sa quanti sono da quando è stata promulgata la legge sul decentramento? Sedici in tutto! E vi è una relazione sdegnosa dell’onorevole Gonella, a questo riguardo, che denuncia l’incuria, l’incapacità e la mala volontà della classe dirigente politica italiana in tema di decentramento.

Perché è avvenuto questo? Perché il decentramento, onorevole Marchetti, è utile alle popolazioni, mentre le regioni sono utili alle clientele politiche o ai fini sovversivi di coloro che le vogliono. Questa è la realtà di fronte alla quale ci si deve porre onestamente.

Non parliamo quindi di federalismo e ricordiamoci anche a questo riguardo non solo i precedenti, ma soprattutto gli impegni che furono presi e i pericoli ai quali si va incontro.

Io ho ricordato prima in via generica ai colleghi della Democrazia cristiana e lo desidero ricordare ora in maniera precisa un documento che li dovrebbe interessare a questo riguardo, una dichiarazione dell’onorevole Scelba al consiglio nazionale della Democrazia cristiana del novembre 1962: «In proposito richiamo la risoluzione della direzione della Democrazia cristiana, in data 27 settembre 1962, nella quale si trova questa affermazione: che è inconcepibile una articolazione dello Stato in centri di potere importanti come quelli costituiti dalle regioni al di fuori di uno stretto e coerente collegamento con la politica generale del Governo».

A che punto siamo oggi a questo riguardo? Oggi siamo alle prossime costituenti regionali. E il termine costituenti regionali io l’ho notato durante questo dibattito è stato lanciato dall’estrema sinistra e ripreso, con la solita accortezza e con la solita ingenuità, o doppiezza a seconda dei casi, sui banchi del centro. Di costituenti regionali ha parlato per il Partito comunista, nella discussione generale, l’onorevole Giancarlo Ferri, il quale ha dichiarato che «le regioni nascono da un’acuta tensione sociale e vivranno la loro alba in costituenti regionali».

E quando l’onorevole Giancarlo Ferri, a nome del Partito comunista, parla di costituenti regionali, non ne parla in ordine dell’approvazione degli statuti regionali, ma in ordine al problema del nuovo patto costituzionale.

E la sinistra della Democrazia cristiana riprende con imprudenza il termine «costituenti regionali», perché in un’Italia seria io credo si debba parlare di una sola

Assemblea costituente, quella che c’è stata, o in prospettiva si possa parlare di un’altra Assemblea costituente; ma se si arriva a parlare in questo ramo del Parlamento di costituenti regionali e se non si chiarisce che il termine costituenti regionali è stato usato impropriamente dal punto di vista tecnico ed ha voluto riferirsi solo alla potestà da parte delle regioni di approvare i loro statuti, ma si riferisce invece, com’è chiara e manifesta intenzione dei colleghi che hanno parlato, ad una volontà di dar luogo da parte delle nuove regioni, già prefigurate così, ad una attività costituente, o precostituente, o paracostituente, allora io vorrei sapere: ci troveremo in stato di assedio, costituzionalmente, quando le 15 regioni saranno state istituite?

Se siamo all’alba di una fase costituente della vita politica italiana e se, in quest’ alba che speriamo non sanguigna, noi ci siamo perché talune parti politiche, purtroppo prevalenti o quasi del tutto prevalenti, vogliono conferire alle regioni a statuto ordinario una potestà costituente e quindi dirompente rivoluzionaria, è normale che le dicano loro queste cose, i comunisti, hanno il diritto di dirle ed hanno perfino la franchezza o l’imprudenza di dirle; ma quando le dite voi?

Io leggo l’onorevole Verga della Democrazia cristiana: «La determinazione dei principi fondamentali delle leggi dello Stato spetta sì al legislatore statale, ma se questi non vi provvede in modo espresso, vi soccorre siamo all’articolo 15 l’opera dell’interprete al solito! e precisamente del legislatore regionale, del Governo e della Corte costituzionale, nei momenti e con le procedure previste dalla Costituzione. Si dovranno inoltre fare partecipare le regioni, a mio parere, anche all’elaborazione delle leggi quadro, attraverso un processo di collaborazione tra i consigli regionali e il Parlamento, in modo che le regioni assumano nella fase iniziale della loro vita una funzione di carattere costituente».

Qui il concetto è spiegato: il Parlamento si deve spogliare a priori, secondo uno dei vostri colleghi, della funzione che gli è propria, che gli è tipica, che nessuno contesta, che dal punto di vista costituzionale nemmeno i comunisti contestano, di dar vita a delle leggi-quadro. Il Parlamento potrà non farlo, sarà responsabile di non averlo fatto, ma è una funzione che indubbiamente gli spetta e che nessuno gli contesta.

Ebbene, un collega della Democrazia cristiana, penso in nome della corrente che egli rappresenta, viene a proporre fin da adesso, viene a mettere sotto l’edificio quest’altra bomba andando oltre le stesse speranze dei socialcomunisti che i consigli regionali collaborino con il Parlamento nazionale alla formulazione delle leggi-quadro.

Io vorrei sapere dove trovi posto, nell’attuale Costituzione, la possibilità di collaborazione, nella iniziativa legislativa o addirittura nell’approvazione o nella discussione o nella formazione della volontà legislativa, fra Parlamento nazionale e parlamenti regionali.

E se, per caso, vi fosse qualche parlamento regionale non disposto a questo tipo di collaborazione, faremmo degli accordi a mezzadria, di compartecipazione, a cottimo fra il Parlamento nazionale e taluni parlamenti regionali disposti a collaborare, a fare l’onore di collaborare con il Parlamento nazionale a questo riguardo?

Badate che la stessa tesi è sostenuta per brevità non leggo la citazione da un vostro collega, l’onorevole Bodrato. Non si tratta quindi di tesi sostenute solo dalla estrema sinistra e da una piccola parte della Democrazia cristiana. Si tratta di tesi largamente sostenute.

Io, polemizzando poco fa con l’onorevole Galloni, ho sostenuto che, attraverso l’abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 62 del 1953 e quindi l’indiscriminato uso da parte delle regioni della potestà legislativa, sia pure in ordine a quelle 18 materie, si giunge alla fine della certezza del diritto in Italia. Poiché mi sono limitato a de-nunziare la tesi, desidero soffermarmi ora un momento su di essa, trattandosi di argomento, credo, di fondamentale importanza.

La certezza del diritto, penso sia nozione comune, sta nella certezza della unicità del diritto. Nella unicità e nella certezza sta la eticità del diritto. In proposito leggiamo insieme una sentenza del Consiglio di Stato adottata nell’adunanza plenaria dell’11 luglio 1956. Essa dice: «Fondamentale esigenza degli ordinamenti statali a base regionalistica è l’unicità del sistema giuridico nazionale, almeno per quanto riguarda gli istituti e i principi generali. Questo comporta che unici debbano rimanere nello Stato i supremi organi preposti a regolare l’applicazione del diritto nelle branche corrispondenti alle rispettive competenze».

Ora, io chiedo: la tesi, avanzata qui dalla Commissione affari costituzionali e dal suo relatore, delle regioni interpreti della legge dello Stato; la tesi, avanzata e sostenuta dalla maggioranza regionalistica, della necessaria abrogazione dell’articolo 9 della legge n. 62 e della opportuna abrogazione della potestà per le regioni di dar luogo, anche senza leggi-quadro, alla loro attività legislativa, è compatibile con la certezza del diritto, con la unicità del diritto, con la eticità del diritto, con la sentenza, che vi ho letto, del Consiglio di Stato in adunanza plenaria?

Credete che, per esempio, non siano possibili lesioni del diritto di cittadinanza?

Quando discuteremo, fra non molto, del Trentino-Alto Adige, ci sarà facile dimostrarvi che a lesioni del diritto di cittadinanza si sta per giungere per volontà della stessa maggioranza del Trentino-Alto Adige.

Ci direte che si tratta di una regione a statuto speciale, ma io vi ho già dimostrato che le regioni ordinarie, in linea di principio, non fruiranno di diritti minori.

Ci direte ancora che si tratta di una legge speciale, legata ad accordi internazionali. Ma noi insisteremo dicendovi che, per analogia, lesioni del diritto di cittadinanza potranno essere apportate dai singoli diritti regionali, anche a statuto ordinario. Il caso del Trentino-Alto Adige è un caso limite ed è vergognoso, perché legato a precedenti impegni internazionali, ma casi di questo genere, cioè casi di razzismo regionale, come quelli che si verificano nel Trentino-Alto Adige per motivi e ragioni internazionali, si potranno verificare in altre parti d’Italia per motivi legati a ragioni di classe.

Il razzismo di classe, infatti, non è meno feroce del razzismo legato con interessi e con concessioni internazionali, quale quello che pesa sul destino della minoranza di lingua italiana in Alto Adige.

Ed inoltre vi rendete conto o no, sempre in relazione alla certezza del diritto, della gravità della differenziazione territoriale di diritti fondamentali? I diritti fondamentali del cittadino, per 18 branche della legislazione, saranno, da quando entreranno in funzione le regioni a statuto ordinario, senza preventiva necessità di leggi-quadro, regolate per 18 branche, in 15 materie diverse. E ho già ricordato prima che per taluni settori ho parlato dell’agricoltura, ma potrei parlare di qualunque altro settore: lavori pubblici, turismo, istruzione professionale lo stesso cittadino può avere interessi in più di una regione e può essere sottoposto a una diversa legislazione a seconda della regione in cui ha i propri beni, i propri interessi o in cui svolge le proprie attività.

Ad esempio, è tipica la partecipazione ai concorsi pubblici o la frequenza nelle scuole sia normali sia professionali. Si scatenerà legislativamente la concorrenza tra le regioni a proposito dell’istruzione professionale. Si cercherà di attirare gli alunni facilitandoli. Le regioni più demagogiche opereranno a danno di quelle meno dema-gogiche. Vi saranno maggiori o minori spinte.

Tutto questo determinerà, senza alcun dubbio, la lesione della certezza del diritto. E non crediate mi riferisco anche a questo argomento perché penso che in fin dei conti esso possa interessare parecchi tra voi che non si verifichino anche altre lesioni del diritto privato quando si sarà istituito l’ordinamento regionale a statuto ordinario. Tutti in dottrina ammettono che la potestà normativa regionale interferirà sul diritto privato.

E se volete che io vi dia un esempio più chiaro, citerò il Di Giuseppe il quale, in uno scritto intitolato Capacità normativa delle regioni in diritto privato, sostiene, credo con ragione, quanto segue: «L’attività normativa regionale in diritto privato può esplicarsi: 1) in campi di particolare contenuto di una norma privatistica già esistente onde adeguarla alle speciali esigenze del luogo e del momento; 2) ponendo in essere disposizioni di diritto privato intese a conseguire il soddisfacimento di un interesse pubblico».

Campi di intervento della regione nel diritto privato? Ne cito alcuni: riordinamento fondiario, ricomposizione di unità aziendali, gestione sociale della proprietà privata, diritto del lavoro in genere, norme sugli ammassi, sussidi e premi di coltivazione, divieto di affitto di fondi rustici, agevolazioni per piccoli imprenditori.

Credete che sia un giurista a sostenere queste tesi disattese da altri? C’è qualche giurista, anche molto noto, che va oltre. Il Virga, ad esempio, notissimo cultore di studi costituzionali sulla regione, scrive: «È da ritenere che le norme regionali in diritto privato possano anche derogare dalle norme del codice civile».

È una tesi che considero estrema che speriamo non si realizzi. Ma è una tesi sulla quale bisogna porre qualche attenzione. Quando si rinuncia anche alle leggi quadro pur di andare avanti, le regioni legiferino e quindi amministrino, le regioni diano luogo liberamente ad atti esecutivi, non so che cosa pensare.

Dice l’onorevole Galloni che la Corte costituzionale vigilerà ed è poco male se ci saranno molte contese. Io cito a questo riguardo alcune sentenze preoccupanti della

Corte costituzionale, perché credo che queste cose debbano essere dette in tempo. Si tratta delle sentenze n. 35, n. 109 e n. 123 del 1957 le quali stabiliscono che le regioni possono legiferare in materia privatistica e in particolare nel campo contrattuale, purché le norme regionali mirino al soddisfacimento di interessi pubblici della regione, si riferiscano a situazioni locali eccezionali (chi giudicherà ciò? La maggioranza politica) e si limitino ad un adattamento temporaneo (questa espressione in una sentenza della Corte costituzionale è veramente straordinaria perché ci offre una garanzia «temporanea» delle norme statali in particolari situazioni ambientali).

Dopo di che e malgrado ciò, la Corte ha annullato due leggi regionali siciliane in materia di enfiteusi. Quindi si passa dall’annullamento di leggi forse legittime all’ approvazione di leggi regionali forse illegittime e comunque all’accettazione del criterio secondo cui la legge regionale può interferire nelle norme di diritto privato fino al punto da giungere alla modificazione del codice civile.

La stessa Corte costituzionale, d’altra parte, con la sentenza n. 109 del 1957 ha affermato che l’unità politica verrebbe lesa da una disciplina territorialmente differenziata dei rapporti privati, dati i gravi riflessi che una tale differenziazione avrebbe nel campo economico e sociale.

Quindi la Corte costituzionale invocata dall’onorevole Galloni da un lato ammette che sarebbe una lesione della certezza del diritto e dell’unità dello Stato il riconoscere alle regioni la possibilità di interferire nei rapporti privati; dall’altro nega in taluni casi alle regioni tale interferenza quando viene chiamata a sentenziare; dall’ altro ancora consente alle regioni, in casi eccezionali e temporaneamente, la stessa interferenza quando per casi diversi sia chiamata a intervenire. Io penso dunque che la garanzia, asserita come tale dall’onorevole Galloni, non appaia eccessivamente tale.

E poiché molte volte ci è stato chiesto quale sia la nostra concezione dello Stato, in alternativa e in antitesi con le confuse concezioni che nascono dal nostro esame di questa legge, di questo articolo e della situazione politico-costituzionale che ci troviamo di fronte, desidero avviandomi alla conclusione in primo luogo chiedere che cosa sia lo Stato regionale che dovrebbe sorgere da questa legge, e in particolare da questo articolo, e in secondo luogo quale sia l’alternativa, anche costituzionale, che si potrebbe contrapporre allo Stato regionale, quale questa legge e questo articolo potrebbero partorirlo.

A proposito dello Stato regionale come da questa legge potrebbe derivare, debbo scomodare ancora una volta il relatore di maggioranza onorevole Tarabini, per citare un passo della sua relazione che, in mancanza di una interpretazione diversa, e senza dubbio migliore, mi appare piuttosto preoccupante.

Nella sua relazione egli dice: «Il problema interpretativo rappresentato dall’articolo 117 della Costituzione si impone poi per un altro verso strettamente connesso al precedente e connesso altresì con l’aspetto finanziario del disegno di legge in esame. L’interpretazione che nega la subordinazione della legislazione regionale all’emanazione di leggi-cornice quindi l’interpretazione dell’articolo 15 ultima edizio-

ne è stretta parente di quella che assegna allo Stato un potere meramente direttivo nelle materie elencate dall’articolo 117 della Costituzione, potere che in sede legislativa si esplica con la statuizione pregressa o a venire dei princìpi fondamentali e in sede amministrativa, secondo il cosiddetto criterio del parallelismo, con l’esercizio di attività di mero indirizzo e coordinamento».

Vorrei sapere dalla cortesia dell’onorevole Tarabini se, quando afferma che la concezione che ha portato all’abrogazione dell’articolo 9 è stretta parente di quella che assegna allo Stato funzioni meramente direttive e dal punto di vista legislativo e dal punto di vista amministrativo ed esecutivo, egli ritenga di essere d’accordo con una concezione simile e quindi ritenga che lo Stato regionale debba avere soltanto un potere meramente direttivo, neppure più di coordinamento, di indirizzo, di prospettiva, di impulso o di propulsione, come stamane diceva l’onorevole Galloni, ma un potere meramente direttivo non solo dal punto di vista legislativo ma anche dal punto di vista amministrativo.

Se questa è la vostra concezione ufficiale dello Stato delle regioni come dovrebbe sorgere, penso che i colleghi della maggioranza debbano riflettere prima di aderire a concezioni di questo genere.

Quanto a noi, io non vi citerò nulla di nostro. Vi citerò qualche cosa di vostro, di caro a voi, alla vostra parte, alla vostra dottrina (mi indirizzo ai colleghi della Democrazia cristiana, ma, come vedrete, non soltanto a loro) fino a parecchi anni fa e poi dimenticato per motivi politici, talora per motivi di faziosità politica, comunque dimenticato, pretermesso, caduto nell’oblio. Leggerò qualche citazione per dimostrarvi che, prima di parlare di patti costituzionali con l’anarchia, voi il patto di coscienza dovreste avere la bontà di farlo con voi stessi per ristudiare (è un modesto consiglio che mi permetto di darvi), rimeditare le vostre origini, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, le ragioni della vostra presenza politica in Italia, le ragioni della vostra presenza costituzionale in Italia, le ragioni del vostro successo politico innegabile e le ragioni guida di tutta la vostra battaglia politica, dal non ex-pedit al patto Gentiloni e fino ai nostri giorni.

Io ho l’impressione che voi abbiate meditato su tali ragioni all’epoca della Costituente perché forse era il clima adatto o perché forse alla vostra testa non ancora in qualità di promossi perché rimossi, ma in qualità di uomini in piena attività di servizio erano uomini che avevano dato luogo alle tradizioni da cui aveva tratto vita e ragione di presenza nella politica italiana il Partito popolare.

E allora queste carte ingiallite, questi vecchi ricordi ce li vogliamo vedere insieme per un momento? Sono poche citazioni, ma di qualche importanza. La seconda Commissione dell’Assemblea Costituente pose a se stessa, attraverso il relatore democristiano onorevole Mortati, deputato e costituzionalista, il problema della rappresentanza organica delle categorie, che avrebbe dovuto costituire il Senato. Diceva il Mortati: «Le categorie si possono intendere con due significati; o con significato economico, in cui le categorie rappresentano gli interessi delle professioni che inter-

vengono nella vita economica come fattori della produzione e del consumo o con significato supereconomico, e quindi culturale, assistenziale o, se si vuole, anche professionale».

A seguito di questa presa di posizione, lo stesso onorevole Mortati, a nome della Democrazia cristiana, presentò un ordine del giorno alla seconda Commissione della Costituente per l’istituzione di una seconda Camera corporativa, ordine del giorno approvato il 7 settembre 1946: «L’istituzione di una seconda Camera è necessaria a dare alla rappresentanza politica pienezza di espressione, collegandola più intimamente con la complessiva struttura sociale».

Per chi non avesse capito, l’approvazione di quest’ordine del giorno era stata preceduta da una dichiarazione fatta alla stessa seconda sottocommissione dal più autorevole, allora, tra i regionalisti convinti della vecchia classe dirigente del Partito popolare in quel momento della Democrazia cristiana l’onorevole Piccioni.

Questi, in sottocommissione, il 7 settembre 1946 aveva dichiarato: «I democristiani, che hanno una concezione della funzionalità sociale in senso perfettamente organico e credono che non soltanto l’individuo come tale abbia un valore e un peso decisivo nella vita sociale e politica della nazione, ma che anche i gruppi abbiano un loro valore e peso da far valere, ritengono che questa concezione si debba riflettere nella seconda Camera, con il preciso intendimento di garantire il sistema democratico; il che non avverrebbe se la seconda Camera rispecchiasse esattamente la prima».

Lo stesso onorevole Piccioni, in una precisazione davanti alla stessa sottocommissione, il 2 ottobre 1946: «La Democrazia cristiana tende all’attuazione della democrazia in Italia, non già come una ripetizione meccanica degli esperimenti dell’organizzazione democratica dello Stato quale si è avuta nell’ottocento, bensì partendo da premesse diverse per giungere alla costruzione del nuovo Stato democratico su una base organica». Soggiungeva che si può ironizzare sul significato delle parole «rappresentanza organica», e ironizzavano coloro che gli dicevano che la rappresentanza organica è un termine corporativo, ma sta di fatto che esse hanno un significato profondamente realistico, aderente all’odierna struttura sociale. Il partito democristiano diceva in sostanza l’onorevole Piccioni non vuole una struttura della nuova democrazia italiana basata su istituti che esprimano soltanto una concezione atomistica e individualistica della vita, quale era quella del secolo passato, ma vuole una struttura che poggi su nuovi istituti più aderenti alla realtà sociale della nostra epoca, realtà che appunto si va manifestando organicamente mediante nuove forme di raggruppamenti sociali, ossia attraverso le cosiddette forze vive di cui tanto si è parlato.

E quel maligno sia detto senza ingiuria, ma con simpatia dell’onorevole Lussu commentava (è a verbale): «L’onorevole Piccioni e i suoi amici sperano di creare quella che per essi è una esigenza morale della vita politica moderna, ossia la collaborazione di classe».

Invece, un certo onorevole La Pira, all’Assemblea Costituente, l’11 marzo 1947 diceva: «Io per temperamento, anzi noi tutti, siamo in radice contrari ad ogni forma

di corporativismo. La sola parola ci dà fastidio (soprattutto agli ex gerarchi diventati democristiani la parola dava fastidio, temevano che li scoprisse), ma se voi ammettete l’esistenza di queste comunità di lavoro con struttura istituzionale, che potranno risolvere il problema sociale, e queste organizzazioni di classe da cui trae forza tutta la classe lavoratrice, perché non dovrebbe esserci una ripercussione costituzionale di esse nella composizione della seconda Camera?».

Quindi, in realtà solo la parola gli dava tanto fastidio, ma il concetto, la sostanza, l’idea, il principio, la tradizione egli sentiva che gli appartenevano e non intendeva lasciarli, neppure quando si ironizzava.

Riallacciandomi a quanto dicevo prima, ricordo il progetto presentato dal già citato onorevole Tosato, a nome di tutta la Democrazia cristiana, il 25 settembre 1946. «Articolo 1: Il Senato è composto dai rappresentanti effettivi degli interessi generali attinenti 1) agli enti locali territoriali; 2) alla scuola, alla cultura, all’arte; 3) al lavoro; 4) all’industria e al commercio; 5) all’agricoltura; 6) all’ artigianato; 7) alla giustizia; 8) alla sanità pubblica».

Si dà il caso che dopo qualche tempo, per il famoso compromesso, l’Assemblea Costituente abbia collocato quasi tutti questi interessi nell’articolo 117 della Costituzione, trasformando il pluralismo sociale in un pluralismo politico e dando vita, per la vostra diserzione dalle vostre tesi corporative, colleghi democristiani, ad una organizzazione individualistica ed atomistica, atomizzante dello Stato, disgregatrice dello Stato.

Questo vi volevo dire, per fare due chiacchiere in quella che, in fin dei conti, potrebbe anche essere considerata una vecchia famiglia, e per dimostrarvi che bisogna stare molto attenti, quando si risponde ad una determinata tradizione, a dimenticarla, per pendere verso altre parti che, a loro volta, dimenticano, o fingono di dimenticare, le loro tradizioni per motivi politici, trascurando, tutti quanti voi insieme, gli interessi superiori o almeno quelli che noi consideriamo interessi superiori della nazione.

E siccome io non voglio infliggere ai soli democristiani questa modestissima paternale, mi permetto di associare (inaspettatamente per voi) repubblicani e comunisti in questa stessa paternale, perché le ultime due citazioni li riguardano.

L’onorevole Conti, deputato all’Assemblea Costituente, proponeva anche egli, come relatore della seconda Commissione, un Senato in parte eletto dalle regioni e in parte da altri enti, quali le organizzazioni sindacali o le università. E l’onorevole Laconi, il 5 marzo, parlando in Assemblea Costituente diceva testualmente: «In questo senso, da parte del relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio (e il nome credo dica qualcosa), fu presentata la proposta di introdurre nell’ordinamento del nostro Stato un consiglio del lavoro in cui le diverse categorie che partecipano al ciclo produttivo intervengano in proporzione della loro rilevanza numerica, in proporzione del loro peso effettivo nella vita della nazione». L’onorevole Capua, liberale, interrompeva: «Torniamo alle corporazioni!». Se consentite il punto esclamativo ce lo mettiamo anche noi.”

Seduta del 10 gennaio 1975

Nel 1975 il regolamento della Camera consentiva i discorsi-fiume, anche in occasione dell’esame dei decreti-legge. Con decreto-legge il governo volle approvare una proposta di riforma, in pejus, della Rai-Tv. Il Msi-Dn decise ed attuò una battaglia ostruzionistica che travolse il decreto-legge. Il successo fu dovuto anche all’ampiezza degli argomenti portati a sostegno dell’opposizione al decreto. Giorgio Almirante, già segretario del partito, partecipa in prima persona a questa battaglia diretta ad impedire la legalizzazione della lottizzazione ed a consentire, quindi, il continuare della disinformazione

La battaglia contro 
la lottizzazione della Rai-Tv

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, vi prego di non sorridere di me se, nonostante la mia lunga esperienza di quest’aula sono un veterano confesso che immaginavo diverso l’inizio di questo dibattito sulla riforma della RAI-TV. Ero giustificato nell’immaginario diverso perché non solo se ne è parlato in tante occasioni negli scorsi anni, ma se n’è parlato da parte di tutti i settori di questa Camera auspicando (di anno in anno, sia allorché la vecchia convenzione scadeva e veniva prorogata, sia, prima ancora che la convenzione scadesse, dal 1960 in poi, con discussioni ripetute appassionate e approfondite) il gran giorno in cui si sarebbe giunti alla riforma della RAI-TV. Se ne è parlato in guisa seria e impegnata sia da parte di coloro che ritenevano che la riforma dovesse essere una riforma di fondo, una ristrutturazione vera e propria, sia da parte di coloro che ritenevano che poco o nulla dovesse innovarsi ma che nondimeno si dovesse passare da una situazione provvisoria ad una situazione definitiva. Siamo giunti al gran giorno, si apre il dibattito sulla riforma della RAI-TV e l’aula è vuota. Non sono così presuntuoso da ritenere che l’aula sia vuota in questo momento perché parla il segretario del MSI- Destra nazionale, in quanto ho l’impressione che l’aula continuerà ad essere vuota o semivuota anche quando parleranno gli illustri colleghi delle altre parti politiche. Ho anche l’impressione che non soltanto l’aula continuerà ad essere vuota ma anche esternamente, in quegli ambienti giornalistici che ancora nelle scorse settimane si occupavano con tanta passione e intensità di questi problemi, si tenga a cloroformizzare, a morfinizzare usiamo una parola alla moda, e soprattutto una parola che si addice a taluni giornali come Il Messaggero di Roma a drogare la situazione di guisa che tutto scivoli e questa riforma di regime passi in un ovattato silenzio e in un largo conformismo.

Naturalmente, dico questo senza aver né l’autorità, né l’intenzione di deplorare tutti i lettori di questo Parlamento e ogni settore dell’opinione pubblica; ognuno ovviamente è padrone di assumere o di non assumere le proprie posizioni e le proprie responsabilità. Mi permetto soltanto di osservare che nel nostro paese si è fatto e qualche volta giustamente molto chiasso per l’appropriazione o per la vendita o per la cessione di qualche testata giornalistica, mentre in questo caso si tratta di cedere al regime la testata dei giornali radiotelevisivi. Altro che Corriere della sera, Il Messaggero, Il Tempo, o tutta insieme la nostra stampa: qui si tratta di una formidabile appropriazione di testate giornalistiche che influenzano la pubblica opinione. Osservo, di passaggio, che da uno dei tanti appunti che ho avuto modo di leggere nei giorni scorsi risulta che, su 20 milioni circa di ascoltatori del telegiornale delle ore venti, 12 milioni (secondo le statistiche-campione) non leggono alcun quotidiano. quindi vi sono almeno 12 milioni di italiani che come solo giornale hanno a propria disposizione il giornale televisivo delle ore venti. Ora questa testata viene ceduta; e non con i soldi di Cefis, di Agnelli o di qualche altro potentato economico, ma con i soldi del contribuente italiano. Viene ceduta, e nel momento in cui i soldi al contribuente italiano vengono estorti per questa operazione in misura maggiore che in precedenza (siamo di fronte ad una contribuzione forzosa, imposta, direi, con pessimo gusto), e il regime non spende una lira, ma incassa i leciti e gli illeciti guadagni, l’aula parlamentare rimane vuota. Così come sono assenti molti dei colleghi della stampa che, fra l’altro, sono direttamente o indirettamente interessati: taluni infatti sono dei diretti o indiretti beneficiari, ma molti altri sono direttamente o indirettamente colpiti e lesi moralmente, professionalmente e materialmente da questo atto di appropriazione indebita; eppure l’aula è vuota. E l’opinione pubblica viene indotta a tacere, a non occuparsi di questo problema o addirittura viene indotta, come, ad esempio, dal Messaggero di questa mattina, ad occuparsi di altro, visto che nei titoli di testata di questo quotidiano si parla, oltre che di quello che avviene oggi e di quanto potrebbe avvenire fra qualche giorno, quando il Presidente del Consiglio, sembra, verrebbe a porre la fiducia per stroncare o tentare di stroncare l’ostruzionismo, anche dello sciopero generale del 23 gennaio prossimo, la cui durata a Roma sarebbe raddoppiata «contro la violenza fascista».

A proposito della qual violenza fascista informo l’aula vuota, il Presidente e il cortese rappresentante del Governo, che stamane sono stato svegliato dall’ annun cio che due nostre sedi, a Roma, sono state distrutte col tritolo alle 2,30 di questa mattina. I giornali non ne hanno ancora potuto dare notizia; sembra che non vi siano vittime, ma queste sono le ultime notizie. A Roma lo dico di passaggio, perché non ho intenzione, io, di divergere o di cercare alibi, voglio parlare del tema e vi ritornerò subito, ma l’animo a questo punto è pieno di tale indignazione che mi si consenta un accenno, signor ministro, a questo episodio che le dedico quale rappresentate del Governo nella città dei fratelli Mattei, quei fratelli Mattei dei quali la televisione non ha offerto le immagini perché indubbiamente non erano telegenici nel momento in cui morivano bruciati, nella città nella quale otto nostre sedi sono state devastate, nella quale molti nostri ragazzi sono stati mandati all’ospedale (uno è ancora all’ospedale in pericolo di vita, e non lo intervistano perché non è telegenico nemmeno lui, mentre è telegenico il giovane di sinistra abbondantemente intervistato e che, grazie a Dio, lo dico con profonda soddisfazione, sta per uscire dall’ospedale), nella città dei fratelli Mattei, dicevo, non è lecito giocare, da parte di giornali «teledrogati», con la sensibilità, con la umanità, con la civiltà dei cittadini della capitale d’Italia.

Chiusa questa iniziale parentesi, di cui chiedo vivamente scusa al Presidente della Camera, e tornando al tema, sembra che questo dibattito non interessi. E io non attribuisco al nostro più che legittimo (e apertamente proclamato dal presidente del nostro gruppo) ostruzionismo, e quindi all’ostruzionismo più che legittimo degli altri settori, purché naturalmente condotto nel rispetto del regolamento, l’assenza di tanti colleghi dall’aula o il silenzio di quasi tutti i gruppi, come si è verificato ieri a proposito della risposta alle nostre pregiudiziali di costituzionalità. Anzi, se gli altri settori volessero non dico legittimare, ma mobilitare in termini politici e in termini di correttezza parlamentare il loro antiostruzionismo, essi dovrebbero cogliere l’occasione per star qui, per far sì che questo dibattito significasse qualche cosa sotto tutti i punti di vista. Soprattutto dovrebbero essere presenti e tentare di cogliere le nostre eventuali contraddizioni, i punti deboli delle nostre argomentazioni, per dimostrare che la nostra è soltanto una posizione ostruzionistica e non è una posizione corroborata da dati di fatto, da considerazioni serie, da posizioni profondamente meditate, valide nell’interesse della nazione e non certo nell’interesse esclusivo del nostro gruppo. Ma avete visto ancor ieri quello che è successo: e desidero sottolinearlo perché il mio discorso non può non partire dalle premesse di carattere costituzionale.

Beninteso, non ho la minima intenzione di ripetere e vedrete che non lo farò gli argomenti che sono stati sostenuti assai validamente, e aggiungo assai brillantemente, ieri dagli onorevoli Roberti e Guarra e dal nostro relatore onorevole Baghino. Non ho intenzione di ripeterli perché certo farei ciò in modo meno brillante, meno perspicuo soprattutto darei l’impressione di voler perdere del tempo; ma debbo cominciare di lì, perché questa è una legge di riforma, ed è una legge di riforma che attiene alle libertà costituzionali, alla Costituzione nel suo significato fondamentale. Non si può non prendere questo punto di partenza, anche perché non credo che ieri l’onorevole Bressani abbia risposto alle pregiudiziali di costituzionalità, che erano molto articolate e motivate, a nome di tutto l’«arco costituzionale», naturalmente escluso il gruppo liberale, il quale si è nobilmente comportato e al quale mi permetto di rivolgere il mio ringraziamento per quanto l’onorevole Quilleri ha sostenuto con tanta capacità. Non credo che l’onorevole Bressani abbia ieri potuto parlare anche a nome di altri gruppi: credo che egli abbia parlato soltanto a nome del gruppo della Democrazia cristiana; al massimo, posso immaginare che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali del Partito repubblicano e forse quelle del Partito socialdemocratico (con ciò mi riferisco a taluni precedenti). Non penso che egli abbia potuto interpretare le tesi costituzionali ammesso che ne abbia del Partito socialista italiano, e certamente non si è potuto fare portavoce delle testi costituzionali del Partito comunista.

Il silenzio, nel dibattito di ieri, dei rappresentanti del gruppo comunista è grave e significativo, è un fatto politico e, più ancora che un fatto politico, costituisce un dato di regime. Il gruppo comunista è naturalmente padronissimo di contrastare il nostro ostruzionismo; l’onorevole Natta se io sono bene informato nella Conferenza dei capigruppo ha dichiarato che tutto ciò è perfettamente legittimo. Il gruppo comunista è padronissimo di coadiuvare la maggioranza nel portare innanzi al più presto possibile e al peggio possibile questa riforma della RAI-TV che, per i motivi che mi permetterò successivamente di enunciare, giova soprattutto al Partito comunista; ma, nel momento in cui il Partito comunista rinuncia ad avere una propria tesi sui problemi costituzionali a questo riguardo, esso rinuncia con ciò ad esprimersi su questo argomento, quando il non esprimersi su tale questione significa non pronunciarsi sulla riforma. I dati di fondo sono in questo caso dati costituzionali, e si riferiscono soprattutto alla interpretazione dell’articolo 21 della Costituzione, cioè alla interpretazione del significato di libertà di manifestazione del pensiero in un paese democratico e moderno. Nel momento in cui il Partito comunista tace a questo riguardo, esso, anche costituzionalmente, si inserisce nel regime. Io ringrazio il Partito comunista per questa sua posizione, perché essa è molto significativa e importante per l’opinione pubblica e per gli orientamenti di quelle masse lavoratrici di cui il Partito comunista si ritiene il rappresentante; ed è importante altresì che tale partito, forse per la prima volta, combatta una battaglia di retroguardia, mentre noi combattiamo una battaglia di avanguardia. Infatti, questa è la realtà: ci troviamo di fronte a due interpretazioni del dettato costituzionale. Una è l’interpretazione affermata coraggiosamente, anche se con molti ritardi, con qualche esitazione ed anche con alcuni recenti errori, dalla Corte costituzionale; l’altra è l’interpretazione del regime, che è per il monopolio, anzi lo documenterò è per un monopolio possibilmente inteso in senso più restrittivo di quanto sia stato fino ad ora e di quello che si dovrebbe instaurare. L’interpretazione della Corte costituzionale è contro il monopolio o, più esattamente, per il riconoscimento e l’accettazione del monopolio obtorto collo, per uno stato di necessità e per motivi tecnici (come ha ben spiegato l’onorevole Roberti) dovuti più ad una mancanza di informazione e di approfondimento dei motivi stessi, che ad una loro reale esistenza. Comunque sia, la Corte costituzionale è per l’accettazione obtorto collo, come stato di necessità, di un monopolio, limitato per altro soltanto alla televisione via etere ed escluso per la televisione via cavo e per l’importantissimo settore, del quale si tace, dei ripetitori televisivi stranieri all’interno del nostro paese. II contrasto è qui, il problema che si deve discutere è questo. Il silenzio del Partito comunista a questo riguardo significa che il Partito comunista ritiene di avere vinto in termini di regime la battaglia costituzionale, ma di poterla vincere solo tacendo. Se il Partito comunista parlasse, se ieri i rappresentanti del gruppo comunista avessero parlato e avessero contrastato le nostre tesi dal loro punto di vista rispettabilissimo punto di vista, ma comunistico e totalitario, sia detto senza alcuna riserva essi non avrebbero polemizzato con noi, ma con la Corte costituzionale, avrebbero contestato l’interpretazione corretta della Costituzione. Il Partito comunista, che finora si diceva interprete di una avanzata concezione della Costituzione, di una interpretazione «progressista» della Costituzione, avrebbe polemizzato con la Corte costituzionale accusandola di essere andata troppo avanti e riportando indietro l’interpretazione della Costituzione per consolidare, attraverso una concezione involutiva e regressiva della Costituzione, il monopolio della RAI-TV come monopolio di regime.

Questa mi sembra sia la realtà della situazione. Se dobbiamo esaminare il merito del problema, non serve aver rilevato agli effetti costituzionali le responsabilità della Democrazia cristiana. L’onorevole Bressani è naturalmente assente come tutti gli altri: non gliene faccio un addebito, ma non si può fare a me un addebito se, in sua assenza, gli dedico qualche cortese osservazione. L’onorevole Bressani era stato incaricato di rispondere a noi e all’onorevole Quilleri, e non poteva farne a meno. Lo ha fatto da par suo, con la sua personale capacità e abilità; ma alle tesi esposte dall’onorevole Roberti il collega Bressani non ha risposto. L’onorevole Bressani ha difeso la costituzionalità dell’adozione del decreto-legge ad opera del Governo. Se avete notato, non avevamo molto insistito, nel quadro delle pregiudiziali, sugli inesistenti motivi di necessità e di urgenza. Non vi avevamo insistito perché è veramente inutile insistere su una eccezione di questo genere in presenza di Governi (non alludo sarebbe ingeneroso all’ appena nato Governo Moro, ma a tutti i Governi di centro-sinistra) i quali hanno ormai instaurato la disinvolta prassi della decretazione legislativa, passando sopra non al dettato della Costituzione, ma talora, come la sorte infausta di tanti «decretoni» e «decretini» ha dimostrato, al buon senso, e persino all’interesse obiettivo del Governo e della cosa pubblica.

Non abbiamo insistito: anzi, siamo così generosi che in questo caso bisogna pur riconoscere che il governo Moro si è trovato ad ereditare una situazione di necessità, provocata dai precedenti Governi, composti dagli stessi uomini, e dalle precedenti maggioranze, composte dagli stessi partiti, ma formalmente diverse e quindi gravate ciascuna da una sua responsabilità. Pertanto, se avessimo troppo insistito sull’eccezione di incostituzionalità relativa alla forma del decreto-legge, avremmo sbagliato. Per il resto, l’onorevole Bressani non ha speso una parola a proposito di quanto l’onorevole Roberti, aveva detto sull’articolo 1, sull’articolo 3, sull’articolo 21, sugli articoli 24, 42 e 43 e sull’articolo 94 della Costituzione. In questo caso si tratta di brani della nostra carne, come parlamentari, come modestissimi studiosi di queste discipline, ma soprattutto come cittadini italiani, se è vero che l’articolo 1 vuole dire democrazia o non democrazia, che l’articolo 3 vuole dire parità e non discriminazione, se vero che l’articolo 21 vuole sancire la libertà di pensiero! Siamo, dunque, di fronte al vecchio discorso da cui è sanguinosamente cominciata, 30 anni fa, tutta questa vicenda. Siamo, dunque, di fronte al discorso delle libertà. Attraverso questa riforma, signor ministro, lo Stato si guarda allo specchio; dopo 30 anni esso riconosce la propria impotenza ed il proprio fallimento. Lo Stato non può, o addirittura non vuole, garantire ai cittadini l’accesso alla libertà di informazione. Dopo aver promesso la libertà per 30 anni, lo Stato, ricorrendo alla necessità (nella migliore tra le ipotesi) o per volontà prava (nella peggiore ma più realistica ipotesi), nega di fatto nel campo dell’informazione radiotelevisiva la libertà che, a parole, da tanti anni va promettendo. Lo Stato si trova di fronte al primo grande impegno costituzionale, perché, mi si consenta, tutte le altre riforme, da quella sanitaria a quella edilizia, sono importantissime, ma senza dubbio lo sono molto meno di questa al nostro esame, poiché nessuna fra tutte le altre riforme, di cui tanto si parla, attiene come questa alle fondamenta del vivere civile. Ripeto, in questo caso lo Stato si guarda allo specchio. Attraverso questa riforma esso confessa il proprio fallimento, la propria impotenza, la sua volontà contraria all’adempimento dei propri fondamentali doveri. Vi sono, peraltro, considerazioni politiche più pertinenti, sempre in riferimento al dettato costituzionale e alla sua interpretazione.

Signor ministro, da qualche mese, forse dal maggio dell’anno scorso credo di non sbagliarmi dalla data cioè della presentazione del disegno di legge dell’onorevole Togni, suo precedessore, ci siamo trovati su un piano inclinato con una serie di avvenimenti significativi. Il disegno di legge Togni non ebbe tempo di far parlare troppo di sé, perché, immediatamente successive, intervennero le sentenze della Corte costituzionale la n. 225 e la n. 226 e vi fu una specie di terremoto. Tale disegno di legge era stato preceduto, oltre che da intese a livello di maggioranza e di Governo, da altre più vaste. Vale a dire da intese dell’«arco costituzionale»: erano stati interpellati i comunisti e i liberali. Il disegno di legge Togni, presentato attraverso il promesso, sia pur condizionato, assenso dei comunisti e dei liberali, aveva potuto rappresentare un temporaneo ancoraggio per quella maggioranza, per quel Governo e per tutto l’«arco costituzionale». Successivamente si scatenò la tempesta delle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale e la stampa (ne darò qualche documentazione) fu attentissima nei riguardi di tale problema e imbastì una speculazione e una discussione di gran fondo. Si parlò addirittura di terremoto.

Poi ripresero, approfondite, le trattative di vertice; in tempi piuttosto brevi, durante e nonostante la crisi anzi, come elemento di dibattito nel quadro di essa si pervenne, scivolando, alla formulazione di questo decreto-legge da convertire in legge. Vi si arrivò, si badi bene, non andando avanti a seguito degli impegnativi confronti determinati dalle travolgenti è stato scritto sentenze delle Corte costituzionale: vi si arrivò, per quanto riguarda le questioni di fondo che sono la libertà, la parità e la non discriminazione, andando indietro e realizzando sulla pelle di questa riforma il primo esempio palese (se non fosse palese, l’atteggiamento comunista in quest’aula ieri, oggi e certamente domani, fino alla conclusione del dibattito, lo chiarirebbe) di una esperienza legislativa e costituzionale di attuazione del «compromesso storico»: perché a ciò si è giunti. Né si dica al segretario del MSI-Destra nazionale che queste sono nostre motivazioni di speculazione: sarebbe molto imprudente se dai banchi del Governo o della Democrazia cristiana o dei partiti che l’appoggiano ufficialmente si sostenesse che non è così: molto probabilmente si alzerebbe, come ha fatto in un recente passato, l’onorevole Amendola, per esortare i demo-cristiani alla cautela e alla moderazione. Egli direbbe ai democristiani: andateci piano, perché se questo decreto-legge non ci piacesse, non passerebbe; se non ci fosse stato almeno parzialmente gradito, non avreste potuto nemmeno presentarlo; non avreste potuto nemmeno concepirlo, se non fosse stato preceduto da colloqui e contatti con la nostra parte.

Questo decreto-legge è l’atto formale attraverso il quale il Partito comunista entra nel suo neo-regime, si installa al vertice di esso avendo come giaciglio le libertà degli italiani malamente vendute da una maggioranza che si dichiara democratica e si permette di discriminare chi combatte dall’opposto verso per la libertà. Ho parlato di una marcia verso la libertà da parte della Corte costituzionale. Spero che il presidente del mio gruppo non mi condanni, se mi permetto qui di parlare della Corte costituzionale con il massimo rispetto, ma anche con una certa libertà di giudizio. Non ci siamo sempre compiaciuti per talune decisioni anche recenti della Corte; soprattutto non ci siamo sempre compiaciuti per dichiarazioni di cui il presidente della Corte stessa avrebbe in taluni casi potuto fare a meno. La nostra è una posizione assolutamente obiettiva, serena e distaccata, anche e soprattutto nel momento in cui ci sembra di poter dire che il regime, attraverso il sostegno offerto a questo decretolegge, abbia voluto un po’ sovvertire la storia. Evidentemente, ci troviamo di fronte ad un nuovo schiaffo a Bonifacio… e non credevo che un nuovo schiaffo a Bonifacio potesse provenire dal clerico-marxismo: è una nuova interpre-tazione della storia, e me ne dispiace; né dirò che il presidente della Corte costituzionale se lo sia meritato; mi dispiace sinceramente.

Che cosa intendo quando dico che la Corte ha marciato costantemente, anche se lentamente e con indugi pesanti e responsabili, verso la libertà? Intendo dire che sulla Corte costituzionale, a nostro avviso, hanno pesantemente influito tre elementi di cui bisogna tener conto per i motivi che mi permetterò subito di illustrare. Il primo di essi è costituito dal progresso tecnologico, il quale ha modificato, se non addirittura capovolto, le situazioni e le posizioni in tutto il mondo e quindi, seppur virtualmente, anche in questo ritardatissimo paese progredito che è l’Italia democratica. Il secondo è dato dalla negativa esperienza della gestione monopolistica. Il mo-nopolio, infatti non ha trovato un solo difensore; non c’è un collega che abbia il coraggio parlo ai banchi, ma se l’aula fosse piena potrei ripetere tranquillamente, senza essere interrotto da alcuno, quello che sto dicendo di difendere l’esperienza del monopolio radiotelevisivo così come essa si è verificata e manifestata in Italia nel corso del dopoguerra, tanto è vero che, essendomi riletto attentamente tutti i precedenti dibattiti, non ho trovato un solo collega il quale si sia levato per difendere in toto il monopolio. Tutti coloro che sono stati chiamati alle pur legittime e doverose difese d’ufficio se la sono cavata proprio come il classico difensore di ufficio. Il monopolio, cioè, è un delinquente, ma ha delle attenuanti: questo è il massimo cui si è arrivati. Non si poteva, perciò, pensare che un’esperienza ormai quasi trentennale e negativamente giudicata da tutti i partiti, da tutto l’arco parlamentare, dall’intera opinione pubblica, da tutti gli ambienti di stampa mancasse di influire sui giudizi e sulle decisioni della Corte costituzionale.

Non è poi da sottovalutare l’ondata di opinione pubblica che si è via via montata contro quello che viene definito lo scandalo della RAI-TV. A questo riguardo e mi rimetto sempre alla cortesia del signor ministro perché si faccia relatore, io spero, delle opinioni che esponiamo state attenti, perché vi sono fatti di opinione che, nel loro montare e nel loro accentuarsi (non è il caso che si alzi la voce, signor ministro: dico amabilmente queste cose, anche se ritengo siano abbastanza gravi), travolgono qualsiasi regime. Si è parlato molto dei risultati del 12 maggio come fatto di opinione: io convengo che tali risultati abbiano pesato sull’opinione pubblica italiana e quindi sui relativi eventi politici. D’altra parte eravamo stati i soli ad ammonire in precedenza tutti i settori dell’opinione pubblica italiana circa le conseguenze pesantissime che si sarebbero determinate politicamente ed in termini di opinione proprio a seguito di un certo risultato del referendum. Non crediate perciò di uscirne con una riforma di questo genere senza che la pubblica opinione registri questo dato e, via via, lo vada montando, a meno che questa pessima legge non partorisca un ottimo monopolio. È prevedibile ciò? È pensabile che aggravando ed accentuando, se possibile, le precedenti discriminazioni, perfezionando le precedenti lottizzazioni, rendendo ancor più putridi i precedenti mercati, contaminando ancora di più la già contaminatissima atmosfera della radiotelevisione italiana si giunga a risultati che l’opinione pubblica possa apprezzare, con la differenza che prima ella, signor ministro, è democristiano le altri parti politiche avevano un capro espiatorio (non è vero? Si trattava di Bernabei, di Fanfani…), ma da adesso in poi il capro espiatorio sarà il regime? E se per caso qualcuno fosse indotto a non accorgersene, la destra nazionale farà sì che tutti se ne accorgano. Voi potete discriminarci nei comitati, nelle commissioni, soprattutto ve lo consiglio nei consigli d’amministrazione; voi potete stabilire, attraverso questa legge, norme in base alle quali una formula come i «quattro quinti» intende significare che il Partito comunista non deve essere escluso ed una formula quale i «tre quarti» che socialisti e comunisti sono determinanti, nel consiglio d’amministrazione, quando si deve approvare il bilancio. Voi potete fare tutto ciò, ma state in guardia contro una campagna di civile disobbedienza scatenata dalla destra nazionale! Voi non avete idea, probabilmente, di quel che possa essere una campagna che non ho definito di disobbedienza civile, ma opposta, di civile disobbedienza, scatenata da una forza come la nostra! Sbagliate quando pensate che gli italiani, colpiti da voi nell’onore, nel diritto, nella sensibilità, raggiunti e perseguitati nei propri domicili ogni sera, colpiti scandalosamente attraverso una legge che è anche di profitti di regime (scandalosa legge di profitti di regime), colpiti attraverso una legge che è anche, indirettamente, legge fiscale iniqua; sbagliate dicevo quando pensate che gli italiani non possano essere da noi raggiunti nei loro domicili, nelle case, nelle piazze, nelle strade, nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Siamo nella condizione di raggiungere milioni di italiani, molti di più dei non pochi che finora ci hanno votato.

Sbagliate, quando ritenete di intraprendere contro la destra nazionale una battaglia di questo genere senza tener conto delle implicazioni e delle conseguenze di opinione. Dovrei financo dirvi ma non lo penso, perché il problema è troppo grave e non si presta a speculazioni che vi ringraziamo, perché ci collocate in questo modo al vertice della opinione pubblica italiana, come soli difensori della libertà che conta, la libertà di essere informati (non voglio dire di essere formati, poiché intendo attribuire all’intiero popolo italiano la capacità di formarsi autonomamente attraverso la libertà dell’informazione). Voi negate la libertà dell’informazione e rispondete come ha fatto ieri il pur valido collega Bressani, alla nostra eccezione di incostituzionalità, dimenticando che esiste la concorrenza come garanzia di libertà; dimenticando che, quando chiediamo che la libertà venga tutelata, non domandiamo che lo Stato rinunzi al servizio informativo e formativo della televisione e della radio.

Chiediamo soltanto che si dia modo ad altre fonti, in concorrenza tra loro e con lo Stato, di far sì che gli italiani abbiano informazioni complete. Chi darà ai cittadini di Roma, ad esempio, ai numerosi cittadini di Roma che non leggono quotidiani, o che non leggono certi quotidiani, o che non leggono il nostro quotidiano, le notizie che le ho riferito poco fa, signor ministro, circa grosse bombe esplose questa notte? E perché i cittadini di Roma non debbono poter essere informati anche di quelle notizie, salvo farsene un giudizio autonomo? Un giudizio che in taluni casi può esserci favorevole, e in molti altri casi forse ci contrasta. Quando, per altro, una forza di Governo arriva a negare, concettualmente, il principio della concorrenza, siamo in pieno regime, siamo anche in un regime oso dirlo poco intelligente. Ma come? Avete tentato di combatterci, di metterci all’indice, siete riusciti perché non dirlo? a crearci delle difficoltà, per lo meno propagandistiche, abbastanza notevoli, reiterando, con il sistema tipico del bourrage des crànes, il tema del nostro presunto totalitarismo e della nostra incapacità di inserirci in un quadro di libertà e di democrazia; avete, fino all’ossessione (l’ ho ricordato rispondendo al signor Presidente del Consiglio nel dibattito sulla fiducia), insistito sul vieto tema, ormai stinto, spento e ridicolo, del fascismo-antifascismo; ci avete appiccicato (o tentato di appiccicarci) addosso le qualifiche più ripugnanti proprio a questo riguardo: avete fatto tutto questo e ora ci date una etichetta, una bandiera, un gonfalone di libertà in ordine ad un problema che interessa tutti gli italiani perché è il pane della mensa di tutti gli italiani! Pertanto noi entreremo in tutte le case grazie a questo vostro atteggiamento, ogni giorno, ogni sera, ed ogni italiano, a cui ripugnerà la televisione di regime, troverà un solo riferimento nell’animo suo, nel suo sentimento e nelle sue speranze. Non ci sarà antifascismo che tenga, non ci saranno campagne al-larmistiche che tengano, e non ci sarà più la possibilità di dire che è inutile la posizione della destra nazionale. Se non ci fossimo noi in questo momento, chi sarebbe in quest’aula a difendere i diritti dei cittadini italiani? Chi sarebbe in quest’aula a promuovere una campagna, onorevole ministro, che stamane devo dare atto qualche solidarietà esterna ha cominciato a raccogliere? Era molto tempo che la stampa quotidiana non del tutto contraria alla destra non assumeva posizioni in favore di nostre tesi o di nostri atteggiamenti. Posso dire che erano mesi, forse debbo risalire al 1973 per ricordare una qualche campagna di stampa indipendente anche larvatamente favorevole alle tesi e alle posizioni da noi sostenute.

Stamane ci sono diversi quotidiani che prendono posizione o apertamente o meno apertamente in nostro favore; stamane il nostro ostruzionismo viene definito da taluni giornali indipendenti, con articoli di prima pagina, come un ostruzionismo positivo a difesa dei diritti delle libertà. Voi credete che questo conti poco? Che sia un errore di poco momento? Voi, che vi accingete a far venire in quest’aula un già traballante, anche se neonato come tale Presidente del Consiglio, a porre la questione di fiducia su questa imposizione, non pensate che questo sia un errore colossale? Voi che attraverso i vostri gruppi state convocando la Giunta per il regolamento per tentare assurdo tentativo, ma proprio per questo più sciocco ed iniquo di travolgere i regolamenti parlamentari, nel momento in cui il regime anche in questa aula vorrebbe imporre la sua legge sopraffattrice cosa che per la verità da trenta anni a questa parte è stata più volte annunciata, ma non è stata perpetrata non vi rendete conto che anche in quest’aula, dove non potete spegnere né bloccare la nostra voce, vi coprite di ridicolo e di infamia attraverso posizioni di questo genere? Perché lo fate? Per il motivo che ho detto poco fa: perché siamo all’attuazione del «compromesso storico», perché questa è la logica del «compromesso storico». Perché erano stolidi coloro tra voi, che io ritengo in buona fede e ritengo anche molto numerosi, i quali ritenevano che il «compromesso storico» in definitiva si potesse realizzare con poco costo e con molto profitto.

In fondo il loro ragionamento era che i comunisti avrebbero approvato le loro leggi, avrebbero regalato loro dei voti per coprire i vuoti che i «franchi tiratori», sempre più numerosi, determinavano nelle loro file; il tutto in cambio di due posti, secondo la spartizione della torta che abbiamo letto sui giornali. Due posti nel consiglio d’amministrazione, cioè un posto in meno dei socialisti, contro i sette dei democristiani, i due dei socialdemocratici, il posto assegnato ai liberali lasciamo andare questa faccenda che non è molto decorosa e il posto assegnato ai repubblicani. In pratica il ragionamento dei democristiani era che i comunisti li avrebbero aiutati a far passare le leggi e a bloccare l’ostruzionismo della destra nazionale perché essi democristiani soli non hanno la necessaria forza di presenza e di resistenza. In definitiva, il nuovo staff della RAI-TV assomiglierà come due gocce d’acqua al precedente staff, tranne qualche inserimento; del resto il dottor de Feo disse e documentò che i comunisti erano ben presenti e in gran numero. E non solo ci sono, ma ci mangiano! Per esempio, da tanto tempo attendiamo una risposta ad un intervento dell’onorevole Giuseppe Niccolai, il quale documentò in quest’aula che l’onorevole Terracini, «ninfa egeria» di tutti i regimi e di tutte le libertà, si fa pagare quando concede una intervista alla TV (son cose che forse agli altri colleghi non accadono). I comunisti, in definitiva, ci danno l’appoggio, lasciano passare la legge, dentro ci sono già, ci mangiano… Eh, no! I comunisti, fra i tanti vantaggi di minor conto, talora di poco conto, hanno un vantaggio, signor ministro, che è il vantaggio tipico dei partiti e dei regimi totalitari: mettono il bollo!

Dall’approvazione di questa legge, uscirete tutti bollati (ella in testa, onorevole ministro, come responsabile di questo settore) con un bel timbro. E sul timbro sarà scritto: totalitarismo. Ve lo sentirete dire, ve lo sentirete ripetere e, ahimè, ve lo sentirete dimostrare, purtroppo, negli anni e nei mesi che verranno, finché questo obbrobrio non sarà travolto. E ho sbagliato quando ho parlato di mesi e di anni, perché questo obbrobrio sarà abbastanza presto travolto, se torniamo al discorso di fondo che stavamo facendo, a proposito della marcia verso la libertà della Corte costituzionale. E allora che farete? Discriminerete la Corte costituzionale? Scioglierete la Corte costituzionale! Leggeremo sui muri: sciogliere il MSI-Destra nazionale, la DC che lo protegge e la Corte costituzionale che li sorregge. Oppure sarà omessa la DC e ci saranno soltanto MSI-Destra nazionale, come al solito, e la Corte costituzionale? Fa anche rima, signor ministro. Perché, se non arriverete a questo, il conflitto scoppierà abbastanza presto e la legge, qualora non riuscissimo a mandarla noi a rotoli con la nostra più che legittima battaglia, verrà mandata a rotoli tra qualche settimana o fra qualche mese, al primo incidente che sarà sollevato presso la Corte costituzionale. E ne sia certo: qualche cittadino che sollevi l’incidente ci sarà. E ci sarà non appena la legge sarà stata, eventualmente e sfortunatamente, varata. Vuole qualche argomento a questo riguardo, onorevole ministro? Ecco, mantengo quel che ho detto, non ripeterò una parola di quanto hanno detto ieri l’onorevole Roberti, l’onorevole Baghino e l’onorevole Guarra. Farò solo qualche considerazione aggiuntiva per chiarire questo punto, e cioè che la Corte costituzionale andrà innanzi, e non può ormai non andare innanzi.

Consideri qualche dato. Sentenza della Corte costituzionale n. 59 del 1960, di cui tanto si è parlato. Ieri, i nostri valorosi colleghi hanno accennato al fatto d’altra parte, ovvio che alla sentenza della Corte si giunse perché in precedenza era stata dichiarata non manifestamente infondata la relativa eccezione di illegittimità costituzionale. Vediamo un po’ come mai era stata dichiarata non manifestamente infondata, cioè donde si era partiti. Si era partiti, nel 1960, da un’ordinanza del Consiglio di Stato secondo cui il monopolio è di ostacolo all’attuazione dell’articolo 21 della Costituzione sotto il profilo qualitativo e quantitativo, perché lo Stato ed è il linguaggio del Consiglio di Stato (vi mettete contro, probabilmente, un po’ tutti gli organi istituzionali per lo meno quegli organi istituzionali che per forza mantengono ancora il loro prestigio e sono decisi, sembra, a difendere il quadro istituzionale democratico) perché lo Stato, dunque, dice testualmente il Consiglio di Stato «potrebbe escludere dalla diffusione in base a propri criteri ideologici una determinata corrente di pensiero». Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che all’attenzione del Consiglio di Stato nel 1960, quando eravamo ancora lontani dalla logica di regime che purtroppo sta travolgendo le istituzioni era già chiaro che lo Stato italiano di questo dopoguerra tanto poco è Stato, nel senso democratico, pregnante e garantista del termine e tanto è legato all’esecutivo, al Governo, ai partiti politici, che potrebbe escludere, in base a propri criteri ideologici, una corrente di pensiero. Il problema di fondo è questo. Quando si dice che la riserva allo Stato in termini di monopolio, è legittima per difendere gli interessi della collettività in quanto tale, evidentemente si fa riferimento ad uno Stato che non ha propri criteri ideologici diversi da quelli che discendono da una corretta e, non dico unanime, ma molto ampia interpretazione del dettato costituzionale. Se invece lo Stato viene ritenuto dal Consiglio di Stato capace di far prevaricare propri criteri ideologici su correnti di pensiero legittimate nel paese, evidentemente esso degrada, secondo il giudizio del Consiglio di Stato, a parte: non è più garanzia; necessitano, anzi, garanzie contro quella come contro qualsiasi altra parte.

A questo punto il monopolio cade, cade nella sua legittimazione di principio, non ha più senso. La Corte costituzionale neppure nelle sentenze n. 225 e n. 229 è giunta ancora ad un siffatto livello di chiarezza, ma non può non arrivarci, perché queste cose montano. Come vede, siamo ancora al 1960, ai precedenti di queste ultime sentenze; è il Consiglio di Stato che parla, un organo molto meno autonomo, molto più condizionato di quel che può essere una Corte costituzionale nel quadro delle sue garanzie e delle sue possibilità; però si afferma già questo concetto. Voi non avete il diritto perché non ne avete la capacità di parlare in nome dello Stato e come Stato: siete una parte, e tanto più lo diventate quando vi scoprite poi come Stato che discrimina, e quindi come regime. Sa, onorevole ministro, come si difese nel 1960 l’avvocatura dello Stato, dello Stato come abbiamo chiarito esso era, e come purtroppo, degradando e peggiorando, continua ad essere? L’avvocatura dello Stato, in contrasto, sostenne che la inidoneità del mezzo televisivo ad assicurare la parità dei diritti di tutti i cittadini porta a convincere che la TV non rientra nella sfera di applicazione dell’articolo 21 della Costituzione. L’avvocatura dello Stato, di questo Stato (ed eravamo al 1960, ripeto), trovava cioè questa sola difesa: l’articolo 21 non è attuabile per quel che riguarda la televisione, il mezzo televisivo, e pertanto la libertà dell’informazione, l’obiet-tività dell’informazione, la pienezza dell’informazione non possono essere garantite a quei milioni e milioni di cittadini i quali, come unico veicolo di informazione, hanno per l’appunto, come stato di necessità e per imperio di regime la radiotelevisione di Stato. Siamo nel 1960, ma le tesi, una volta affermate, hanno una loro logica, un loro determinismo, montano, portano a delle conseguenze: siamo, signor ministro, ad un dibattito globale, come piace affermare all’onorevole Ugo La Malfa. Solo che l’onorevole La Malfa sbaglia: il dibattito globale non è e non può essere quello pure importantissimo socio-economico; il dibattito globale è quello sulla libertà. Questo è il nodo da sciogliere, è la questione di fondo; ecco, ripeto, la ragione del nostro impegno in questo caso. La Corte che cosa ne dedusse nel 1960? Validamente, ma timidamente, essa si limitò ad affermare l’esigenza di leggi destinate ad assicurare imparzialità ed obiettività. Timidamente. Però quando la Corte Costituzionale, già nel 1960, affermava l’esigenza di leggi atte ad assicurare imparzialità ed obiettività, che cosa voleva rilevare, non solo in ordine all’articolo 43, ma anche e soprattutto all’articolo 21 della Costituzione? Non solo che lo Stato, in quanto tale, non è garante di imparzialità ed obiettività, ma che contro lo Stato, così come esso è, in quanto tale, occorrono le garanzie, per legge, di imparzialità e di obiettività. Principio molto importante, che ha lavorato nel tempo e attraverso il quale siamo arrivati alle nuove sentenze.

A proposito delle sentenze n. 225 e n. 226, l’onorevole Roberti ieri ha molto validamente sostenuto che la Corte costituzionale è caduta in un imbroglio in quanto si è affidata ad una perizia di parte, alla perizia redatta a cura del Ministero che ella, senatore Orlando, ha l’onore di dirigere, quando altri ne era il titolare. Ho letto su un giornale, a questo proposito, uno spiritoso commento: chiedere una perizia di quel genere a quell’organo ministeriale è la stessa cosa che chiedere all’acquaiolo se l’acqua è fresca.

Come, infatti, poteva rispondere quell’organo ministeriale, se non nella guisa in cui ha risposto? Il che mi induce e ne chiedo scusa all’onorevole Roberti a ritenere che la Corte costituzionale si sia un po’ lasciata imbrogliare, si sia adagiata nell’imbroglio, perché non mi risulta che quando si tratta di discutere una causa importante il giudice si affidi ad una perizia di parte; penso che il giudice debba piuttosto chiedere una perizia d’ufficio. Non sono avvocato, ma ho l’impressione che si usi così. Altrimenti, tanto valeva, da parte della Corte costituzionale, accettare per detto il parere dell’avvocatura dello Stato, la quale si presenta almeno credo ai dibattimenti di fronte alla Corte per sostenere i suoi avvisi, ma non con la presunzione di farla prevalere solo perché li ha affermati lo Stato. Lo Stato può portare, a convalida delle sue tesi, una perizia, ma non è che quella perizia debba risultare l’elemento determinante e decisivo: è molto strano che la Corte costituzionale non abbia chiesto una controperizia. Cosa che, del resto sarebbe stata molto facile, perché, se per avventura all’interno dei confini del nostro arretrato e progreditissimo paese non si fossero trovati dei tecnici o degli esperti, indubbiamente molti ne esistono in ogni parte del mondo, così come in ogni parte del mondo oltre agli esperti esistono le esperienze. Come si fa a sostenere che l’Italia non dispone di un certo numero di bande (credo che si chiamino così), se ogni paese al mondo e anche paesi molto meno importanti e qualificati (o squalificati) del nostro le possiede, le utilizza, le fa utilizzare? Ciò non significa che dobbiamo accettare i sistemi o i moduli di quei paesi; ciò non significa che quei paesi abbiano ragione e non torto: può anche darsi che, pur disponendo degli stessi strumenti, noi si ritenga, per il bene del nostro paese, di utilizzarli diversamente. Ma non è assolutamente accettabile che nel 1974-1975 una commissione ministeriale ci venga a raccontare che in Italia non è possibile disporre di bande di frequenza se non in numero talmente limitato da dar luogo per forza a degli oligopoli di potere (poi vorrei pur discutere su questa faccenda degli oligopoli, che ci venne raccontata per la prima volta dall’onorevole Riccardo Lombardi in quest’aula ai tempi della non mai abbastanza lodata nazionalizzazione dell’energia elettrica). Ne abbiamo tante, di bande! Proprio queste ci mancano? Costituitele !

Mettetevi d’accordo con l’ultrasinistra! Siamo pieni di bande e banditi, ma ci mancano proprio le bande della libertà. Bande della sovversione e della violenza ognuno le ha, in questo regime, ma quelle della libertà no! Oppure «ce ne sono poche». Vorrei sapere che cosa significa. Ce ne sono due, tre o quattro? Poche in rapporto a che? Si vorrebbe una banda per ogni cittadino? Per ogni utente? Per ogni provincia? Per ogni regione? Per ogni città? Oppure se ne vuole una per ogni organizzazione sindacale, naturalmente facente parte della «triplice»? Oppure una per ogni partito? Oppure la Democrazia cristiana vorrebbe una banda per ognuna delle sue correnti? Oppure il Partito socialista vuole la banda De Martino, oltre alla «banda Mancini», che opera in Calabria da tanto tempo con così eccelsi risultati? Spiegatemi che cosa si vuole e facciamola finita, come ho detto prima, con questa storia dell’oligopolio. Se per avventura si chiarisse che è possibile dare luogo a due, tre, quattro, cinque televisioni libere in concorrenza con la televisione statale, di cui nessuno, meno di tutti noi, negherebbe la legittimità, perché gli italiani dovrebbero essere condannati a vedere il Telegiornale democristiano o quello socialista? Non potrebbero vedere il giornale televisivo diffuso da un gruppo qualsiasi? Dite che si tratterebbe di un oligopolio. E voi che cosa siete? Non siete oligopoli? Non siete oligopoli consociati temporaneamente, consorziati? Il Governo della Repubblica non è consorzio di oligopoli? Che cos’altro è? E che differenza fa? E perché non collaudare questi oligopoli nella ricerca della verità in concorrenza con altri oligopoli? Diceva l’onorevole Bressani: ma come farebbero i contadini e gli abitanti delle campagne e delle piccole città (perché gli oligopoli nascerebbero nelle grandi città)? E quando avete voluto costituire consorzi, Federconsorzi, Federterra per consociare gli interessi dei contadini o, per dir meglio, per sovrapporre leciti e illeciti interessi politici e amministrativi vostri e di partito a quelli del mondo dell’agricoltura, come vi siete comportati? Non facciamo ridere! E siccome argomenti risibili non reggono, è evidente che l’imbroglio è passeggero. Le perizie arriveranno alla Corte costituzionale. Potrei dire che le nuove perizie stanno già arrivando. La Corte costituzionale (alla quale mi sono permesso di fare un addebito, ma alla quale ho riconosciuto il coraggio di una marcia indubbia verso la libertà) da un lato si è lasciata bloccare, ma dall’altro ha colto l’occasione proprio delle perizie, cioè dello stato del progresso tecnologico, per dire: siccome il progresso tecnologico si è affermato per quanto riguarda la TV-cavo e i ripetitori esteri, in questi settori non vi può essere monopolio. Anzi la Corte costituzionale ha detto qualche cosa di più a proposito dei ripetitori: niente autarchia delle fonti di informazione. Come la mettiamo? Io ho sempre saputo, onorevole ministro, che l’autarchia verso l’esterno è il riflesso del totalitarismo all’interno. Mi sembra di non sbagliare: non può vivere l’ una se non vive l’altro. Anche in termini di politica economica, come potrebbe un regime adottare una politica autarchica verso l’esterno se non avesse organizzato monopolisticamente e totalitariamente il sistema economico all’interno? Un regime che all’interno sia di libera concorrenza non può determinare, per definizione, l’autarchia verso l’esterno. E quando la Corte costituzionale afferma che non vi può essere autarchia delle fonti di informazione, che cosa vi dice? Vi dice che occorre perseguire la libertà delle fonti di informazione. La Corte costituzionale si blocca, per ora, o, per dir meglio, si lascia bloccare, perché ì vostri tecnici di parte le hanno detto che non ci sono bande. Ma siccome i vostri tecnici di parte non hanno potuto dirle che non si possono installare i ripetitori delle trasmissioni straniere, la Corte costituzionale ha detto che in questo settore non vi può essere autarchia. E non appena i tecnici, non di parte, ma d’ufficio (quelli seri), avranno detto che ci sono le bande, o che possono esserci, la Corte costituzionale non potrà non dirvi ex ore suo: niente autarchia delle fonti di informazione verso l’esterno, libertà delle fonti di informazione all’interno. Tra l’altro, ci metteremmo nella condizione, per esempio, di sentire la televisione francese che comunica agli italiani che il Movimento sociale italiano-Destra nazionale ha tenuto a Roma una grande manifestazione. Io penso di dover ricorrere, tra qualche mese, a televisioni straniere.

Io non ho, come tanti tra voi vantano di aver avuto, l’animo del fuoruscito. Io credo che le battaglie si debbano combattere nel proprio paese. E se qualche cosa caratterizza gli uomini tutti gli uomini della destra nazionale, questi miei cari amici, è proprio questa volontà indiscutibile, di combattere qui le più dure battaglie, di farci discriminare qui, di farci combattere qui, di reagire con tutti i mezzi che la legge ci consente, ma non di andarcene. Ma, pur non avendo l’animo del fuoruscito, visto che le televisioni straniere, non so se lo sappiate (soprattutto alcune come la francese, le tedesche, l’olandese, la belga, la norvegese, la svedese, l’inglese, le svizzere), richiedono ogni 15-20 giorni interviste ai dirigenti del nostro partito, noi avremo l’onore di fare degli accordi e gli italiani avranno la mortificazione siete voi che riceverete lo schiaffo di sapere una parte della verità e delle informazioni attraverso le televisioni straniere, le quali, fra l’altro, essendo a colori, essendo probabilmente meno «mangerecce» e quindi meglio fatte, essendo meno noiose, presentando dei volti cui gli italiani, almeno per qualche mese, non si saranno così maliziosamente assuefatti da domandarsi come ci stiamo domandando se siano i veri volti oppure le imitazioni di Noschese, costituiranno un ottimo veicolo per la libertà d’informazione degli italiani all’interno del nostro paese.

Sono queste le situazioni alle quali vi esponete attraverso una riforma di questo genere. La Corte costituzionale, ripeto, è stata chiarissima a questo riguardo circa la libertà della televisione via cavo. Avete cercato di porre limitazioni, di frenare in qualsiasi modo questo processo, ma sapete benissimo che esso non può essere frenato perché è legato a grossi interessi. Qualcuno tra di voi ha avuto il coraggio di dire che si trattava di impianti installati a scopo di lucro: ma voi questo servizio lo prestate forse gratuitamente? Voi costate molti soldi agli italiani. Io ho i dati relativi ai costi orari della televisione italiana in rapporto a quella svizzera. E siete forse così costosi perché i vostri collaboratori si fanno pagare cari? Ma no, io non indulgo a queste argomentazioni scandalistiche che hanno poco interesse. Siete costosi perché avete bisogno di numerose équipes di collaboratori, e perché, non essendo d’accordo tra di voi, costituite un regime che non ha neppure il vantaggio o il pregio dei regimi seri, che è quello dell’unità di comando. Voi avete l’unità di imbroglio nella varietà dei comandi, dei sottocomandi, delle «cosche», delle «mafie». E tutto questo costa caro. Avete ridotto la televisione ad una grande «mafia» di Stato, ad una «cosca» dì Stato con i bosses che sparano ne parleremo tra poco palle infuocate l’uno contro l’altro. Naturalmente, tutto questo costa caro al popolo lavoratore italiano.

Ma la Corte costituzionale, andando avanti verso la libertà, ha fatto qualche cosa sulla quale non so se ella, onorevole ministro, abbia meditato. La Corte costituzionale è stata concepita dall’Assemblea Costituente in guisa tale da poter cassare una legge, ma non da poter riempire gli eventuali vuoti. Consapevole di questo suo stato di minorazione rispetto al Parlamento, la Corte costituzionale di solito, in passato, si è limitata, cassando delle leggi o facendo cadere dei principi, a dare dei generici e sfumati consigli e indirizzi al legislatore. Questo, infatti, la Corte stessa ha fatto nel 1960 (sentenza n. 59), in ordine alla riforma della RAITV. Questa volta la Corte costituzionale non si è fermata a questo, ma ha voluto stabilire, con le sentenze n. 225 e n. 226, non solo dei principi e degli indirizzi, ma dei limiti e delle direttive precise cui avete cercato, in parte riuscendovi ed in parte no, di sfuggire. La Corte costituzionale, questa volta, non si è limitata a dichiarare illegittime le norme finora vigenti, ha precisato che le nuove norme debbono attenersi ai principi da essa indicati. Ed ha fatto qualche cosa di più: fra i principi ne ha indicato uno (e questa è l’unica cosa che io ripeto di quanto ha detto l’onorevole Roberti, perché mi interessa più di ogni altra) affermando che la TV deve essere aperta imparzialmente ai gruppi nei quali si esprimono le varie ideologie presenti nella società. Mi pare che questa sia una indicazione tassativa; e qui casca l’asino, signor ministro, perché una eccezione di incostituzionalità relativa a questo preciso indirizzo sarà certamente sollevata, e la legge farà appena a tempo ad essere varata che ci troverete a dover dimostrare l’impossibile, cioè di avere ottemperato a questa indicazione tassativa, proprio nel momento in cui l’avete spudoratamente, sfacciatamente violata. E non solo la violate nella legge, ma andate oltre, o almeno qualcuno di voi va oltre. Leggetevi il comunicato del gruppo socialista!

Il gruppo socialista poteva benissimo, nel quadro di discussioni o di dibattiti interni, come spesso accade, assumere questa o quella posizione, dire «no» a determinate profferte o richieste che venivano da altre parti della maggioranza. Ma quando il gruppo socialista, relativamente ad un tentativo di attenuare la discriminazione sancita in questa riforma, dice ufficialmente di no e lo dice durante il dibattito parlamentare, e ritiene di doverlo pubblicare in un comunicato, ebbene, questo per un giudice costituzionale rappresenta una occasione anche troppo facile per smascherare non soltanto i vizi di incostituzionalità, ma le colpe, il dolo. Qui c’è la manifesta volontà di truffare, insieme con la Corte costituzionale, le libertà degli italiani. Infine la Corte costituzionale questa volta ha indicato i fini cito testualmente perché «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». Diametralmente opposti!

Quando, pertanto, all’inizio di questo mio intervento, mi sono permesso di rilevare che vi è un indirizzo di libertà, un indirizzo innovatore, un indirizzo di interpretazione aperta della Costituzione che viene portato avanti da noi, essendo stato portato molto coraggiosamente e perspicuamente avanti dalla Corte costituzionale, e che vi è un contrastante indirizzo di regime, mi riferivo, con esattezza, a una affermazione della Corte costituzionale la quale, ancora prima di conoscere quel che sarebbe accaduto in sede di regime, ancora prima di conoscere quel che avreste fatto e le conseguenze che avreste dedotto dalle sue sentenze n. 225 e n. 226, ha ammonito (è una specie di lapide): «il monopolio pubblico potrebbe tendere a fini e portare a risultati diametralmente opposti a quelli voluti dalla Costituzione». A questo punto, occupiamoci per il momento delle vostre posizioni attuali, riferendoci alla relazione della maggioranza.

Io ho molta simpatia per l’onorevole Bubbico, che ho sempre considerato un uomo d’ordine. Conosco meno l’onorevole Marzotto Caotorta, ma penso di non offendere la sensibilità e il garbo né dell’uno né dell’altro non è nella mia intenzione se mi permetto di dedicare loro una battuta (prendetela, per favore, come una battuta). Ho il Bubbico… che sia un po’ Caotorta questa vostra relazione della maggioranza. E il Bubbico mi viene,… il dubbio mi viene quando attentamente, come è mio dovere e come è mio piacere, io la leggo: perché vedo le firme di Bubbico e di Marzotto Caotorta, ma io ci sento il Fracanzani, altro collega nei riguardi del Quale, naturalmente, ho la massima simpatia e deferenza. Ci sento il Fracanzani, perché è un uomo d’ordine come l’onorevole Bubbico e un personaggio come l’onorevole Marzotto Caotorta (un uomo con due cognomi,per giunta), difficilmente senza una

ispirazione fracanzanea, o granellesca, non so, scriverebbero cose di questo genere.Vi cito (e ciò sia detto fuori di un mal concepito moralismo): «In nome di un corretto rapporto tra potere politico e azienda televisiva, rapporto da non considerarsi sempre e comunque elemento di corruzione e di corrompimento, da ricostruire responsabilmente» vi prego di fare attenzione «nella pratica quotidiana, fuori degli interessi autogeneratisi dal sistema dei partiti». Questa frase è meravigliosa. Non so se ci si riferisca agli autogeneratori di corrente, che possono essere necessari in caso di uno sciopero dell’ENEL. È poi da notare: il sistema, gli interessi, «come spinta» (ecco Fracanzani: quando trovo la parola «spinta», io penso sempre ad una ispirazione democristiana di sinistra) «ad una maggiore maturazione dei “quadri”, al di là di un asettico aziendalismo». Questo è il tocco finale: «asettico aziendalismo». Questo asettico aziendalismo, nel quadro degli interessi autogeneratisi, costituisce veramente un quadro di ambiente democristiano 1974.

Non desidero tuttavia cavarmela in questo modo. Voglio rilevare e non mi sarà difficile dimostrarlo che la risposta che questa maggioranza ha dato alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale dimostra che «l’arco costituzionale» volta le spalle alla Corte costituzionale. È questa una tesi che, espressa a freddo e a vuoto, potrebbe anche sembrare generica o addirittura provocatoria, mentre si tratta di una tesi che, nel quadro delle considerazioni che sto svolgendo, mi sembra assolutamente valida. Ora, la maggioranza ha risposto alle sentenze della Corte costituzionale con un decreto-legge, prendendo lo spunto dallo stato di necessità e dalle condizioni forzate che io stesso poco fa ho riconosciuto. Fin qui poco da obiettare, a costo di essere censurato dai più scrupolosi costituzionalisti. Ma questo è soltanto il modo della risposta. Tuttavia quando ci troviamo davanti ad una sentenza della Corte costituzionale (di molti mesi fa) la quale costituisce un impegno in termini di libertà, non possiamo poi prescinderne anche nella sostanza.

Vediamo invece qualche tratto non umoristico della relazione della maggioranza. Dicono i relatori, a pagina 5, che «il lungo, complesso cammino della riforma della RAI-TV, opportunamente collegata con la regolamentazione della TV-cavo locale e dei ripetitori stranieri, è contraddistinto da un parallelo impegno della Corte costituzionale». Se «parallelo» è un termine da voi usato una volta tanto in senso matematico-geometrico, allora voi avete perfettamente ragione; ma se, per avventura, avete scritto questa parola nel senso ormai invalso dal 1960-61 nella politica italiana, nel senso cioè di parallele che si incontrano, allora, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta, la Corte costituzionale ha marciato in un senso e voi in quello opposto. C’è ancora qualche altra cosa interessante nella vostra relazione. Voi parlate e ne avete tutto il diritto delle opposizioni che si sono manifestate contro questa riforma, e così vi esprimete a pagina 6: «Sembra quasi che una certa sfiducia nel sistema dei partiti unisse forze imprenditoriali, movimenti extraparlamentari, partiti di destra nel tentativo estremo di “liberalizzare” la televisione». Insomma, voi ritenete che il tentativo di liberalizzare (anche se la scrivete tra virgolette, la parola ha un suo significato non oppugnabile) sia un tentativo colpevole, nel quale si sono associati dei complici, che voi indicate nelle forze imprenditoriali, nei gruppi extraparlamentari e nei partiti di destra. Io non ho il diritto di chiedere una spiegazione, che vi deve chiedere invece l’onorevole Malagodi. Tra i partiti di destra questa volta avete messo anche il suo! Penso che il Partito liberale dovrà tener conto in questa fase, nel momento in cui entra nel consiglio d’amministrazione, di questo vostro giudizio che lo accomuna a noi (passi: ne siamo onorati), che lo accomuna a gruppi imprenditoriali e a movimenti extraparlamentari. Penso che alludiate a movimenti extraparlamentari di sinistra, perché io non conosco movimenti extraparlamentari dì destra che si occupino di questi problemi. Mandano messaggi, e non credo che facciano gran che di diverso. Ho chiesto lo scioglimento di tutti i movimenti extraparlamentari, e almeno in questo penso di essere inteso con semplicità e con chiarezza! Secondo i relatori di questa legge di regime, di questa importantissima riforma, quindi di un testo che ha un’importanza non dico storica, ma parlamentare di primo piano, vi è un’alleanza fra gruppi imprenditoriali (chi volete intendere: Agnelli, Cefis, Girotti, Marzotto, lo scià di Persia?), i movimenti extraparlamentari, la destra nazionale, il Partito liberale) per liberalizzare il servizio radiotelevisivo. Vorrei sapere per quale ragione dovrebbero esservi alleanze di questo genere, quando si tratta evidentemente di un dibattito che interessa tutti i cittadini italiani, tra i quali potranno anche esservi coloro che preferiscono il monopolio di Stato, ma tra i quali sono assai numerosi coloro che gradirebbero avere in casa propria una scelta tra diverse reti televisive, tra quella di Stato e quelle liberalizzate o libere.

Si aggiunge: «Il mantenimento del monopolio in una società come la nostra non appare certo come strumento di coercizione nei confronti delle minoranze, ma di tutela e di garanzia per la libertà di espressione di tutti, specie dinanzi ad un quadro economico e sociale ove le soluzioni alternative non potrebbero necessariamente emergere e coagularsi, se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato». Qui siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Questa è una interpretazione marxista non della società italiana come essa è (perché i marxisti, che sono normalmente seri, anche se arcaici forse seri perché arcaici ne darebbero una interpretazione più approfondita, meno abborracciata), ma è una interpretazione marxista per quanto attiene alla concezione dei rapporti sociali, economici, politici e democratici in una qualsiasi società! Che significa affermare che nell’attuale società italiana le soluzioni alternative, cioè televisioni in concorrenza, non potrebbero emergere e coagularsi se non attorno a concentrazioni di capitalismo avanzato? Il solito Fracanzani ce lo dovrebbe spiegare! Che cosa significa? Che per costruire impianti televisivi occorrerebbero concentrazioni capitalistiche? Forse che anche la vostra non è una concentrazione capitalistica, con i capitali dei cittadini? Nel momento in cui si sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera e soprattutto sì sostiene il capitalismo di Stato contro l’economia libera in ordine ai problemi della informazione e della formazione culturale, siamo al marxismo, onorevoli Bubbico e Marzotto Caotorta! Siamo fuori di una qualsiasi riforma della RAI-TV che in un regime democratico possa essere discussa, accettata, respinta, gradita o no! Tocchiamo un problema che è persino più grave del grave problema della discriminazione, che ci interessa, che interessa milioni di cittadini fuori di qui e ancora di più ne interesserà.

Forse l’avete scritta con la mano sinistra questa relazione. Non voglio recarvi offesa, poiché forse l’avete scritta senza rendervi conto di quello che scrivevate. Ve ne voglio dare la prova attraverso un altro passo della relazione, dove si parla della libertà di manifestazione del pensiero affermando: «In questa prospettiva si è sostenuto nella più recente dottrina che i termini del problema vanno invertiti, attribuendo rilevanza prevalente alla collettività nella acquisizione delle notizie, con conseguente funzionalizzazione della situazione dei soggetti che provvedono a diffondere le medesime». Si afferma, quindi, che l’acquisizione delle notizie e la loro diffusione rappresentano un interesse della collettività e funzionalizzano, al servizio della collettività, i soggetti che provvedono a diffonderle. Si tratta dei giornalisti della RAI-TV. In tal senso vengono totalmente ignorati gli oggetti non chiamiamoli soggetti che hanno diritto alla ricezione e anche alla presentazione delle informazioni stesse.

A questo punto, non siamo solo al marxismo, ma siamo a qualcosa di più. Voi, infatti, avete già realizzato attraverso passi simili non so se ve ne siete resi conto un marxismo che si spinge più in là di quello attuato in alcune parti del mondo. Attraverso alcun nostre frasi voi siete arrivati a quello Stato perfetto, non più esistente, vaticinato da Lenin nei suoi testi; siete al marxismo stalinista postsovietico; siete arrivati ad una società in cui non esiste il senso della collettività e nella quale i destinatari delle informazioni non sono nemmeno ipotizzati come oggetti. Da parte vostra non si è discusso nemmeno se i cittadini abbiano il diritto di essere informati…. “

BUBBICO: “Mi riservo di risponderle dopo, in sede di replica, onorevole Almirante.”

ALMIRANTE: “Ne sono lieto, onorevole Bubbico. Siamo qui proprio per stimolare i chiarimenti. Tuttavia ad una lettura attenta e deferente dei vostri testi infatti io non ho voluto parlare senza tenere conto delle vostre tesi mi sono trovato, non senza sorpresa, di fronte a tesi che vanno oltre quello che perfino un relatore comunista avrebbe avanzato per difendere questo decreto-legge. Infatti non mi sembra assolutamente necessario abolire la categoria dei cittadini anche come oggetti. Non è pensabile quanto voi sostenete qui: che cioè quello che voi affermate è sostenuto anche dalla più recente dottrina. Spero, onorevole Bubbico, che ella avrà la cortesia di citare in sede di replica i testi cui vi riferite. Saremo lieti di conoscere qual è la «più recente dottrina» che stabilisce che le parti si sono invertite e che è la collettività stessa che deve captare e trasmettere le informazioni. Tutto finisce, quindi, in questa funzionalità della collettività che, attraverso i suoi soggetti, trasmette le informazioni ad una massa inerte, addirittura inesistente di cittadini.

In Russia vi è il dissenso: vi è per essere mandato in Siberia, e vi è anche per far filtrare la sua voce. Quindi neppure nell’Unione Sovietica, neppure in Cina tutto è funzionalizzato fino al punto da negare la funzione del cittadino, il quale deve essere informato, formato, deve poter prendere la parola, essere rappresentato e avere quel diritto di accesso che a parole voi concedete attraverso questa legge, ma poi negate nei fatti a parti cospicue della rappresentanza politica e sociale del nostro paese. Infine (non desidero ripetere quanto detto ieri) alle sentenze n. 225 e n. 226 della Corte costituzionale avete risposto, mediante questo decreto-legge, con posizioni come quelle che ora ho indicato, con norme di legge che rappresentano un passo indietro rispetto al disegno di legge Togni. L’onorevole Roberti lo ha dimostrato: nella nostra relazione di minoranza, per la quale ringrazio l’amico onorevole Baghino, si attesta che dopo le due succitate sentenze la maggioranza ha ripreso per intero il disegno di legge Togni che precedeva quelle sentenze; e, quando lo ha modificato in ordine ai problemi della libertà, lo ha modificato in peggio.

Quando, all’inizio di questo mio intervento, ho affermato che l’«arco costituzionale» ha voltato le spalle alla Corte costituzionale, mi sono riferito non soltanto a posizioni di principio, ma anche a posizione legislative di cui vi siete assunta la responsabilità. Ciò premesso, sono costretto a questo punto a pronunciare una brutta parola non inventata da noi: lottizzazione. Da molti anni si parla di lottizzazione a proposito della RAI-TV. Il fatto che questo vocabolo sia stato adeguato alla realtà dell’informazione radiotelevisiva presenta contenuti morali che indubbiamente non vi sfuggono. Vogliamo rapidamente rinverdire la storia della lottizzazione, per renderci conto delle ragioni e dei modi con cui si è giunti al punto in cui siamo? Non è difficile. Per cominciare correttamente, mi riferisco all’intervento svolto dall’onorevole Delfino il 28 maggio 1969, nel corso di uno dei tanti dibattiti sulla riforma della RAI-TV. Il nostro collega fece un’osservazione obiettiva cui nessuno ebbe modo di replicare: se esaminate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle poste) e l’ente radiofonico, relativamente al 1952, e consultate la convenzione tra lo Stato (Ministero delle comunicazioni) e l’EIAR del 1927, vi accorgete che le due convenzioni si assomigliano in maniera impressionante. La storia, ecco, è cominciata con la proroga di una norma fascista dal 1952 al 1972, secondo la convenzione, e dal 1972 al 1974-75, secondo ulteriori provvedimenti. Io non me ne impressiono, anche se taluno se ne è impressionato. Qualcuno si è impressionato quando il procuratore generale della Cassazione, dottor Colli, giorni fa, ha rilevato l’identica cosa a proposito dei codici in vigore da circa trent’anni a questa parte, salvo alcune modificazioni. È interessante rilevare che anche la storia della convenzione tra lo Stato e l’ente radiofonico, la storia del monopolio e della concezione monopolistica, è cominciata da dove ho detto, ed è continuata tranquillamente nel corso di un trentennio. Non mi scandalizzo, e non me ne diverto: tutt’altro. Infatti non è divertente assistere a simili contraffazioni, denunciare simili manchevolezze, nel quadro di una polemica che vede la nostra parte accusata da voi di tenere perennemente gli occhi rivolti al passato. Sono costretto a rivolgere gli occhi al passato proprio per la vostra incapacità di guardare nel presente e verso l’avvenire. Ancora una volta combattiamo battaglie di avanguardia mentre voi continuate a combattere squallide battaglie di retroguardia. La storia è cominciata così.

E come è continuata? È continuata nel solito modo, cioè inserendo nella persistente logica di norme di un regime totalitario i comodi di un regime democratico. Ecco, il regime totalitario ha mantenuto, anche a questo riguardo, le sue strutture iniziali; per 22 anni una convenzione fascista è rimasta in piedi e ha regolato i rapporti delicatissimi fra lo Stato ed i mezzi di informazione radiotelevisivi. Però, in questo giaciglio, non si sono accomodati, evidentemente, i gerarchi del vecchio regime, bensì i gerarchi, i manutengoli, i clienti, i prosseneti del nuovo regime. Questa è la realtà! La lottizzazione è questa: la torta è rimasta lì, l’avete tenuta in frigorifero voi che parlate di frigorifero nei nostri riguardi e ogni tanto ne avete tirato fuori una fettina per aggiudicarla a questo o a quel cliente. Niente di strano, per carità, niente di scandaloso, tranne il fatto che di volta in volta, a seconda del costituirsi o del dissolversi dell’una o dell’altra maggioranza, sono diventati «Catoni censori» i profittatori di ieri e sono diventati profittatori di oggi i «Catoni censori» di ieri. Non credo di essere indiscreto se dico che, prima dell’inizio di questa seduta, ho avuto spero di non nuocergli un breve e cordiale colloquio con un parlamentare comunista di tutto rilievo (ora non è più deputato: lo hanno punito), l’onorevole Lajolo, che io ricordo come uno dei primi e più intelligenti colleghi che si siano occupati di questi problemi quando entrambi facevamo parte della Commissione interni di questo ramo del Parlamento (poi passammo insieme alla Commissione affari costituzionali). Fra le mie carte ho trovato un intervento dell’onorevole Lajolo del 28 maggio 1969 nel quale egli malinconicamente diceva: «Ebbene, il Partito repubblicano ha fatto queste due proposte, valide, nell’unico momento in cui è stato lontano dal Governo. Quando si sentiva all’opposizione ha presentato la proposta di legge e ha chiesto l’inchiesta parlamentare, ma non appena è andato al Governo ha imitato il Partito socialista non dando più seguito a quelle proposte, che sono scomparse dalla circolazione». Ebbene sono passati quasi sei anni è scomparso dalla circolazione, come parlamentare, l’onorevole Lajolo, il Partito comunista è entrato praticamente nella maggioranza e tiene bordone al Partito repubblicano che è entrato nel Governo e agli altri partiti che nel Governo o nella maggioranza sono entrati o sono rimasti. Fra qualche settimana, o qualche mese, qualcuno dei soci di Governo si distaccherà, ricominceranno le geremiadi delle denunce e degli scandali delle lottizzazioni, vi riunirete e concederete qualche altro posticino. Qualcuno dell’onorevole Paolicchi non si parla più annuncerà clamorose dimissioni (che non darà, perché fino ad oggi non abbiamo avuto seguito al riguardo), dimissioni relative, fra l’altro, alla SIPRA (un ente ancor più «mangereccio» di quanto non sia la stessa RAI-TV), e poi, dopo qualche articoletto o corsivetto sui giornali, ci sarà qualche promozione a sottosegretario o a ministro, visto che lo abbiamo udito ieri in quest’aula un sottosegretario può, anche come funzionario di Governo, continuare ad assolvere le sue funzioni pur se la Camera ha concesso, per peculato, l’autorizzazione a procedere a suo carico..

Questa della polemica sulle lottizzazioni è una storia malinconica: ed io ne ho ricavato soltanto qualche fioretto, qualche piccolo stralcio, tanto per distendere, a modo mio, l’ atmosfera.Ad esempio,io ebbi l’onore di conoscere, proprio alla televisione (mi pare due anni fa),una persona,divenuta poi parlamentare repubblicano, l’ onorevole Bogi, il quale forse, fra tutti i parlamentari, è quello che ha dimostrato maggiore interesse per la riforma al nostro esame. Egli se ne è occupato con indubbia competenza, per aver fatto parte, per fare tuttora parte, dello staff dirigenziale della RAI-TV.Anche l’ onorevole Bogi, in un recente passato si è concesso qualche licenza.Per esempio, quando ha preso parte ad un convegno del Partito comunista a Roma- marzo 1973- sui problemi della riforma della RAI-TV, ed ai comunisti (state a sentire, onorevoli collegi,perché è veramente un pezzo impagabile e rilevante) ha detto: Stiamo attenti tutti!La Democrazia cristiana ora, formalmente, è sulla posizione di difesa del privilegio di potere riservato all’ esecutivo. E’ una posizione battuta. La Democrazia cristiana ha, secondo me, un secondo disegno: ed è quello della caduta sul ParlamentoÖCioè, diceva Bogi nel marzo del 1973, la Democrazia cristiana farà finta di togliere all’ esecutivo i controlli sulla RAI- TV per portali al Parlamento, rientrando così dalla finestra poiché gli uomini sono sempre quelli, perché di partiti si tratta, perché quello è il partito che conta, perché è il partito che comanda, tanto a livello di Parlamento quanto di esecutivo. State attenti, dunque, diceva l’onorevole Bogi: la Democrazia cristiana ha un secondo disegno, quello della caduta sul Parlamento! State accorti, amici comunisti, egli ripeteva. (Sai come ridevano tra di loro i comunisti, quando l’onorevole Bogi diceva di stare attenti alla Democrazia cristiana, di stare attenti che il loro progetto non fosse magari quello della Democrazia cristiana? Ma guarda!) «…perché un Parlamento continuo nella lettura che abbia il ruolo di tutela verso il servizio radiotelevisivo, che eserciti il doppio ruolo di direttiva e di vigilanza, non sia poi in definitiva l’obiettivo di un grande partito, quantitativamente presente in maniera pesante nel paese, che è la Democrazia cristiana. Stiamo attenti, cioè, ad impostare una lotta che la DC non possa accettare in partenza; perché, se può accettare la spartizione sulla base dei tre quinti» ma guarda, l’onorevole Bogi sapeva già dei tre quinti…. «o sulla ripartizione dei seggi regionali», sapeva anche questo nel marzo del 1973 «allora la nostra battaglia, al di là del clamore, è una battaglia perduta». Onorevoli colleghi, nei fatti, voi siete destinati a fare i comprimari. Il gioco grosso è quello tra democristiani e comunisti. È evidente! Salvo a vedere prognosi riservata chi soccomberà. Salvo, evidentemente, a rendersi conto delle future relazioni ufficiali «fracanzanee» che ci troveremo dinanzi. Questo, però, è il gioco.

Ai liberali, che ancora una volta desidero ringraziare, dal nostro punto di vista, per l’atteggiamento che almeno ieri hanno tenuto, mi permetto di dire: state attenti anche voi! Quando vi capitò, infatti, di poter inserire un vostro rappresentante, un uomo molto qualificato, fra l’altro non di partito, ma un giornalista che tutte le correnti di opinione giudicano egregio e valido, pur contrastandolo e combattendolo magari, vi ricordate come fu trattato? Forse non vi torna in mente che, nella seduta del 6 febbraio 1973, l’onorevole Donat-Cattin in quest’aula così si espresse a proposito dell’inserimento di Enrico Mattei al vertice della TV: «Inutile sgarbo nei confronti dei socialisti…; immissione nel comitato direttivo di un giornalista specializzato nella calunnia politica verso uomini e partiti che non riscuotono la sua simpatia, e che può soltanto rappresentare un malinconico decentramento culturale del Partito liberale». Questo è il modo con cui personaggi a livello di Governo si permettono di parlare di problemi relativi alla libertà di informazione e alla libertà di giudizio da parte dei giornalisti. Ripeto che mi sono limitato a cogliere fior da fiore, per farvi rilevare l’ ho già fatto precedentemente, a proposito della Corte costituzionale alcune cose sulla stampa quotidiana italiana. Ho già notato con soddisfazione che questa mattina almeno una parte dei quotidiani che di solito ignorano le nostre tesi si sono dichiarati o approssimativamente o abbastanza apertamente in nostro favore. Tenete presente, signori del Governo e della maggioranza del regime, che la stampa italiana, quotidiana e periodica, è molto interessata a questi problemi; e che, per quanto essa possa essere ammorbidita per i noti e arcinoti sistemi di cui un regime si serve per ammorbidire la stampa, oltre un certo ammorbidimento non si potrà andare. Non voglio farvi perder tempo, ma debbo ricordarvi che di recente un giornale, non certamente nostro amico, il Corriere della sera, ha pubblicato cose assai dure a proposito di questa riforma. Ho sotto gli occhi una copia del Corriere della sera del 30 novembre 1974, dove si può leggere: «A questo criterio, il criterio che informa la riforma, bisogna opporsi con nettezza. La nostra opinione è che il paese, al contrario di quanto si vuol far credere, ha mostrato in varie occasioni di essere maturo per autonomia di giudizio e quindi per l’esercizio della libertà».Un giornale ancora più lontano dalla nostra parte, La Stampa di Torino, si è poi espresso molto duramente sul conto della riforma e, in particolare, a proposito del sistema del doppio telegiornale e del triplo giornale-radio.

Tenete presente che vi è un movimento di stampa e un movimento di opinione che non riuscirete a fermare. Anche in relazione ad un’osservazione fatta abbastanza recentemente, il 24 gennaio 1974, da un valoroso parlamentare liberale, il senatore Valitutti, il quale, parlando della riforma della RAI-TV, osservava che l’Italia è forse il solo paese con libere istituzioni e fondato sul pluralismo politico, in cui il monopolio del mezzo tecnico televisivo si congiunga al monopolio della formazione di programmi senza limiti e senza attenuazioni. Persino nella Francia, tradizionalmente accentratrice, il duplice monopolio televisivo, tecnico e culturale, è meno compatto e meno monolitico di quello italiano. E ha citato la Francia come caso-limite, perché negli altri paesi liberi dell’occidente il problema non si pone addirittura, o si pone in termini attenuati anche rispetto alla situazione francese.

Che cosa intendo dire? Intendo dire che, quando si agitano campagne di stampa contro questa riforma, esse non sono mosse e non sono riconducibili soltanto a quelli che voi definite interessi, che d’altra parte sono interessi perfettamente legittimi; non sono riconducibili alla legittima o non legittima riserva allo Stato ai sensi dell’articolo 43 della Costituzione; non sono riconducibili alla gestione di potere in termini economici. Sono riconducibili alla gestione del potere, in questo caso, in termini di valutazione e lievitazione di programmi. È questo il nodo. E a questo nodo la Corte costituzionale ha tentato di dare una misura o per lo meno una possibilità di scioglimento. Il regime a questo riguardo si è irrigidito; noi riteniamo ancora che abbiate commesso un gravissimo errore. Ho parlato delle responsabilità dei vari partiti politici; consentitemi di riferirmi in particolare (questa non è né una rivalsa né una vendetta, ma un legittimo esercizio di critica politica) a due fra i partiti del cosiddetto «arco costituzionale», il Partito socialista e il Partito comunista, dei quali, sempre per rapidi accenni, vorrei esaminare un momento le posizioni assunte nel corso di questi anni.

Comincio con un fiorellino. Vi dirò subito dopo chi è stato ad esprimersi in questo modo alla Camera, nella seduta del 23 maggio 1969. Cito tra virgolette: «Se mi si consente l’espressione, del tutto paradossale, direi che dovremmo dar vita ad una sorta di “magistratura della verità”, per quanto riguarda la televisione, la cui nomina potrebbe avvenire con i criteri non dirò uguali, ma analoghi, che in un campo più alto e più generale, vengono usati per la Corte costituzionale». Chi lo ha detto? Un uomo della destra nazionale? Un liberale? Un democristiano di destra? Lo ha detto l’onorevole Bertoldi (è un fiorellino!). Il 23 maggio 1969 l’onorevole Bertoldi si è svegliato ed è venuto qui per dire che alla televisione avrebbe dovuto esservi una «magistratura della verità», con guarentigie addirittura! simili a quelle che presiedono alla formazione della Corte costituzionale. Perché l’onorevole Bertoldi si esprimeva in quella guisa? Evidentemente perché la ragione politica generale, il 23 maggio del 1969, lo collocava in un quadro esterno al regime dominante la RAI-TV, e quindi in una posizione di onestà intellettuale.

Ritroviamo l’onorevole Bertoldi, a non molta distanza di tempo, il 6 febbraio del 1973, in quest’aula. Sono passati tre anni e mezzo: vediamo che cosa dice il Bertoldi «edizione 1973». Questo Bertoldi non si presenta più come un sacerdote della magistratura della verità, ma si presenta come un frate penitente (sono due fra gli atteggiamenti tipici dei socialisti nostrani), e dice: «Non ho alcuna difficoltà ad ammettere che la direzione del nostro partito può avere anche seguito la vicenda della RAI con scarsa attenzione in passato; è un’autocritica che riguarda anche me stesso, perché sono da molti anni membro della direzione e della segreteria del PSI. Probabilmente, non abbiamo seguito con sufficiente attenzione quello che avveniva all’interno e al vertice della RAI-TV; non abbiamo avuto il tempo, dati i frangenti, di approfondire un problema che stava marcendo, che è marcito ed oggi è esploso». Ci si era seduto sopra, l’onorevole Bertoldi, quale frate predicante, e quale frate penitente aveva sentito lo scoppio, per fortuna restando illeso nelle parti sedenti, perché le parti raziocinanti non avevano avuto il tempo di occuparsi e neppure di accorgersi di quello che era accaduto. E aggiungeva: «Per quanto riguarda la permanenza di Paolicchi alla SIPRA» perché nemmeno di questo, stando seduto, egli si era accorto «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» Bertoldi era infatti penitente al cospetto dei comunisti, non al cospetto della propria coscienza, o del proprio partito, o del Governo, o della maggioranza: i comunisti, come ora vedremo, gli avevano tirato le orecchie «vorrei comunicare all’onorevole Galluzzi» diceva l’onorevole Bertoldi «e anche al Presidente del Consiglio» per carità, prima all’onorevole Galluzzi, e poi anche al Presidente del Consiglio! «che il collega Paolicchi si dimetterà anche da amministratore delegato della SIPRA, perché tale carica è collegata con quella di amministratore delegato della RAI o, per lo meno, in via di prassi, è collegata nella stessa persona, e le dimissioni da amministratore delegato dell’ente comportano anche le dimissioni dalla SIPRA».

Ora, io credo di non sbagliare dicendo che l’onorevole Bertoldi, come frate penitente, diceva il falso, in quanto l’onorevole Paolicchi non si era affatto dimesso, e non si è dimesso neppure successivamente da amministratore delegato della SIPRA; e quindi, oltre tutto, c’è anche questo. Ma quello dell’onorevole Bertoldi non è un caso isolato: queste sono le posizioni tipiche del Partito socialista, della classe dirigente del Partito socialista, che talvolta è fuori del Governo, oppure vuol far cadere il Governo: ed allora ecco le posizioni di santità, le «magistrature della verità», la democrazia (sempre dando un’occhiata complice al Partito comunista, per sentire quali siano il suo avviso e il suo indirizzo). Quando, poi, i socialisti rientrano, si siedono, e allora sono occupati, sono occupati nel sedere, non possono vedere quel che capita intorno, e neppure quello che capita sotto. Marcisce tutto? Marcisca pure, ma immarcescibile rimanga la faccia tosta dei dirigenti del Partito socialista, che riprendono immediatamente a predicare, annunziano le dimissioni di chi non si dimette, la fine di una mangeria che continua ed incalza. E poi, avanti, verso la nuova riforma: ci sono i posti? Sì, ed allora tre posti al Partito socialista, e due al Partito comunista. Sono quei tali posti che consentono di determinare una maggioranza in occasione della votazione del bilancio, che è l’unica cosa che conti in quel consiglio di amministrazione. Siamo a posto, tutto va bene. Ed anzi, i «missini» osano fare l’ostruzionismo? Si convochi la Giunta per il regolamento, perché i «missini», nemmeno alla Camera, debbono poter parlare troppo di questi così troppo delicati argomenti. Eccolo il Partito socialista, nelle sue vere espressioni e manifestazioni di potere. “

PRESIDENTE: “Onorevole Almirante, desidero precisare che non è stata convocata la Giunta per il regolamento. “

ALMIRANTE: “La ringrazio molto, signor Presidente, di questa precisazione; e colgo il significato di questa sua cortese interruzione. La ringrazio moltissimo. “

Applausi a destra).

PRESIDENTE: “È una constatazione che non merita l’applauso. “

ALMIRANTE: “Signor Presidente, se me lo consente, anche riferendomi ad antichi, ma non dimenticati, nobili episodi di comportamento della Presidenza, questo merita l’applauso di un deputato e di un uomo libero. Nient’altro che questo: credo che questo non manchi di buon gusto e sia opportuno. Se queste, non rampogne per carità, non ne ho l’autorità ma constatazioni e considerazioni di fronte ai modi di comportamento di certa parte della classe dirigente del Partito socialista provenissero soltanto da noi, avrebbero un valore polemico, e magari di documentazione, ma non di più. Ma tali richiami vengono da sinistra. Il Mondo, il giornale radicale che non è molto contento di questa riforma per determinati motivi, che fanno parte della logica del fronte o del frontismo di sinistra, non ha esitato a scrivere, il 9 maggio 1974, che «i socialisti su questo problema della RAI-TV hanno dato pessima prova»; ed ha aggiunto: «quando il loro rappresentante in seno alla RAI-TV, lo scrittore Giorgio Bassani, fu invitato a dare le dimissioni per lasciare il posto a Luciano Paolicchi, venne affermato che l’avvicendamento era dovuto a ragioni molto precise: si trattava di introdurre nella roccaforte un elemento politico che sapesse combattere dall’interno per la riforma del sistema». Ecco le cure culturali, intellettuali della sinistra socialista; lo scrittore Bassani non si dirà certamente che io difendo una causa nostra: per altro si tratta di un uomo di tutto riguardo deve lasciare il posto all’uomo di partito, ad uno che veda, che non si lasci imbrogliare. L’uomo di partito «vede» nel modo che abbiamo potuto constatare, e lo riducono al punto che l’opinione pubblica e il Partito comunista gli chiedono di andarsene; non se ne va egualmente, e il suo partito afferma il falso dicendo in piena aula che si è dimesso. Mi sembra che questo sia per il Partito socialista un patrimonio di credibilità davvero ragguardevole! E perché come dicevo poco fa l’oratore socialista si riferiva al Partito comunista e precisamente all’onorevole Galluzzi, prima ancora che al Presidente del Consiglio? Perché l’onorevole Galluzzi, a nome del Partito comunista, non era stato certo molto tenero nei confronti dei socialisti e dei loro modi di comportamento; ora che filate il perfetto amore, è bene che queste cose si dicano, anche perché potrà capitare che qualche socialista integro ce ne sarà qualcuno dica oggi o domani ai comunisti quello che i comunisti si sono divertiti a dire ai socialisti nei periodi in cui non erano ancora d’accordo nello spartirsi la torta. L’onorevole Galluzzi parlò duramente nei confronti dei socialisti a proposito della RAI-TV in almeno due occasioni, il 6 maggio 1971 e il 13 dicembre 1972. Dico duramente, perché ascoltate bene disse: «La realtà è che i compagni socialisti alla RAI-TV non hanno saputo in alcun modo caratterizzare, al di là delle affermazioni verbali, il loro ingresso ai vertici dell’azienda nel senso di spingere avanti un profondo rinnovamento dei metodi e degli indirizzi, ed hanno finito per ricadere nel gioco di potere, per subire, accettando di rinchiudersi nella gabbia del quadripartito» una gabbia dorata! «della politica di regime, finendo così per accettare la prevalenza ed il dominio del partito più forte». E ancora. Il 13 dicembre 1972 i comunisti dicevano: «Abbiamo preso atto che vi siete resi conto, voi socialisti, che la politica del condizionamento all’interno è finita e si è tradotta in una copertura delle scelte della Democrazia cristiana e dei suoi diretti rappresentanti al vertice dell’azienda». Ora siete tutti quanti insieme ed è evidente che il discorso cambia, tanto è vero che lo stesso settimanale radicale che citavo poco fa, e che critica così apertamente le posizioni e le responsabilità del Partito socialista, mette in luce anche le posizioni e le responsabilità del Partito comunista.

Vorrei occuparmi di questo argomento, perché mi sembra che, politicamente, sia l’argomento di fondo. Vorrei cioè aiutare me stesso a comprendere quali sono le contropartite reali, i motivi di fondo, le spinte (come dice il Fracanzani) che hanno suggerito al Partito comunista di tenere un atteggiamento che è di copertura e di appoggio (non voglio neppure dire di complicità) verso una riforma in favore della quale noi non sappiamo ancora se il Partito comunista arriverà ufficialmente a pronunciarsi e a votare, soprattutto se verrà posta, come potrebbe darsi, la fiducia da parte dell’onorevole Presidente del Consiglio. Io sono rispettoso delle posizioni altrui soprattutto quando tali posizioni vengono assunte apertamente. Non penso quindi che il Partito comunista sia entrato nell’ ordine di idee di favorire il passaggio (e addirittura il rapido passaggio) di questa riforma soltanto per l’offerta dei due posti nel consiglio di amministrazione. Certo, queste sono cose che hanno il loro peso e la loro importanza. Ma, come per noi (se permettete, gente seria) hanno peso e importanza fino a un certo punto, possono cioè pesare e certamente pesano in relazione ai modi di comportamento, ai modi di sviluppare una opposizione, ai modi di portare l’opposizione fino all’ostruzionismo, ma non fino al punto di annebbiare le nostre idee sul quadro generale della riforma, così io non posso permettermi di pensare che il Partito comunista un partito serio -ritenga che due o tre posti possano modificare il suo giudizio di fondo sul conto di questa riforma. Anche perché è un giudizio che il Partito comunista, come ogni altro, sarà chiamato d’ora in poi a portare dinanzi alla pubblica opinione per chiarirlo, per giustificarlo. Questo non è un problema sul quale non si possano e non si debbano fare i conti ogni giorno con la pubblica opinione. la RAI-TV del regime, così come la detesta il «missino», e che si sentirà dire nei prossimi giorni che il suo partito è stato favorevole a questa riforma, vorrà pure dei chiarimenti: potranno i colleghi comunisti andare a raccontare che hanno avuto due posti? Certamente, no. Ci vuole qualcosa di più. Vediamo ora di capire di che cosa si tratta, attraverso i testi dello stesso Partito comunista o in genere i testi della sinistra che ho cercato di consultare.

Diceva ancora Il Mondo, dando una prima interpretazione, il 9 maggio 1974: «Nella sostanza» (ci si riferiva al disegno di legge Togni, che però conteneva, grosso modo, per quanto riguarda la televisione via etere, tutte le norme contenute in questo decreto) «il PCI ha avuto soddisfazione su almeno tre punti: ha visto l’accesso al video assicurato alle regioni, il che gli permetterà di compensare altri squilibri; è stata confermata l’esclusione dal mezzo radiotelevisivo dei raggruppamenti politici che non hanno rappresentanza parlamentare, come per esempio gli odiati radicali; il PCI, infine, farà parte, con i suoi rappresentanti, del nuovo comitato nazionale per la radiotelevisione e con ciò partecipa anch’esso alla lottizzazione, negandosi così come forza di opposizione». I radicali individuano così tre motivi del soddisfacimento, o parziale soddisfacimento, comunista: l’accesso delle regioni, l’esclusione al vertice dei partiti non rappresentati in Parlamento, l’ingresso nella lottizzazione (negandosi così il Partito comunista come partito di opposizione).

Le regioni. Penso che i comunisti ne parleranno e ne parleranno anche altri, se interverranno in questo dibattito. Io non vorrei sembrare a questo riguardo né irriverente nei confronti di una realtà che c’è, che abbiamo combattuto prima del suo sorgere ma che indubbiamente esiste, né dimentico del peso che questa realtà obiettivamente può avere. Ma, quando nel quadro istituzionale di questa riforma ci si riferisce alle regioni, allora non facciamo ridere!, perché non ci si riferisce alle regioni, ma ci si riferisce ai designati da ciascun consiglio regionale per entrare a far parte degli organi dirigenziali della RAI-TV; designati i quali altro non sono se non i rappresentanti dei vari gruppi politici, secondo i numerini stabiliti nel protocollo aggiuntivo e negli accordi più o meno segreti. Non facciamo quindi ridere e non ci si venga a dire che entrano le regioni. No, entrerà, in rappresentanza della regione Emilia, il mio vecchio amico e commilitone di Repubblica sociale, oggi presidente della regione Emilia – Romagna, avvocato Guido Fanti, nella sua qualità di tesserato al Partito comunista italiano. Non penso proprio che la voce di Guido Fanti, in quanto rappresentante della regione, sarà molto diversa dalla voce dell’onorevole Napolitano o dell’onorevole Galluzzi che vi entrano in quanto membri del Parlamento. Questa storia secondo cui il Partito comunista avrebbe vinto una grande battaglia perché entrano le regioni, andatela a raccontare a qualcun’altro, non a noi, perché non ha grande rilievo. Questo è semplicemente il coro dell’Aida. Entrano i sindacati, voi direte che hanno ottenuto un’altra grande vittoria perché entra la «triplice», entrano i lavoratori. Perché, il dottor Lama è «i lavoratori»? Il dottor Lama è un iscritto al Partito comunista, ed è la cinghia di trasmissione di una volontà politica: con intelligenza, con capacità, con bravura, con bonomia che nessuno gli vuole negare, anche se sono trucchi che non incantano più nessuno.

Non venite a raccontare che avete aperto alle forze culturali. Ma come? Quando si è tentato, nel corso dell’elaborazione di questa riforma, di fare posto alle rappresentanze culturali, ho letto nei testi sacri (Accademia dei Lincei, per carità, chi si permette di proporlo?), nei vostri testi non soltanto di sinistra, ma anche democristiani, essere assurdo che ci si riferisca agli enti culturali; e non ho letto che alcuno abbia scritto, per esempio: riferiamoci all’ordine dei giornalisti perché designi qualche giornalista come tale al vertice della RAI-TV per occuparsi dei programmi, del gradimento, della capacità di comunicare con la gente. Per carità, siano tutti degli asini bardati, purché rappresentanti dei partiti. Via coloro che possono contare qualche cosa intellettualmente, perché occorre la rappresentanza dei partiti. E poi andate a raccontare che il Partito comunista ritiene di aver vinto perché porta le regioni e i sindacati! Porta i suoi iscritti, per carità, degnissimi, che faranno il proprio dovere di iscritti al Partito comunista, che porteranno avanti la tesi partitocratica e di regime del Partito comunista, e questo è tutto. Che poi i comunisti abbiano fatto questa battaglia per escludere i radicali, lasciamolo sostenere ai radicali. Sono cose che fanno molto ridere, anche perché abbiamo visto che la relazione Bubbico e Marzotto Caotorta è più radicale che democristiana e quindi evidentemente i radicali, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra. Mentre è seria l’ultima considerazione, la sola seria: il Partito comunista, nel nuovo comitato, parteciperà alla lottizzazione negandosi così come forza di opposizione. Che le cose stiano in questo modo lo dimostra tutta la tattica del Partito comunista, il quale ha sempre combattuto e denunziato la lottizzazione finché la lottizzazione avveniva senza di esso. Entratone a far parte, ritiene che essa sia un dato positivo. Ma questo non è tutto. Per cercare di capire quale sia il vero atteggiamento del Partito comunista, credo si debbano mettere a confronto due testi ufficiali. Mi riferisco a Rinascita del 10 maggio 1974 e all ‘ U – nità del 2 dicembre 1974. Essi fanno riferimento, ufficialmente, al parere del Partito comunista in ordine alla riforma della RAI-TV. Rinascita si riferisce al testo del disegno di legge Togni, per intenderci, prima delle sentenze della Corte costituzionale, mentre l’Unità si riferisce al nuovo accordo dopo, nonostante e contro le sentenze della Corte costituzionale stessa. Non ho l’impressione che la stampa quotidiana italiana si sia soffermata su questi due testi e li abbia messi a confronto, perché la cosa sarebbe stata edificante: infatti, essi esprimono due pareri contrapposti.

Rinascita esprime il parere contrario del Partito comunista, riferendosi al progetto di legge Togni, mentre l’Unità esprime il parere quasi del tutto favorevole del Partito comunista, riferendosi ai successivi accordi. Se non vi fosse altro documento, il confronto fra questi due testi sarebbe sufficiente a dimostrare che siete potuti arrivare, nonostante e contro la Corte costituzionale, alla presentazione di questo disegno di legge solo perché il Partito comunista ha cambiato avviso.

Il Partito comunista, su Rinascita del 10 maggio 1974, spiegava i motivi della sua opposizione, e diceva: «Anzitutto viene mantenuto il rapporto Stato – società concessionaria, invece di risolvere il problema come era stato indicato non solo da noi, ma anche dai socialisti e da vasti settori democristiani, eliminando ogni equivoco, ogni scappatoia privatistica: dando cioè vita ad un ente di Stato». Questa tesi, che si dovesse e si debba dar vita ad un ente di Stato (i colleghi comunisti me ne possono dare atto) è stata sempre la tesi del Partito comunista in quest’aula da quando l’onorevole Lajolo, per primo, ebbe a presentare un apposito progetto di legge. Era, ancora fino al maggio del 1974, la tesi del Partito comunista, il quale criticava duramente ed era una critica preliminare e di fondo, di quelle che portano al «no» più netto e più rigido la possibilità che si dovesse persistere nell’equivoco nel quale, invece, si è voluto insistere. Aggiungeva ancora Rinascita: «Rilevavamo nella relazione presentata al nostro progetto di legge che l’ente non era per noi una semplice alternativa formale al Governo, che gestisce la RAI tramite l’ IRI, ma la fine della politica delle concessioni e delle gestioni di tipo privatistico in settori decisivi della vita dello Stato e insieme l’esigenza di un profondo rinnovamento strutturale e democratico della pubblica amministrazione».

Ora, i casi sono due: o il Partito comunista, nel corso di questo dibattito, riprende la tesi esposta su Rinascita del 10 maggio 1974 (e si tratta di una tesi, dal punto di vista comunista, del tutto legittima, non solo perché coerente con i precedenti indirizzi di tutto il dopoguerra, ma perché coerente con quelle più generali del Partito comunista), o, come sembra, il Partito comunista molla su questo punto e non ne fa un motivo ostativo ad un suo atteggiamento di sostanziale favore nei riguardi di questo disegno di legge. Ma allora che cosa significa tutto questo? Significa forse che il Partito comunista si accontenta perché ha due posti, oppure i tre quinti? No, certamente. Significa che il Partito comunista ritiene il passaggio di questa riforma in questi termini talmente importante e qualificante ai fini della marxistizzazione della società e quindi della marxistizzazione della informazione, e quindi della negazione della libertà e quindi della capacità di dominio o per lo meno di accentuata precisione del Partito comunista su tutta la società in tutti i sensi, da non dar più peso al particolare perché diventa a questo punto un trascurabile particolare della società privata o della mano pubblica. Questa è la realtà. Cioè di privato non c’è più nulla; il Partito comunista sa che non c’è più nulla perché è riuscito, attraverso la sua penetrazione politica, a contaminare tutto quel che di privato c’era.

Siamo alla favola di Mida in senso opposto: qui si trasforma in piombo, per cattive rotative, tutto quello che poteva brillare come oro. Questa è la realtà. Il Partito comunista si trova a suo agio nel quadro di questa riforma, perché questa è una riforma marxista, è la base per la riforma in senso marxista o per l’antiriforma in senso marxista di tutta la società italiana, il che costringe il Partito comunista a smentire se stesso, ma mette noi, soli, per vostra inedia, inerzia e mi permetto di dirlo per vostra viltà, nella condizione di denunziare il Partito comunista nello stato di flagrante contraddizione, di flagrante tradimento di quegli interessi che esso ha sempre detto di difendere. Ancora una volta, se non ci fosse la posizione chiarificatrice non ostruzionistica in senso gretto, chiarificatrice fino all’ostruzionismo della destra nazionale, queste tesi nessuno le metterebbe in luce. E vi assicuriamo, assicuriamo i comunisti che le metteremo in luce in ogni parte d’Italia. E torniamo ancora a Rinascita del 10 maggio 1974: «A questo punto compare nelle trattative di Governo il fantomatico “protocollo di gestione”, sottoscritto dai quattro partiti e interpretativo della legge. Che si sia dovuti ricorrere ad esso è indicativo delle carenze del provvedimento…». Io vorrei sapere, se il Partito comunista il 10 maggio 1974 riteneva illecito, vergognosamente illecito il metodo del protocollo di gestione, cioè della sostanza della legge approvata fuori del Parlamento, resa addirittura esecutiva fuori del Parlamento, senza che il Parlamento ne fosse o ne sia minimamente informato, come mai a distanza di meno di un anno, di pochi mesi, il Partito comunista non ne parla più, «glissa». Evidentemente questa volta il protocollo porta anche la sua firma. Siamo a questo punto: non soltanto più all’assemblearismo, all’appoggio, alla complicità, ai voti mendicati in corridoio e offerti in aula; qui siamo all’intesa extracostituzionale, anticostituzionale. Cioè l’«arco costituzionale» si realizza in quanto realizza fuori e contro la Costituzione, fuori della potestà e della vigilanza del Parlamento, le proprie intese ai danni della nazione.

Questa è la situazione in cui si è collocato o si sta collocando il Partito comunista. Continua infatti Rinascita del 10 maggio 1974, con parole che noi possiamo sottoscrivere, ma che i comunisti non possono ripetere più: «Tutta la parte gestionale è nel protocollo. Nel protocollo si parla di due reti e di due telegiornali; nel protocollo si assegnano anche le cariche direttive della RAI, presidente e direttore generale dei due programmi e dei due telegiornali. Dal protocollo apprendiamo che vi saranno un presidente socialista, un direttore generale democristiano, due direttori di reti e di telegiornali democristiano e socialista. Il cosiddetto pluralismo interno è dunque affidato al protocollo, è un accordo tra i quattro partiti e anch’esso, come nasce, così può finire. Ma neppure il protocollo, che formalmente il Parlamento «ignorerà» per fortuna ci siamo noi, altrimenti lo avrebbe ignorato! «chiarisce quale rapporto vi sarà tra il direttore generale e i direttori dei telegiornali. E dire che non chiarisce è già essere ottimisti. Il testo dice che il direttore generale coordina le varie proposte presentando un programma organico al consiglio di amministrazione, che le informazioni giornalistiche saranno fornite da due telegiornali, il direttore di ciascuno dei quali…» eccetera. Continua Rinascita: «Che significa tutto ciò? Che la piramide via via si restringe e che tutto il potere finisce nelle mani del direttore generale, anche se in parte è limitato dalle nuove strutture istituzionali e gestionali?».

E allora, comunisti, vi siete seduti sulla piramide o siete nascosti dentro la piramide, come quei cadaveri faraonici che neanche con i mezzi radar si riesce in questi tempi a individuare? Evidentemente questa piramide vi piace. Evidentemente avete mutato giudizio non essendo mutata la situazione, anzi essendo, come vi abbiamo dimostrato e come sapete benissimo, peggiorata, se è vero, come è vero, che l’Unità del 2 dicembre 1974, con firma Dario Valori, pubblica: «Siamo lieti che con senso di responsabilità altri partiti abbiano ritenuto di imboccare questa strada» (cioè la strada suggerita dai comunisti). «In tal modo, finalmente, la riforma della RAI-TV entra in una fase risolutiva per gli aspetti legislativi, e bisognerà riflettere sull’esperienza accumulata nel lungo cammino percorso, allargando sempre più lo schieramento politico» (che faccia tosta!) «e realizzando una significativa unità fra le regioni, i sindacati, gli operatori del mondo dell’informazione, i dipendenti della RAI-TV. Sulla sostanza degli accordi definiti tra i partiti di centro-sinistra, abbiamo già sottolineato come importanti proposte del movimento riformatore e del nostro stesso partito siano state recepite nel testo governativo». Ciò è falso: il testo governativo nel 1974-75 è peggiorato a confronto del testo governativo Togni; la Corte costituzionale è riuscita a determinare degli spiragli, delle aperture di libertà contro i precedenti avvisi del Partito comunista, il quale era contrario tanto alla libertà per la TV-cavo, quanto alla libertà per i ripetitori stranieri. Quindi, gli aspetti positivi per il Partito comunista sono ancor più negativi degli altri aspetti. Per il resto, si è istituita una gestione societaria, della quale parlerò tra poco, che l’IRI stesso dichiara di non accettare, e che è ancora peggiore della precedente. E, comunque sia, non si è giunti alla formula, auspicata logicamente dal Partito comunista, dell’ente pubblico. Il protocollo aggiuntivo è stato in tutte le sue parti rispettato, perfezionato e addirittura predisposto fuori del Parlamento, e il Partito comunista afferma: entrano le regioni (come ho accennato), entrano i sindacati (anche questo lo ho già detto: si tratta dei rappresentanti della CGIL, eccetera) e, pertanto, sono state accolte le proposte e possiamo guardare con soddisfazione a questa bella riforma.

Non credevo che il Partito comunista si potesse avvilire e ridurre a tanto. Avevate già a vostra disposizione tanta parte della RAI-TV! Perché vendere il vostro prestigio di Partito serio per il piatto di lenticchie di due o tre rappresentanti, i quali credetemi si metteranno a mangiare insieme con gli altri e forse sono già a tavola. Forse nel protocollo aggiuntivo è inserito anche qualche accordo preventivo per spartizioni di torta. Francamente, il vostro atteggiamento non può che lasciare perplessi.

Ho accennato pochi istanti fa alla questione IRI, che, come sapete, è di grande rilievo. Non so se sia vera la notizia che circola, secondo la quale il presidente Petrilli avrebbe scritto in proposito una pesante lettera al Presidente del Consiglio. Qualora ciò fosse vero, la notizia non potrebbe che trapelare nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore; ma anche se, per caso, il presidente Petrilli non fosse arrivato a tanto, ho l’impressione che egli si sia egualmente espresso, e non certo a titolo personale, con estrema chiarezza, anzi con durezza. Affrontiamo per ordine, per brevi accenni, questo problema il quale, da solo, a mio parere, meriterebbe un intero dibattito. La Corte dei conti, nel trasmettere alle Camere, nel 1973, la sua relazione sulla gestione finanziaria della RAI-TV, così si esprimeva: «L’IRI, nella qualità di azionista di maggioranza, ha preso in esame nel corso di varie riunioni degli organi deliberanti la gestione della società. Le valu-tazioni dell’Istituto trovano esternazione nella relazione programmatica del Ministero delle partecipazioni statali del 1973, nella quale è affermata, nella ipotesi di rinnovo della concessione, l’imprescindibile necessità che si ristabiliscano nella loro integrità, e non solo nominalmente, i poteri di intervento e le funzioni attribuite dalla legge all’Istituto, quale ente di gestione e azionista di maggioranza della concessionaria, in ordine alla conduzione aziendale e alla economicità della gestione, dovendosi constatare che si sono superati largamente i limiti dei criteri di economicità che caratterizzano la impostazione di fondo delle attività imprenditoriali del gruppo IRI». Vi era dunque fin dal 1973 questa posizione, che non era di riserva, ma addirittura di condanna da parte dell’IRI, massimo socio partecipante, nei confronti della gestione dell’azienda RAI-TV. A questo punto nel dibattito tra le varie tesi (azienda pubblica, azienda privatizzata, azienda irizzata) prevale la tesi indubbiamente singolare secondo cui l’azienda diventa una azienda IRI e pertanto dovrebbe diventare un’azienda pubblica, ma viene gestita come società privata, accollando all’IRI tutto l’onere e non consentendo all’IRI i controlli, le guarentigie, le condizioni di agibilità, che dovrebbero essere concessi.

Si era parlato in proposito di un accordo di superficie. Si era detto lo ripeto per averlo udito che di questa manovra aveva accettato di far parte anche il professor Petrilli in relazione all’avvenire dell’IRI o ad altre contropartite che all’IRI potessero essere concesse. Non è evidentemente così, e che non sia così lo abbiamo imparato per gradi dall’ interessato. L’allarme è stato dato dal Fiorino, che il 1° dicembre 1974 pubblicava i retroscena relativi ad una specie di alterco, per lo meno ad una discussione molto vivace, tra il professor Petrilli e l’onorevole La Malfa. Il Fiorino chiariva che il pro-fessor Petrilli aveva dovuto fare un energico passo presso il Governo, in quanto tutta la dirigenza dell’IRI era assolutamente contraria alla situazione che andava determinandosi. Per qualche giorno non se ne seppe più nulla. Poi, stimolato da un’indagine che veniva pubblicata sul settimanale L’Europeo, il professor Petrilli ha inviato a questa rivista una lettera, in cui erano contenuti dei chiarimenti. Scriveva il professor Petrilli: «Non eravamo quindi, come non siamo mai, latori di istanze che non siano rigorosamente circoscritte alla nostra responsabilità di gestori di un’azienda, alla quale si è ritenuto opportuno conservare lo status giuridico, invero soltanto apparente, di società per azioni».

Ci si deve spiegare che cosa significhi «status soltanto apparente di società per azioni». Non ho né la capacità né la competenza né la voglia di parlare di questo problema in termini giuridici. Ne parleranno altri colleghi ed è opportuno che lo facciano; per quanto mi riguarda, ne parlo in termini squisitamente politici e di responsabilità, ne parlo cioè come cittadino, come deputato, come segretario di partito, il quale vuole capire perché l’ IRI debba avere il cento per cento delle azioni di una società e questa società debba mantenere lo status di società privata. Perché? Da ignorante penso che se si giunge ad una formula anomala, così vistosamente anomala, debba esservi un motivo. E da ignorante, non da malizioso, sono indotto o costretto a pensare che il motivo non sia di quelli che possono essere proclamati sui tetti, perché altrimenti non si sarebbe messo un personaggio importante, serio e responsabile come il professor Petrilli nella condizione penosa in cui egli è stato messo. Penso quindi che vi sia un motivo non confessabile. Il motivo di questo caso da ignorante, lo ripeto può identificarsi in un tentativo di sfuggire a determinati controlli. Lo dico in termini politici, i miei colleghi lo esprimeranno molto meglio in termini giuridici, ma evidentemente si vuole sfuggire uno status per mantenerne un altro solo fittiziamente, in quanto si vogliono ottenere i requisiti e i vantaggi del nuovo status, mantenendo però i vantaggi e i requisiti del precedente. In questo modo si vuole dar vita, anche in questo caso, ad un sistema statale in senso totalitario e di regime, conservando però, sotto il profilo dei controlli, il più comodo status di società a gestione privata. Questo è ignobile; è questa la parte più sporca di tutta la riforma, che nulla può giustificare. Non si può accettare nessun protocollo aggiuntivo, nessuna manovra dietro le quinte, dal momento che qui si gioca con la coscienza e con i soldi degli italiani. Voi fate tutto questo, ma almeno abbiate il coraggio delle vostre azioni! E invece: tutte le azioni all’IRI, tutte le azioni allo Stato, pur trattandosi sempre di una società privata. Queste cose non le fanno nemmeno i magliari, non le deve fare il Governo, né la maggioranza, né la gente rispettabile. Non si mette una persona, anch’essa rispettabile, come il presidente dell’ IRI, nelle condizioni di fare queste figure. Tant’è vero che i rappresentanti che TIRI deve eleggere sono 6 ed a quest’ora, nel protocollo aggiuntivo, sono già scritti i nomi delle persone che il presidente Petrilli deve nominare. Bella figura!

Dice ancora Petrilli, sempre in quella lettera, che, dato il carattere del tutto atipico della RAI-TV, nella quale l’ingerenza dell’azionista è limitata alla corretta conduzione aziendale, senza facoltà di intervento o di interferenza sul prodotto, ossia sui programmi e sulla loro impostazione, l’assolvimento di questi compiti presenta tratti veramente ardui. L’azionista, come ho già detto, e quindi anche il possessore del 100 per cento delle azioni, non può interferire sui contenuti e sui prodotti. Non si tratta in questo caso di una fabbrica di automobili. In questo caso si produce pensiero, coscienza, informazione, cultura, ignoranza, si produce spettacolo, faziosità, si produce violenza. Su tutte queste cose il presidente dell’IRI e la società privata non hanno alcuna facoltà di intervento. Petrilli, sempre in quella lettera, affermava che era veramente arduo risolvere il problema ed aggiungeva di avere sempre espresso le più vive preoccupazioni per una gestione amministrativa progressivamente allarmante. Egli concludeva quella lettera affermando che nel caso specifico della RAI-TV sarebbe pura astrazione, alla luce della realtà, attribuire all’IRI un qualsiasi potere. Senonché il professor Petrilli…. “

ROBERTI: “Se il professor Petrilli continua ad insistere, sarà eliminato! “

ALMIRANTE: “Anch’io ho questa impressione, perché a prescindere dalle voci di una lettera che egli avrebbe indirizzato al Presidente del Consiglio se la notizia corrisponde a verità, tale lettera verrà alla luce ci sono le considerazioni dello stesso professor Petrilli in sede parlamentare, vale a dire dinanzi alla Commissione bilancio della Camera. Anche in questo caso, posso rispondere, a quei giornalisti che hanno parlato male della destra nazionale, che se non ci fossimo stati noi, il professor Petrilli non avrebbe rilasciato certe dichiarazioni a proposito della RAI-TV e della riforma; non le avrebbe certamente rilasciate se non gli fossero state rivolte le domande dell’onorevole Delfino.

Gli è stato chiesto sono costretto a rifarmi al giornale del nostro partito, mancando ancora i testi stenografici dell’intervento come egli valutasse il decreto-legge di riforma della RAI-TV. Il professor Petrilli ha risposto: «L’IRI valuta negativa-mente il decreto-legge di riforma della RAI-TV». Avendogli il nostro parlamentare fatto notare che l’IRI avrebbe un potere diminuito, il professor Petrilli ha risposto: «Ella, onorevole Delfino, ha parlato di un potere diminuito dell’IRI nella RAI-TV, ma forse ha voluto fare dell’umorismo, in quanto l’ IRI potere effettivo non ne ha mai avuto. Figuriamoci ora che su 16 membri del consiglio di amministrazione ne avrà solo 6, …senza nemmeno sapere se potrà liberamente nominarli, o se gli saranno imposti. In questa cosiddetta società per azioni» ha proseguito «l’IRI non potrà esercitare alcun controllo e, trattandosi di un ente pubblico nella sostanza, sarebbe preferibile che lo fosse anche nella forma». Ora vogliamo sapere dal Governo, ma soprattutto dai settori di sinistra, se hanno l’intenzione, almeno dopo queste dichiarazioni del professor Petrilli, di portare avanti fino in fondo la battaglia che i comunisti da tanto tempo, dal loro punto di vista legittimamente, avevano intrapreso per la nazionalizzazione della RAI-TV e per la costituzione di un ente di Stato. La nostra lo sarebbe altrettanto, non voglio dire di più. Quella dell’ IRI è diventata una posizione impossibile: se continuasse ad essere tale, diverrebbe indecorosa e scandalosa. Finalmente la magistratura si sta movendo anche per i casi di peculato: sono finalmente state rispolverate 46 denunce che erano ferme da tanto tempo. Come si pentiranno coloro che, attraverso i protocolli aggiuntivi, ambiscono in questo momento ad entrare nei vari organi, dai quali vogliono escluderci! Quante denunce di peculato verranno fuori! Non c’è dubbio che ciò accada. Quando una amministrazione è incontrollabile, non c’è posto per le persone per bene, le quali cominciano in anticipo a sentir odore di bruciato… Le persone per bene tentano di trarsi di impaccio, e fanno quello che credo stia per fare il professor Petrilli. Non è possibile che una persona per bene accetti di entrare in una società che gestisce migliaia di miliardi dello Stato e del contribuente, sapendo a priori che si tratta di una società la quale non è pubblica e nemmeno privata; sapendo che i controlli non vengono esercitati, come in anticipo dichiarano coloro che dovrebbero esercitarli, traendosi fuori della questione. Questo è peggio di un calderone: altro che lottizzazione! Fin da questo momento potete lottizzare i peculati: cominciate a distribuirli! Non ci fermeremo soltanto ai ricorsi alla Corte costituzionale: come cittadini ed utenti, attraverso la promozione di apposite associazioni, attraverso la civile disobbedienza di cui vi abbiamo parlato, noi vi manderemo tutti quanti in galera, se parteciperete a questo imbroglio!

Questa volta l’imbroglio non è solo perpetrato, ma è anche smaccatamente dichiarato: vi siete scoperti senza malizia. Con qualche espediente tecnico, avreste potuto coinvolgere la responsabilità del presidente dell’IRI, e invece lo avete posto in condizione di lavarsene le mani, prima ancora che la faccenda cominciasse. Come vi salverete, quando vi troverete con ogni probabilità disgiunti anche da quelle responsabilità dell’IRI? Vi salverete in termini di regime: perché il regime ha ragione, perché potete permettervi tutto con la coscienza degli italiani, forse, ma un po’ meno con le tasche degli italiani. Machiavelli insegna tante cose: qui le tasche c’entrano quanto le coscienze. Penso che il vostro calcolo possa essere radicalmente sbagliato.

Non sto facendo un discorso ostruzionistico: come vedete, tratto solo una parte delle molte cose di cui dobbiamo parlare. Debbo aggiungere qualcosa in tema di moralizzazione, perché anche a questo riguardo l’atteggiamento delle sinistre disturba. Una volta gli scandali a questo riguardo erano promossi abbastanza validamente dal Partito comunista. L’onorevole Pajetta proprio alla televisione fece, se non altro, la sua prima campagna elettoralmente efficace, in termini di scandalismo, parlando di mille miliardi. Ci provò, anni fa, anche per quanto riguarda la televisione. Ho qui davanti a me un intervento (non molto lontano nel tempo, del 18 maggio 1969) dell’onorevole Giancarlo Pajetta, nel quale egli così si esprimeva: «L’onorevole Giorno ha parlato di coloro i quali devono il loro posto soltanto alla funzione che svolgono nei partiti. Noi abbiamo chiesto e tale nostra richiesta era contenuta nel testo delle interrogazioni da noi presentate che venisse pubblicato l’elenco dei collaboratori». Quante volte abbiamo chiesto l’elenco dei collaboratori! Ne parlò l’onorevole Roberti, ne parlarono gli onorevoli Giuseppe Niccolai e Calabrò, ne hanno parlato un po’ tutti i nostri; per la verità ne parlavano anche i comunisti. «Di quelli proseguiva Pajetta che prendono più di sei milioni l’anno» (cifra che va riferita al 28 maggio 1969) «chiedendo di sapere se avessero un doppio lavoro, presso quali uffici, studi, segreterie di partito, uffici stampa». Siccome, nel frattempo, molti di essi si sono trasferiti nella segreteria e negli uffici del Partito comunista, quest’ultimo l’elenco non lo chiede più. Questa sarebbe stata certamente un’informazione interessante, ma non l’abbiamo avuta. «Onorevoli colleghi continua l’onorevole Pajetta senza nulla concedere all’ amore del paradosso, che pur non nascondo, devo dire che qualche volta i meno dannosi sono i funzionari politici che vengono pagati dalla RAI e non lavorano presso la RAI, quelli che vengono pagati soltanto perché uno dei partiti chiede di ottenere un canonicato e quindi uno stipendio. Questi sono i meno deleteri. Ci rubano il denaro perché questo è quello che si deve dire ma accontentiamoci, perché ci rubano solo il denaro, mentre gli altri ci rubano anche i minuti della televisione (e questo è più grave)». Chissà se l’onorevole Pajetta ha voglia di ripetere interventi di questo genere o se qualcuno dei suoi amici è disponibile per dire queste cose. “

ROBERTI: “Ora ci sono le nuove leve! “

ALMIRANTE: “Chissà se, ora che il Partito comunista fa parte della lottizzazione, i famosi elenchi dei collaboratori verranno fuori. E, come ho già detto precedentemente, chissà se, ora che il Partito comunista può dare informazioni dirette, si saprà quanto vengono pagate le interviste a Umberto Terracini, a Lelio Basso, a Paolo Vittorelli (sarebbe molto importante sapere queste cose). Chissà se il dottor De Feo, che in altri tempi sollevò nuvoloni e polveroni, almeno attraverso la sua denuncia di comunistizzazione della RA -TV, sarà contraddetto col vigore del passato dai comunisti nelle occasioni che potrebbero verificarsi. Sono riusciti a liquidarlo proprio perché ha fatto il suo dovere. Comunque sia, verranno fuori, questa volta, gli elenchi dei collaboratori, le loro retribuzioni! E le denunce per peculato, senza alcun dubbio, si estenderanno. Onorevole ministro, la pregherei di darci, nella sua replica, qualche notizia sulla SIPRA, che rappresenta un problema essenziale. Altri esponenti della mia parte politica parleranno in maniera approfondita della questione della pubblicità; io non mi ci soffermo se non per dire, come giornalista professionista, che il problema della SIPRA non può non essere esaminato e deve essere risolto. E non può essere risolto «a babbo morto», cioè dopo; occorrono per lo meno in questa sede, soprattutto se dovesse essere posta la questione di fiducia, impegnative dichiarazioni del Governo e, se possibile, a parte la questione di fiducia, del Presidente del Consiglio. Perché dico questo? Perché sul problema pubblicità radiotelevisiva o, più vastamente, sul problema pubblicità in generale come ella sa, signor ministro sono caduti dei Governi? Perché? Perché ed io le parlo come giornalista professionista il problema della sopravvivenza della stampa quotidiana e di larga parte della stampa pe-riodica è legato alla soluzione del problema della pubblicità. E se ella avrà l’amabilità di rispondere, signor ministro, ci fornisca, per cortesia, i dati reali. Ho qui una tabella che risale al 1973 ed è di fonte comunista; alla stessa non dovrei, pertanto, prestare ascolto, ma proprio per tale sua natura la prendo in esame. È stata pubblicata in allegato al bel volume di studio del Partito comunista sul convegno relativo alla riforma della RAI-TV tenutosi nel marzo 1973, a Roma. Da tale tabella che, ripeto, proviene da quella fonte, risulta che nel 1963 la TV incassò l’11,2 per cento dei proventi pubblicitari e nel 1970 il 16,9 per cento degli stessi. La stampa quotidiana, invece, dal 1963 al 1970 è passata sempre secondo quei dati dal 38 al 28 per cento. Cioè, mentre la TV ha guadagnato il 5,7 per cento, la stampa quotidiana ha perduto il 10 per cento. La stampa periodica avrebbe guadagnato ma subito dopo, onorevole ministro, le fornisco di ciò una spiegazione passando dal 25,3 al 33,4 per cento. La stampa nel suo insieme ha, tuttavia, perduto, passando dal 63 al 61 per cento. Sa perché, onorevole ministro, la stampa periodica ha complessivamente guadagnato negli anni che ho considerato? Perché la SIPRA «non si limita» (leggo su un giornale) «ad avere questo soltanto; vuole di più ed invade tutti i settori pubblici-tari. Ha più di 40 testate di giornale, ha 2.400 sale cinematografiche, si occupa di pubblicità con aerei, e il che è una chiara violazione dello statuto che regolava la sua azione». Sicché, che cosa è successo? Che il Partito socialista, volendosi impa-dronire di una testata, non di quotidiano ma di periodico, Tempo illustrato, tanto per non fare altri nomi, è arrivato ad un contratto con la SIPRA; il tutto, per sostenere un periodico che nessuno leggeva perché mal fatto, perché crollato, non perché socialista. A questo punto, nei proventi pubblicitari della stampa periodica risulta un incremento, trattandosi di quattrini che sono pur entrati nelle casse della stampa periodica, ma che vi sono entrati in tal guisa. Li sottragga, dunque, onorevole ministro! Sottragga questi e molti altri denari; si faccia informare, dunque, sulla vera situazione delle testate dei quotidiani e, soprattutto, di taluni periodici ad altissima tiratura. Andate a leggere nei bilanci potete farlo e vedrete quel che la SIPRA fa, traffica, procura, vende, mercanteggia; vi addentrerete in una specie di letamaio da cui risulta come attraverso tale grossa, colossale direi, operazione, si tenti di imbavagliare quel che rimane di libero nella stampa italiana, quotidiana e periodica. Glielo dico, onorevole ministro, come giornalista. Non fate passare questa occasione senza informare il Parlamento sulla situazione degli accordi RAI- SIPRA, sulla situazione di gestione di quest’ultima, sulla situazione relativa alla presidenza ed alla direzione della società, sulle presenze socialiste (non so se anche di altri partiti) al vertice della stessa: perché questo è, o si avvia ad essere, in una nazione così ricca di scandali, forse il più grosso tra quelli nazionali.

A questo punto, onorevoli colleghi, desidero tornare a noi per concludere. Desidero, cioè, dire con franchezza qual è la nostra posizione, che non si esaurisce in un «no» e neppure in termini dell’ostruzionismo parlamentare, ma continua per una battaglia che dal Parlamento porteremo nel paese, con tutti i mezzi a nostra disposizione e con decisione estrema. Vi dico questo coonestando la nostra posizione con testimonianze indubitabili. La RAI-TV, nell’ormai lunga esperienza di esercizio monopolistico, ha determinato non malcontento ma disgusto, signor ministro. Le cito una testimonianza, molto lontana, oserei dire quasi la più lontana, in termini politici, dalla nostra: Panorama del 20 dicembre 1973, a firma Giorgio Galli. Titolo: «Umiliati dalla RAI-TV». Ed è una denominazione che credo di poter accettare, moralmente. Come cittadini, siamo tutti quanti al di là e al di sopra delle parti. Forse, quel che ci unisce in Italia, oggi, è il senso di prostrazione e di umiliazione che la TV porta nelle case di tutti quanti noi. «Umiliati dalla RAI-TV». Dice Giorgio Galli in questo articolo: «Mentre scrivo, ascolto i comunicati delle varie agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radiotelevisivi leggono come se fossero notizie». Ripeto: i comunicati delle agenzie delle correnti di partito che gli annunciatori radio-televisivi leggono come se fossero notizie. «Abbiamo perfino perso il senso della notizia, lo dico da giornalista, il gusto della notizia. Ascoltare la TV significa perdere la certezza della notizia e quindi del fatto, significa non avere riferimenti. In questo modo squallido e anonimo di imbrogliare i cittadini italiani che la pagano, infonde una tale indignazione che occorre poi recuperare la propria lucidità di osservatore per ricordare che la RAI-TV occupa anche eccellenti operatori culturali che mettono a punto programmi che possono venire collocati anche all’estero per il loro notevole livello». E aggiunge: «Non c’è banale espressione di qualsiasi autorità costituita che non venga presentata e letta come se fosse un testo di Emanuele Kant. Quanti telegrammi (non alludo), quanti telegrammi alla televisione! Non c’è inutile cerimonia che non venga annunciata come momento cruciale della storia italiana. Figuratevi il 1975 che cosa sarà a questo riguardo. Il conformismo si appaia all’ignoranza. Mi è capitato di sentir dire più volte in un giorno, in occasione del trattato ceco-tedesco, che l’accordo di Monaco cedeva la Boemia alla Germania. Chi inganna così i suoi concittadini non potrà mai governarli bene. I fatti e l’economia non possono essere trattati con il disprezzo con il quale la RAI-TV tratta gli italiani». Potrebbe essere la dichiarazione di voto di un deputato del MSI-Destra nazionale; è una dichiarazione di disprezzo e di disistima nei confronti della gestione RAI-TV e quindi nei vostri confronti, da ora in poi, da parte di un politologo di sinistra come Giorgio Galli.

Ma io devo ricordare che nei dibattiti precedenti, in questi lunghi anni, osservazioni accurate vennero rivolte ai vari governi e alle varie maggioranze dei deputati facenti parte della maggioranza. Cito a caso. Ricordo che nella seduta del 27 maggio 1969 un democristiano autorevole, l’onorevole De Maria, ebbe a parlare esplicitamente di un sovversivismo culturale alla TV e a deplorarlo. Ricordo che il socialdemocratico onorevole Reggiani, nella seduta del 6 maggio 1971, riferendosi ad una ignobile trasmissione televisiva pro- Gheddafi e contro i nostri profughi della Libia, ebbe a deplorare il comportamento della televisione. Ricordo che l’allora ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni, onorevole Mazza, il 28 maggio 1969, fu da noi costretto a deplorare la partecipazione di un giornalista comunista ad una trasmissione dedicata alla gloriosa Marina militare italiana e all’episodio di Alfa Tau. Ricordo che in molte occasioni questo tipo di cocenti deplorazioni ha avuto luogo; e quindi, quando passo a parlarvi e lealmente della nostra posizione, credo di essere autorizzato a farlo da milioni di cittadini italiani, da tutta una pubblica opinione, che può essere di destra, di centro o di sinistra, ma che non ne può più, perché non ritiene di poter essere rappresentata a questo modo. E allora veniamo a noi, parlando con chiarezza e anche perché sappiate qual è non il sottofondo, ma il fondo autentico di sentimento, sì, di sentimento e di passione e, se ci si consente, di chiara volontà politica da parte nostra quando affrontiamo questo problema. Ho letto ed abbiamo letto tutti sulla Stampa di Torino (del fatto hanno parlato anche tutti gli altri giornali, ma io cito La Stampa di Torino perché l’estrazione politica di questo quotidiano, i suoi connotati ed il suo atteggiamento viscerale contro di noi non permettono dubbi di una qualsiasi colleganza nei nostri confronti), ho letto, dicevo, l’altro giorno, il resoconto del discorso che il procuratore generale di Bologna ha pronunciato, riferendosi all’atteggiamento del ministro Taviani per la strage dell’Italicus. Egli ha detto testualmente (sono brevi frasi, ma, per i motivi che dirò, ve le devo citare): «L’ordine giudiziario non contesta al ministro per gli Affari interni la facoltà di pensare che quanto riferito dagli organi di polizia da lui dipendenti debba essere tenuto nel debito conto dai magistrati inquirenti, ma contesta decisamente il potere di indicare in Parlamento ritardi da lui arbitrariamente desunti in relazione a indagini in corso». Il procuratore si riferisce all’ I talicus. Aggiunge ancora: «È probabile che la divisione dei poteri dello Stato non sempre sia considerata immanente quando la politica interseca la strada della giustizia, ma è certo che apprezzamenti critici di organi costituzionali dello Stato non contribuiscono ad assicurare la serenità del nostro lavoro nel delicatissimo momento delle indagini preliminari. Le critiche del potere politico, specie se relative a fatti di gravità eccezionale, finiscono con l’alimentare nell’opinione pubblica non sporadiche credenze di uno scollamento del potere statuale. Sul tappeto della politica un ministro può puntare sul rosso e sul nero secondo le sue personali convinzioni, mentre sul banco della giustizia si punta soltanto sul colore della verità, che può essere messo in luce se l’animo è sgombro da preconcetti di ogni genere, specie in tempi nei quali troppi scritti anonimi circolano con accuse o millanterie autoaccusatorie».

Dopo la strage dell’ Italicus, il signor ministro dell’Interno, nell’esercizio dei suoi poteri, viene alla Camera ed offre una determinata versione, la offre senza avere avuto la possibilità di accertamenti preliminari, la offre nel quadro di un suo pregiudizio ostinato, che egli, d’altra parte, ha pagato venendo cacciato via dalla carica di ministro dell’Interno. Successivamente la televisione si impadronisce del fatto, e se ne impadronisce non per informare gli italiani sul corso delle indagini, ma per portare innanzi la tesi che il ministro ha difeso in Parlamento; e la sera delle esequie alle dodici vittime la televisione mette se stessa a disposizione per trasmettere dalla piazza di Bologna un comizio del sindaco comunista di quella città. Per questa occasione, parlando con estrema serenità, non ho nulla da dire nei confronti del sindaco comunista di Bolo-gna, il quale, facendo il sindaco, e il sindaco comunista, riteneva di servire in quel modo gli interessi del suo partito.

Alla manifestazione di Bologna erano però presenti le massime autorità dello Stato, e a questo punto ho qualche cosa da dire nei confronti del sindaco di Bologna come ufficiale di Governo, e ho molto da dire nei confronti delle autorità presenti; ma ho soprattutto moltissimo da dire nei confronti della televisione, la quale, quella sera, ha portato nelle case di tutti gli italiani non solo una versione di parte, non solo un comizio di parte, ma un linciaggio di parte, un linciaggio morale, politico e materiale di parte nei confronti di una parte politica che è quella che io mi onoro responsabilmente di dirigere. La televisione, quella sera e nei giorni successivi, ha montato l’opinione pubblica in termini di guerra civile, ha indicato dei colpevoli che sono risultati non esserlo, ha indicato dei mandanti che ancor meno possono risultare tali, ha occultato le vere indagini che si movevano o potevano muoversi in altre direzioni, si è resa complice nei confronti del ministro dell’Interno, del Presidente del Consiglio, dell’intero Governo, dell’intero cosiddetto «arco democratico» nel più sconcio e squallido tentativo di determinare in Italia… Onorevole Bubbico, stia per favore attento. Moralmente ho il diritto di chiederglielo, e di invitarla a non distrarre il ministro, perché è al Governo che io sto parlando. “

BUBBICO: “Ella non è il Presidente di questa Assemblea. “

PRESIDENTE: “Onorevole Bubbico, la prego di non disturbare il ministro, che ha il diritto-dovere di ascoltare. “

BUBBICO: “Accolgo il suo invito, signor Presidente. “

ALMIRANTE: “Dicevo che si è compiuto allora l’ignobile tentativo di determinare nel nostro paese un clima di guerra civile: un tentativo, signor ministro, che non è stato senza effetto, perché nei successivi dieci giorni posso documentarlo sono saltate per aria, per delle «bottiglie Molotov», 40 sedi del partito che ho l’onore di dirigere. Per fortuna non ci sono state vittime, perché si è trattato di attentati notturni, ma 40 sedi sono state devastate con quella giustificazione. Me la devo io prendere con i 40 gruppi di ignobili attentatori notturni? In un certo senso, sì, ma non oltre quel senso, perché sarei iniquo nei confronti financo dei teppisti; io me la devo prendere con chi ha armato le loro mani! Ho citato il caso limite, il più grave e l’ ho voluto citare perché ho avuto la testimonianza del procuratore generale di Bologna; ma ella sa, ed i pochi colleghi presenti sanno, che si tratta di una costante, che si tratta di un linciaggio al quale siamo esposti ogni giorno, che si tratta di un linciaggio che si verifica giornale radio per giornale radio, giornale televisivo per giornale televisivo, che si tratta di un linciaggio che in questi giorni sta tentando di determinare a Roma attenzione! un clima di guerra civile. Ho già detto all’inizio di fare attenzione: Roma è la città dei fratelli Mattei, che nessuno ha visto in televisione (e siamo moralmente lieti, perché i loro volti arsi erano una cosa pulita, la più pulita che io abbia visto da molti anni a questa parte, che non siano apparsi alla televisione). Tra un mese si celebra il processo contro gli assassini; e gli assassini sono stati scoperti perché è stata scoperta la figliola di un direttore di giornale. E quel giornale, il giornale della droga, è il giornale che ancora stamane monta lo scandalo, riferendosi alle recenti trasmissioni televisive contro la violenza fascista a Roma: attenzione! Non si proceda lungo questa strada; e se si procede lungo questa strada ci si renda conto che un partito politico che gode di tutti i diritti e adempie tutti i doveri non può consentire che si continui così. Ho parlato di civile disobbe-dienza: la porteremo avanti. Ho parlato di associazioni degli utenti, che promuoveremo per la difesa della libertà di informazione; ho accennato ad ambienti di stampa e di opinione che non possono non condividere le nostre tesi, non dico i nostri interessi, e quindi il nostro impegno di battaglia. Ho accennato a tre milioni di elettori, che sono almeno cinque milioni di cittadini, che la pensano così, perché avete l’inumanità di colpirli ogni giorno, di provocarli ogni giorno, di ferirli ogni giorno nei loro sentimenti, nei loro convincimenti, giusti o sbagliati che siano. Ma molto più ampiamente devo accennare, onorevole ministro, ad uno stato di insoddisfazione, di agitazione e di ribellione morale, di rivolta ideale che non può non pervadere tutti gli italiani degni di questo nome, se su questa strada si pensa di continuare. E non pensiate che noi siamo come i comunisti, disponibili per le lottizzazioni, e quindi disponibili per tacere e per non combattere sulla riforma ed a qualsiasi costo. Qui si tratta di intraprendere e di riprendere la strada segnata, non da noi, ma dalla Corte costituzionale per la libertà di informazione e di formazione della pubblica opinione, e di trovare un numero sempre maggiore di italiani, nel Parlamento e nel paese, decisamente ostili, capaci di combattere. Non voglio sembrare irriverente nei confronti di valori nei quali crediamo e nei quali abbiamo dimostrato di credere; ma penso che un Cavour 1975 potrebbe anche dire, senza bestemmia: «libera antenna in libero Stato».

Badate, i problemi della riforma sono diventati coincidenti, in uno Stato moderno, con i problemi della coscienza e della libertà di coscienza. Non è possibile combattere per la libertà di coscienza senza concedere alla coscienza la capacità di abbeverarsi alle fonti del sapere e della informazione. Voi ci concedete in questo momento ne siamo onorati, anche perché ce lo siamo duramente guadagnato il gonfalone della libertà di antenna in un libero Stato: porteremo avanti questa consegna.”

Seduta dell’8 novembre 1971

Nel dibattito sul disegno di legge governativo che prevede provvedimenti per il personale docente delle Università, Giorgio Almirante presenta una relazione di minoranza. La proposta prevede l’assunzione da parte delle Università di quel personale che, comunque assunto, presta servizio in qualità di assistente, borsista o ricercatore. Attraverso la critica diretta alla proposta, il discorso si allarga alla validità dei titoli di studio e a tutta la situazione universitaria. Il disegno di legge non fu mai approvato, per l’impegno posto dal relatore di minoranza Almirante

Una lezione di civiltà

ALMIRANTE: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, onorevole ministro, quasi tutti coloro che sono intervenuti prima di me nel corso di questo dibattito hanno lamentato, dinanzi all’aula semideserta o deserta, lo scarso interessamento dei giornali, il disinteresse si dice oggi la «disaffezione» di tanta parte della pubblica opinione. Io non imiterò i miei colleghi. Intendo rilevare, al contrario, che mi sento onorato di prendere parte alla conclusione di questo dibattito che si è svolto in maniera civile e che ha dato luogo ad un interessante confronto di opinioni. Credo di poter dire le assicuro, signor ministro, e lo dimostrerò, che sono stato diligente lettore di tutti i discorsi pronunciati in quest’aula nelle passate sedute che è stato uno tra i più seri, uno tra i più approfonditi, e in qualche guisa anche uno tra i più responsabili e quindi significativi dibattiti che si siano svolti in Parlamento. È l’importanza del tema, senza dubbio, che ha indotto tutte le parti politiche ad assumere le loro responsabilità.

E poiché ho detto, signor ministro, che si è trattato di un dibattito svoltosi in termini civili, spero che ella non si dolga se io profitterò di questa occasione per dire una parola, una sola, intorno ad un argomento che riguarda la civiltà e la scuola, anche se non concerne la riforma universitaria. Credo, signor ministro, che sia stato lei personalmente l’ispiratore di una piuttosto dura nota, di quelle che si chiamano ufficiose, emessa dal suo dicastero nei giorni scorsi, in risposta ad una lettera dei presidi della quale io confesso, a mia volta, di essere stato l’ispiratore. Ebbene, signor ministro, in termini di civiltà io desidero informarla, qualora ella non lo sappia, di ciò che sta accadendo in questi giorni in tutti o quasi tutti gli istituti medi della capitale. È uno spettacolo indecoroso, è uno spettacolo preoccupante. Quanto all’indecoroso, ho il dovere di avvertirla che ci stiamo documentando fotograficamente per quanto riguarda le sue responsabilità politiche e soprattutto le responsabilità politiche, e forse anche personali, del suo collega il ministro dell’Interno; per quanto riguarda le preoccupazioni che derivano a noi, e crediamo a tutte le parti politiche e, vogliamo pensare, a tutti i padri di famiglia, io l’avverto, signor ministro, che non siamo disposti a tollerare, senza reagire, ciò che sta accadendo.

Si indicono nelle scuole medie di Roma, in questo momento, le cosiddette «assemblee aperte»: aperte non soltanto agli studenti, tanto meno ai genitori degli studenti, aperte ai teppisti. Gli studenti di tutte le parti politiche vengono attirati in quelle libere assemblee, ne escono pesti e sanguinanti. Non può durare così.

Pertanto, signor ministro, se lei è l’ispiratore e lo credo della precedente nota in risposta alla precedente lettera di cui mi onoro di essere stato l’ispiratore, rilegga quella sua nota, riveda le sue posizioni di coscienza, assuma le sue responsabilità insieme con il suo collega ministro dell’Interno prima che accada di peggio. Dopo di che vengo all’argomento, il dibattito sulla riforma universitaria, per rilevare, credo con obiettività, che l’esito della discussione generale fin qui svoltasi non è molto consolante per il Governo e per la maggioranza. Lo hanno notato altri colleghi nel corso del dibattito, non è vero, onorevole Nicosia? Io posso rilevarlo statisticamente a conclusione del dibattito. La maggioranza è intervenuta quasi silenziosamente mi occuperò poi di questa quasi silenziosa parte della maggioranza attraverso interventi stringati e non eccessivamente significativi del Partito socialista, del Partito socialdemocratico e del Partito repubblicano; per l’esattezza, un intervento del Partito repubblicano, un intervento del Partito socialista, due interventi del Partito socialdemocratico. Massiccio il peso e ci congratuliamo con i colleghi numerico, e non soltanto numerico, quantitativo e qualitativo degli interventi del gruppo della Democrazia cristiana. Quanto però agli orientamenti, su quindici interventi del gruppo della Democrazia cristiana, ivi compreso quello del relatore onorevole Elkan, io ho annotato cinque interventi, a essere benevoli, perplessi; sei interventi favorevoli con qualche riserva, a cominciare dalle riserve onestamente espresse dal relatore. Sicché, signor ministro, se dalla qualità, dal contenuto, dall’orientamento, dalle conclusioni degli interventi della maggioranza in quest’aula si dovesse dedurre, come sarebbe logico e onesto dedurre, un orientamento della maggioranza nel suo complesso, si dovrebbe ritenere che questa legge non sia destinata a passare.

Accadrà probabilmente, o quasi certamente, il contrario, ma non può essere senza peso politico la considerazione che io mi sono permesso di fare e che mi sembra del tutto obiettiva, né credo si possa dire, come è stato detto da qualcuno, che questa legge sta nascendo in Parlamento. Perché allora avrebbe un peso davvero determinante la considerazione dello scarso numero dei colleghi presenti nel corso di tutta la discussione generale e credo nei prossimi giorni anche nella discussione degli emendamenti. Sappiamo che i colleghi entreranno in aula al momento della votazione (e speriamo che i congegni elettronici funzionino e non si inceppino come è accaduto nel Belgio in questi giorni), ma se si presume che un disegno di legge di questa portata, di questa responsabilità, addirittura storico, come è stato detto da qualcuno, come direi anch’io, possa nascere dall’Assemblea, allora i banchi dovrebbero riempirsi; allora la maggioranza quasi silenziosa o assente o latitante deve assumersi norma per norma, articolo per articolo le sue responsabilità. Sta di fatto, invece, che coloro che ritengono di dover esprimere qualche cosa la esprimono in maggioranza in dissenso dal Governo e dal ministro, e gli altri preferiscono assentarsi per intervenire soltanto come votanti: modo poco decoroso per intervenire in un dibattito di questo genere. Il mio compito, comunque, signor ministro, è oggi quello del relatore di minoranza e di opposizione. Esso consiste nell’esaminare criticamente le posizioni altrui, e mi perdoneranno i colleghi ai quali mi riferirò se le mie osservazioni critiche potranno apparire, saranno anche polemiche, ma lo saranno nel pieno rispetto, per i motivi che ho detto poco fa, delle tesi da tutte le parti sostenute. Mi permetterò di ribadire anche le nostre posizioni e in ciò il mio compito è stato enormemente alleggerito dagli interventi dei colleghi del mio gruppo, che io sento il dovere di nominare e di ringraziare: con alla testa il correlatore onorevole Nicosia, sono intervenuti per noi gli onorevoli Menicacci, Turchi, De Lorenzo, Sponziello, Niccolai, Caradonna, Manco, d’Aquino. Credo che interverrà il presidente del nostro gruppo, quanto meno in sede di dichiarazione di voto. È quindi legittimo da parte del gruppo del MSI permettersi di fare le osservazioni che or ora ho fatto circa lo scarso impegno di altri gruppi, poiché noi abbiamo fatto il possibile, abbiamo cercato di chiarire le nostre posizioni anche con una relazione scritta, che se non mi lusingo sia stata letta dai colleghi, spero sia all’attenzione dell’onorevole ministro per quel poco che egli ne vorrà dedurre di positivo. Mi riferisco in primo luogo, in senso critico, agli atteggiamenti assunti dalla maggioranza democristiana. Noi abbiamo la fortuna, onorevole Elkan, di avere come relatore per la maggioranza una persona come lei, cioè un relatore garbato, discreto, tanto discreto da avere mascherato sotto una vernice non dico di indifferenza ma di cortesia, quella che si sente essere una sua sostanziale (mi perdoni, è la mia interpretazione, evidentemente)… “

ELKAN: “Cercherò di chiarire dopo il mio pensiero. “

ALMIRANTE: “…allergia a questo disegno di legge. E se io dico che sotto la vernice delle sue espressioni cortesi si sente una sostanziale sua allergia o contrarietà, Io dico perché lo afferma lei nella sua relazione. Infatti ella dice testualmente:..risultano trasparenti i limiti e le zone di ombra».

Trasparenti, dunque. Risultano tanto trasparenti che ella non si è indugiato nella sua relazione per rendere visibile del tutto, limpido, quel che è trasparente. Ella ha creduto (ha perfettamente ragione) che non valesse neppure la pena di individuare le «zone di ombra», poiché ciò l’avrebbe costretto a individuare le zone di luce, e ciò sarebbe stato veramente difficile. Noi comunque la ringraziamo per la cortesia con la quale, essendo relatore per la maggioranza, ha voluto venire incontro alle tesi della minoranza, ha voluto convalidare le tesi, le perplessità, le contrarietà della minoranza. La ringrazio anche per avere detto che la seconda parte della legge (l’onorevole ministro sa che la seconda parte della legge è piuttosto «corpulenta») «assume troppe volte aspetti normativi e regolamentari». Sicché, secondo il relatore della maggioranza, o meglio (voglio essere più corretto) secondo la mia interpretazione della relazione di maggioranza (una interpreta-zione peraltro che è ancor più trasparente di quello che traspare attraverso le trasparenze oscure della legge), attraverso quanto si evince dalla relazione di maggioranza si deduce che questo disegno di legge si compone di due parti: la prima, è ricca di zone d’ombra, la seconda, è normativa e regolamentare. Non mi pare che il giudizio, nel complesso, sia tale da lusingare eccessivamente l’onorevole ministro. E, ripeto, sono obiettivamente lieto, come oppositore nei confronti di questa legge, che un giudizio tanto sereno sia stato espresso dal relatore per la maggioranza.

Nel merito, onorevole Elkan, voglio riferirmi ad uno solo tra i problemi che ella ha ritenuto di sollevare, perché riferendomi a tale problema avrò modo di esaminare una delle questioni più gravi che emergono dal contesto della legge, la questione della quale si sono occupati soprattutto i colleghi del gruppo liberale, quella cioè della validità legale del titolo di studio. Nella sua relazione, onorevole Elkan, a questo riguardo si legge: è probabile che fra qualche anno si riproponga il problema (quello dell’abolizione del valore legale del titolo di studio o del «numero chiuso», secondo una alternativa che soprattutto in Senato dal senatore Bettiol, se non sbaglio, ma anche alla Camera dell’onorevole Gui, è stata posta in maniera molto decisa) «nell’interesse dei giovani». Questa poteva anche essere considerata una battuta, una interpolazione, o comunque poteva essere considerata una sua posizione personale di coscienza. Senonché, leggendo con attenzione gli interventi degli altri colleghi della Democrazia cristiana, soprattutto dell’onorevole Spitella ma anche degli onorevoli Rognoni e Berté, come avrò modo più avanti di documentare attraverso citazioni dirette dei loro interventi, ci si accorge che questa è una posizione del gruppo della Democrazia cristiana.

Appunto per questo desidero soffermarmi su queste argomentazioni, in primo luogo per cercare di comprendere la portata delle posizioni e delle motivazioni del gruppo della Democrazia cristiana, in secondo luogo per denunziare, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana da un lato e del Partito socialista italiano dall’altro, l’esistenza, al centro di questa importantissima legge, di quella che qualcuno di voi (non io) ha definito una «truffa»: questo termine è stato usato in polemica con il gruppo della Democrazia cristiana dal gruppo del Partito socialista italiano ed è stato ritorto nei confronti del gruppo socialista da quello della Democrazia cristiana, nel corso di uno scambio di battute, sia pure cortese, svoltosi in quest’aula nei giorni scorsi. Perché si è parlato di truffa? Lo sanno tutti, ma è bene ribadirlo in questa sede e in questo momento. All’interno della maggioranza di Governo tra democristiani da un lato e socialisti dall’altro (ai socialisti non è mancato in questa occasione il sia pure tiepido appoggio dei socialdemocratici, ma comunque il contrasto si è determinato soprattutto da democristiani e socialisti) si sono determinate nette divergenze di vedute su questo punto, essendo il gruppo democristiano, per motivi che mi sforzerò di illustrare, favorevole all’immediata abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari, ed essendo il gruppo socialista contrario a tale abolizione. Non mi scandalizzo, signor ministro e onorevoli colleghi, per il fatto che all’interno della maggioranza, su un disegno di legge di questa importanza, abbiano potuto scoppiare contrasti fra Democrazia cristiana e Partito socialista: semmai mi sarei non dico scandalizzato ma stupito del contrario. Poiché tuttavia si tratta di un contrasto che riguarda uno dei punti fondamentali della legge, e considerato che tale divergenza di vedute è emersa negli interventi di alcuni oratori della Democrazia cristiana, appare opportuno occuparsi della questione, per vedere se per avventura il contrasto sia stato davvero superato o se viceversa sia destinato a riemergere.

Ecco dunque, onorevole Elkan, le ragioni per le quali ho voluto analizzare un’affermazione così grave come quella che ella ha fatto nella sua relazione di maggioranza, allorché ha scritto essere probabile che tra qualche anno si riproponga, nell’interesse dei giovani, il problema del valore legale dei titoli. Espliciti riferimenti a tale questione ho trovato nel discorso pronunziato in quest’ aula dal democristiano onorevole Spitella, che risulta essere il capo dell’ufficio scuola del suo partito: appunto per tale sua qualifica l’oratore del Partito socialista intervenuto nella discussione ha attribuito la posizione assunta dall’onorevole Spitella al partito della Democrazia cristiana e non soltanto al gruppo parlamentare democristiano della Camera. Ebbene, su tale argomento l’onorevole Spitella nella seduta del 25 ottobre (cito dal resoconto stenografico immediato) così si è espresso: «La Democrazia cristiana avrebbe voluto, come è noto, arrivare subito all’abolizione del valore legale dei titoli di laurea, ma essa non misconosce la presenza di complesse difficoltà che tale decisione comporterebbe, tiene in considerazione le ragioni addotte dagli altri partiti della coalizione e da vari settori della vita civile contro una decisione immediata di tale genere e considera altresì l’esigenza, in questo come in altri aspetti della legge, di conseguire qualche risultato immediato». Ancora più chiare le dichiarazioni che sono state fatte allo stesso riguardo dai colleghi Rognoni e Berté, sempre del gruppo della Democrazia cristiana.

Nella seduta del 29 ottobre scorso (cito ancora dalla stessa fonte), l’onorevole Rognoni ha fra l’altro dichiarato: «A questo punto, devo dire che non mi entusiasma troppo il quesito che si poneva l’onorevole Natta quando si domandava, chiosando l’intervento dell’onorevole Gui, a quale sbocco concreto potrà condurre l’orientamento da più parti testimoniato verso l’abolizione del valore legale del titolo. È un quesito inattuale, perché, per una serie di ragioni cui si è richiamato, tra l’altro, l’onorevole Spitella, se togliere il valore legale del titolo di studio è scelta che si innesta certamente nella linea di tendenza autonomistica dell’università, è anche vero che è difficile, oggi, non ricondurre questa scelta a una precisa posizione ideologica, mentre credo che in un contesto sociale diverso essa si porrà più modestamente, ma con maggiore efficacia, come un’operazione di semplice pulizia: si tratterà, cioè, di fare ordine nella legislazione universitaria cancellando un istituto divenuto insignificante; e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria».

Fermiamoci qui. Che cosa si intende dire attraverso questo molto importante e, a mio parere, grave e dequalificante intervento dell’onorevole Rognoni? Si intende dire: manteniamo per ora in piedi il valore legale del titolo di studio universitario, perché altrimenti i socialisti ci combinano sopra una di quelle loro rituali minacce di crisi di governo oppure ci chiedono qualche altra cosa che ai socialisti in questo momento non intendiamo dare; però, non deduciamo dal mantenimento del valore legale del titolo di studio le conseguenze che si dovrebbero onestamente dedurre, cioè non tentiamo neppure, o comunque non contribuiamo a far sì che il titolo di studio universitario, mantenuto in vigore, venga qualificato o riqualificato; facciamo in modo che il titolo di studio rimanga in vigore e continui ad essere dequalificato e dequalificante, e in questa guida, fra qualche anno (ecco il senso preciso delle gravi parole dell’onorevole Rognoni), quando non più soltanto all’estero, ma anche in Italia sarà chiaro che le lauree conseguite nel 1971 o nel 1972 o per avventura nel 1975 o nel 1980 saranno davvero dei semplici «pezzi di carta» e non qualificheranno i giovani per entrare nella vita, nelle professioni, per rappresentare dignitosamente una nuova classe dirigente; quando questo sarà avvenuto, allora il titolo di studio si abolirà da sé; lasciamo che il titolo di studio si abolisca da sé, quindi truffiamo intere generazioni, immettiamole in una università sempre più dequalificata e dequalificante, accettiamo e facciamo nostra la logica del «peggio», e in questa guisa ad un certo punto arriverà qualcuno che con una «leggina», con un emendamento, farà pulizia. Questo dice l’onorevole Rognoni. Ma, se si vuol fare pulizia, se si ritiene di dover fare pulizia, perché non farla subito? Se il problema è tanto importante, secondo il gruppo della Democrazia cristiana, secondo il partito della Democrazia cristiana, si tratta addirittura di un problema di pulizia… “

ROGNONI: “È una pulizia non ancora attuale. “

ALMIRANTE: “Proprio per questo voglio parlare. Voglio chiedere a me stesso siccome questo è un colloquio ad armi cortesi e spero di poter avere dei chiarimenti per la mia coscienza perché non sia attuale. Intanto, avvalendomi delle vostre stesse dichiarazioni, sto documentando che si tratta, secondo voi, di un problema di pulizia, vale a dire che il titolo di studio, così come oggi viene rilasciato dall’università e così come in un prossimo avvenire continuerà ad essere rilasciato è un titolo di studio dequalificante per l’università e non qualificante per i giovani. Senza dubbio voi state sostenendo proprio questo. State sostenendo altresì che per motivi di compromesso politico non conviene in questo momento o non vi è possibile affrontare l’argomento decidendo in maniera diversa; voi rinviate la decisione, ma non la rinviate ad una ferma, anche se futura, presa di posizione, ad una vostra volontà politica, ad un vostro disegno, ad un vostro orientamento: no, rinviate la soluzione del problema a quando il problema sarà diventato di per sé così grave e il mantenimento dell’attuale ordine-disordine sarà diventato di per sé talmente intollerabile che qualcuno dovrà pur fare pulizia. Ciò significa che tutto quel che sta di mezzo secondo voi e non secondo noi tra l’entrata in vigore di una riforma universitaria siffatta ed il momento in cui si farà pulizia, è sporcizia; ciò significa che, per ragioni di compromesso politico, voi votate la sporcizia a carico di intere generazioni di giovani; ciò significa che voi dannate intere generazioni di giovani, secondo la vostra tesi, a diventare degli spostati professionali e sociali, e quindi morali. Questo emerge, ed emerge in guisa talmente grave che l’onorevole Rognoni, che non mi risulta sia stato smentito da alcun collega della Democrazia cristiana, ne trae una specie di filosofia e dice, come ho già letto: «…e ciò conformemente ad una concezione pragmatistica ed empirica, cui si riconduce, per più di un aspetto, la stessa concezione dell’autonomia universitaria». È veramente sorprendente questo gruppo della Democrazia cristiana, questo partito della Democrazia cristiana, che quando si affronta in quest’aula, in Parlamento, uno dei temi classici, quello della scuola intorno al quale esso, l’erede del vecchio partito popolare, aveva veramente qualche cosa da dire (lo affermo al di là di ogni polemica) con la pienezza di autorità e la capacità di magistero che hanno contraddistinto memorabili interventi di alcuni dei suoi uomini più prestigiosi, anche in questo dibattito lo presenta oggi come un tema da affidare al pragmatismo e all’empirismo! Sicché, empiricamente, pragmatisticamente, si approva oggi una riforma che si riconosce manchevole in uno dei suoi aspetti di fondo e la si approva pur riconoscendo che è manchevole o addirittura sporca o truffaldina uso le vostre parole per fare onore ad un compromesso con il Partito socialista italiano. Cioè, secondo questo pragmatistico ed empirico partito della Democrazia cristiana, prima di tutto va salvaguardato l’accordo con il Partito socialista italiano e poi il destino… “

ROGNONI: “Questo non è più un garbato colloquio fra parlamentari. Ella distorce completamente il mio giudizio e la mia opinione. “

ALMIRANTE: “Se le sono sembrato sgarbato le chiedo scusa, ma le sue parole sono state quelle che ho ripetuto. “

ROGNONI: “Ella trascura il contesto generale del mio discorso. “

ALMIRANTE: “No, onorevole Rognoni, ho letto tutto il suo discorso e non ho ancora finito, perché debbo cercare anche di chiarire quali sono, secondo me, le vostre intenzioni. Debbo cercare di capirle, anche perché su questo punto, cioè sul mantenimento del valore legale del titolo di studio, il mio atteggiamento, l’atteggiamento responsabile del mio partito, per motivi che intendo chiarire, è identico, guarda caso, all’atteggiamento che emerge dalla legge. Io non sono per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, ma almeno ho il coraggio di dichiararlo, me ne assumo la responsabilità, spiego i motivi per i quali io, il mio gruppo, il mio partito, che ho l’onore di rappresentare, siamo contrari all’abolizione del valore legale del titolo di studio; mi sono dato carico c’è qualche collega liberale che lo sa personalmente; non è vero, onorevole Giorno? di avere anche una conversazione privata con qualche deputato del gruppo liberale per cercare di capire fino in fondo l’atteggiamento liberale, che è rispettabilissimo e che è stato sostenuto con dovizia di interventi; ma non mi arrischierei mai di dire: noi siamo favorevoli al mantenimento del valore legale del titolo di studio universitario in questo momento, pur essendo in coscienza contrari. Io sono in coscienza favorevole e cerco di spiegarne i motivi, ma apprezzo coloro che in coscienza sono contrari e lo hanno chiarito e presentano i loro emendamenti al riguardo, mentre non riesco ad apprezzare coloro che sono contrari, che lo dichiarano, che lo fanno intravedere nella relazione per la maggioranza, che lo ripetono nei loro interventi, che ammettono che si tratta di un compromesso non pulito quanto al destino dei giovani, ma che poi vengono a parlare di entusiasmo e di pragmatismo. Empirismo sulla pelle di chi? Tentativi, esperimenti, sulla pelle di chi? Sulla pelle dei giovani, sulla pelle delle generazioni che si accingono a frequentare questa università cosiddetta riformata. Analizziamo allora ancora meglio questo singolare atteggiamento della Democrazia cristiana. Se la Democrazia cristiana dichiara: noi siamo contrari al mantenimento del valore legale dei titoli di studio, non soltanto perché i titoli di studio oggi sono dequalificati in una università che non funziona a questo fine, ma anche perché la nostra concezione dell’università autonoma, dell’università libera, di una università che non sia soggetta allo Stato neppure quanto agli indirizzi di carattere generale (riprenderemo in seguito questo argomento), neppure come orientamento, neppure come controllo, ci porta ad una università che non conceda titoli di studio validi secondo la legge dello Stato; se la Democrazia cristiana dice questo, se essa si orienta e cerca di orientarci lungo una sua rispettabilissima tradizione e direttiva, alla quale noi siamo contrari ma che riteniamo faccia parte della più nobile tradizione italiana, se è vero, com’è vero, che siamo qui chiamati ciascuno a rispecchiare una componente di quella che è, nel suo complesso, la tradizione culturale italiana, allora potrei essere d’accordo.

Ma quando la Democrazia cristiana ci viene a dire, primo, di essere nel suo intimo contraria al valore legale dei titoli di studio; secondo, di aver accettato un compromesso per motivi politici con il Partito socialista a questo riguardo; terzo, di tenere in serbo però il proprio punto di vista, e di sperare di farlo prevalere tra qualche anno nell’interesse dei giovani (e quindi questa legge, così com’è ora, è contro l’interesse dei giovani, onorevole Elkan!); quando la Democrazia cristiana arriva a dire ripeto e insisto che, nell’interesse dei giovani, tra qualche anno si farà pulizia, e quando, per giustificare tutto ciò, la Democrazia cristiana parla di un atteggiamento empirico, allora la mia indignazione non si ferma qui, perché diventerà l’indignazione di generazioni intere di ragazzi e di docenti ai quali si prospettano tesi di questo genere; la mia indignazione è pienamente fondata, anche se viene espressa lo ripeto ed insisto in termini che, nelle mie intenzioni per lo meno, sono impersonali, garbati, cortesi e corretti. A questo punto mi corre l’obbligo di chiarire il nostro atteggiamento a proposito di questo fondamentale problema; e poiché ho dato atto ai colleghi di parte liberale della correttezza del loro atteggiamento, devo precisare che il loro atteggiamento è corretto, che è pienamente giustificato dalle condizioni nelle quali la scuola italiana, e l’università in particolare, vivono in questo momento, ma che pur non arrischiandomi assolutamente a voler interpretare una tradizione della quale i liberali sono i gelosi custodi e gli interpreti mi stupisco un poco, ecco, mi stupisco un poco, se guardo ai lineamenti di fondo del loro atteggiamento e di quello di tutti coloro che vogliono negare il valore legale dei titoli di studio universitari, mi stupisco un poco che proprio da parte liberale provenga una simile richiesta. Se la vostra richiesta, colleghi liberali, si riferisce all’attualità della situazione universitaria italiana, avete ragione; se essa si riferisce al contesto di questa legge, così com’è stata sciaguratamente preparata, potete avere senz’altro ragione; ma se si riferisce alle tradizioni liberali quali le ho studiate sui banchi della scuola, ed anche dell’università, allora mi sembra che abbiate un po’ meno ragione, e cioè mi sembra che dovreste convenire con noi circa una considerazione obiettiva ed onesta: cosa accadrebbe il giorno in cui si sanzionasse per legge l’abolizione del valore legale dei titoli di studio universitari? Uno tra voi lo ha nobilmente detto, in uno dei tanti interventi che avete svolto; uno tra voi ha detto che l’università italiana salirebbe ad altissimo livello scientifico, perché se scienza è cultura, se scienza e cultura sono umanesimo, allora avremmo una università umanistica davvero, nel senso più alto del termine, con il massimo disinteresse da parte dei docenti, con il massimo disinteresse da parte dei discenti. Attenzione, però, perché la parola «disinteresse» può essere interpretata in due sensi, può avere due significati: si può essere «disinteressati» nei confronti del pragmatismo di tutti i giorni in quanto si abbiano interessi più alti, più vasti, interessi universali; ma si può essere «disinteressati» in quanto privi di interesse. Non vi sembra, onorevoli colleghi di parte liberale e onorevoli colleghi di tutte le parti politiche che possono sostenere o aver sostenuto la tesi dell’abolizione del valore legale del titolo di studio universitario, non vi sembra che una università di tal genere sarebbe talmente disinteressata da non interessare più alcuno? “

COTTONE: “Questo è un puro sofisma. Ella è troppo intelligente per non sapere che questo è un classico sofisma da manuale. “

ALMIRANTE: “Non è un sofisma, è una domanda che pongo.

L’altra è una domanda che io pongo alla vostra coscienza ed alla vostra intelligenza, perché mi sono sforzato di porla alla mia coscienza, e mi è accaduto di dare una risposta contraria a quella che avete dato voi. Penso non ci sia nulla di male. Ecco, io mi sono posto questo quesito, ed ho risposto a me stesso e continuo a rispondere a me stesso che uno tra i problemi che stiamo affrontando essendo quello (e a questo proposito siamo tutti d’accordo, ritengo) di una ripresa di contatto fra scuola (e, in particolare, università) e società; essendo il massimo dei problemi che ci siamo proposti quello di reinserire l’università nella società, di farne l’espressione migliore e più alta, il vertice morale e culturale, affinché i contenuti della società come direbbe il nostro De Sanctis si calino nella università e quest’ultima si cali, a sua volta, nella società; essendo questo il problema, a mio avviso (ed esprimo un parere in piena coscienza, e davvero disinteressato spero me ne diate atto perché non ci sono, in questo caso, manovre politiche di alcun genere), una università che non concedesse titoli di studio validi per entrare nella società, per esercitare nobilmente la professione e per esercitare nobilmente quella che è la grande arte del ricercatore, che deve essere inserito nella società, una università siffatta finirebbe per non interessare più alcuno nella società attuale, non essendo possibile né pensabile fare un salto all’indietro di secoli e secoli, per tornare a quelle che erano università inserite in diversi tipi di società, non paragonabili sia le università che le società con quelle attuali. “

GIOMO: “Se l’onorevole Almirante me lo permette, dirò che, nella vita precedente del Partito liberale, abbiamo l’esempio di due uomini politici che hanno onorato il nostro partito nel campo della scienza senza avere un titolo di studio: Benedetto Croce non è mai stato laureato in filosofia ed Epicarmo Corbino non è mai stato laureato in economia. Benedetto Croce è stato uno dei più grandi filosofi italiani ed Epicarmo Corbino è stato professore di scienza delle finanze.”

FODERARO: “Ma quanti Benedetto Croce ed Epicarmo Corbino abbiamo in Italia?”

ALMIRANTE: “Onorevole Giorno, io ne aggiungerò un terzo, di cui ho appreso la vicenda scolastica proprio durante l’intervento dell’onorevole Bignardi nel corso della discussione sulle linee generali. Guglielmo Marconi fu cacciato da scuola, e non si laureò; ma penso che, pur non facendo egli parte della tradizione liberale, avendo fatto parte dell’accademia creata in tempo fascista, lo onoriamo tutti come un grande scienziato. Però questi esempi non solo non confortano la vostra tesi, ma proprio per il fatto di essere citati come eccezioni, come cime svettanti (di questi grandissimi nomi non se ne possono citare molti altri), stanno a dimostrare che la vostra tesi non è attuale. Inoltre, non vogliamo marciare verso il collettivismo (almeno noi, nonché una larga parte dei colleghi presenti in quest’aula), verso una cultura o una civiltà collettivizzata; ma non possiamo nascondere a noi stessi che quando da altre parti ci si richiama all’importanza del lavoro e della ricerca di équipe, specie per quanto attiene alle facoltà scientifiche o ai dipartimenti scientifici, ci si richiama a un fatto di grande importanza. Come potete immaginare che si giunga a creare delle équipes di ricercatori e di scienziati, o anche che si riesca a creare quell’humus umanistico e culturale dal quale possano poi svettare le grandi eccezioni, in una università che sia dequalificata attraverso l’ammissione del principio che il suo titolo di studio non ha più valore legale e non serve ad immettere i giovani nelle professioni e nelle arti? Non vi è bisogno di dilungarsi oltre, perché nel dibattito il nostro atteggiamento a questo riguardo è già apparso chiaro. Ho preso atto dell’atteggiamento diverso che è stato assunto da altre parti, mi pare, onestamente e chiaramente. Mi duole non poter prendere atto di un atteggiamento serio e responsabile da parte del gruppo su cui gravano le maggiori responsabilità, ossia quello della Democrazia cristiana. Per continuare con la Democrazia cristiana (cioè, con la parte ufficiale di essa), debbo tornare per un momento sull’importante discorso pronunciato dall’onorevole Spitella, perché ho l’impressione che egli sia stato il solo fra i parlamentari della Democrazia cristiana a tentare di interpretare addirittura ideologicamente l’atteggiamento tenuto dalla Democrazia cristiana a proposito di questi argomenti. Sono molto lieto che l’onorevole Spitella sia qui presente e possa constatare che ho sott’occhio il suo testo già citato, che mi ha molto interessato. Egli dice: «Ecco gli elementi per cui l’università proposta in questa riforma si contrappone a quella ottocentesca e si riconduce, per certi aspetti, alle libere università medioevali: l’autonomia e l’iniziativa delle universitates… l’assenza di un corpo docente che riceva quasi una consacrazione statale e sia l’espressione tendenzialmente etica dello Stato… la presenza, invece, di una pluralità di docenti che nella libera esplicazione della loro opera di scienziati e di maestri realizzino una pluralità di interpretazione e propongano una molteplicità di soluzioni, che è caratteristica essenziale della cultura contemporanea». Aggiunge poi che vi è una intima connessione tra le considerazioni espresse sul nuovo rapporto tra Stato e università e quelle espresse sull’analogia con le istituzioni medioevali, e che «tale connessione è rappresentata dalla crisi dello statalismo, totalitario anche quando si professa liberale». Questa è una affermazione veramente interessante per noi. E l’onorevole Spitella prosegue «… dal ritorno ad una concezione dello Stato come organizzazione di garanzia, dal ritorno ad una cultura non esclusivistica e dogmaticamente illuministica, ma aperta ad una pluralità di interpretazioni, tra le quali quella religiosa ha un suo ruolo preciso e fecondo».

Come cattolico io la ringrazio, onorevole Spitella, per il posto conferito alla interpretazione religiosa e al ruolo dell’interpretazione religiosa, come cittadino italiano e come modestissimo dopo tutti cultore di questi gravi problemi, io chiedo (non perché ella debba avere la bontà di rispondere, chiedo come al solito alla mia coscienza cercando di trovare la risposta) se la sua polemica contro l’Ottocento e contro lo statalismo e il richiamo veramente nostalgico (nostalgie consentite, ma un poco lontane) alle università del medioevo, non nascondano per avventura la ripresa di una polemica clericale svoltasi durante tutto l’Ottocento e anche nel corso del Novecento e di cui si avverte in questo caso una certa ripresa, che non ci fa piacere, non contro lo statalismo, ma contro lo Stato.

Onorevole Spitella, sul fatto che nell’università debba esservi una pluralità o un pluralismo di insegnanti e quindi anche di dottrine liberamente espresse, nulla quaestio. Nessuno, da nessuna parte politica più o meno sinceramente (non voglio indagare sulle intenzioni), ma nessuno in questo momento, in questo Parlamento, dalla destra fino alla estrema sinistra desidera una università di Stato. Mi permetto di ricordarlo perché lo hanno ricordato tutti coloro che sono intervenuti con una certa profondità di pensiero in questo dibattito; quando mi riferisco alla autonomia universitaria posso risalire tranquillamente, come ella sa, al 1923 e quindi sono perfettamente in regola. Nessuno tra noi desidera, postula, vuole o dice di volere una università di Stato. Ma tra il non volere una università di Stato e l’escludere ogni responsabilità dello Stato come promotore di cultura, come garante di promozione culturale, c’è una certa differenza. “

SPITELLA: “Ho parlato di Stato organizzatore di garanzia. “

ALMIRANTE: “Sì, di Stato organizzatore di garanzia. Voi siete veramente bravi, debbo riconoscerlo: quando volete trovare il modo per eludere con una formula ciò che volete eludere senza assumerne la responsabilità, voi siete bravissimi. Mi rendo conto che volendo lei accusare perfino i liberali di essere totalitari quando parlano dello Stato, lei non poteva parlare di Stato garantista perché sarebbe in corso in una tipica formula della tradizione liberale. Ed ancora lei ha detto «Stato organizzatore di garanzia». Onorevole Spitella, se lo Stato «organizzatore di garanzia» è lo Stato che secondo voi si esprime attraverso una legislazione di questo genere, cioè attraverso una legge, come lo stesso relatore di maggioranza ha avvertito, che è più un regolamento che una legge; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse in prospettiva stralciare con un’altra legge il valore legale del titolo di studio universitario; se lo Stato «organizzatore di garanzia» dovesse poi far consistere l’organizzazione della garanzia nella mancanza di ogni garanzia; se l’articolazione dovesse diventare disordine, come è già; se il pluralismo dovesse diventare disarticolazione, come è già, allora non avrei torto nel ritenere per vero quello che mi è sembrato, quello che ho sospettato, onorevole Spitella (e se ella me lo smentisce, ne sono ben lieto), e cioè che la sua polemica o addirittura la vostra polemica di partito non sia contro lo statalismo, ma sia contro lo Stato. Ora, legiferare in merito ad una riforma universitaria fuori dello Stato o contro lo Stato sarebbe un pericoloso errore, qualunque sia la dottrina, come sarebbe un errore dal quale si traggono le mosse, ritenere di poter tornare dalla università tipo Ottocento, quella gloriosa università che ci ha fatti italiani, onorevole Spitella (mi permetterò di ricordarlo più avanti; non è retorica, mi sia consentito: l’università di Francesco De Sanctis ci ha fatti veramente italiani)… “

SPITELLA: “L’ho riconosciuto anch’io. “

ALMIRANTE: “…il voler pensare di passar sopra all’università dell’Ottocento per ritornare alle universitates medioevali, nelle quali c’era il pluralismo, d’accordo, ma c’era una unità di ispirazione, onorevole Spitella, che ha fatto gloriosa, che ha fatto una la nostra civiltà! Ciò che, attraverso le università, ha fatto una la nostra nazione nell’Ottocento, ha fatto una la nostra civiltà nei tempi di Dante. Mi pare che questa forza unitaria dell’università, forza unitaria addirittura spirituale e civile nel medioevo, forza unitaria nazionale e ancora civile nell’Ottocento, debba essere avvicinata. La vostra, la nostra ambizione comune non dovrebbe essere quella di passar sopra alla gloriosa università dell’Ottocento per ritornare ritorno impossibile ai modelli dell’università medioevale; la nostra ambizione dovrebbe essere quella di riannodare la università del Novecento, la università degli anni ’70, alla università dell’Ottocento e a quella medioevale, per rifare una l’Italia nella civiltà in un momento di pericolosa crisi delle giovani generazioni. Se non siamo d’accordo su questo, allora manca a questa riforma ogni ispirazione morale, che è proprio l’appunto più pesante che a questa riforma ci permettiamo di fare.

E adesso mi debbo occupare e, per verità, confesso, senza offesa per alcuno, me ne occupo un po’ più volentieri dei colleghi della Democrazia cristiana che sono intervenuti in opposizione a questo disegno di legge. Io sono certo che l’onorevole ministro risponderà agli eminenti colleghi della Democrazia cristiana che hanno pronunziato discorsi di garbata, di correttissima, ma di vera e propria opposizione a questo disegno di legge. Io non penso di avere il compito di replicare; penso di avere, modestamente, come relatore di minoranza, il compito e anche l’opportunità di rilevare ciò che è stato detto, e che non deve andar perduto, nel quadro di questa discussione, almeno per quanto concerne la nostra doverosa attenzione. Il discorso che, senza fare torto agli altri, mi è apparso più significativo tra i discorsi di opposizione che sono stati pronunciati in quest’aula, lo ha pronunciato senza dubbio l’ onorevole Gui. Lo ha pronunciato l’onorevole Gui, anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione; e anche per la sua qualità di ex ministro della Pubblica istruzione, ahimè, bocciato dal Parlamento o dai partiti o dal suo stesso partito nel tentativo, anni or sono, di dar vita a una riforma universitaria. Ci voleva del coraggio politico da parte dell’onorevole Gui per intervenire in questo dibattito. Abbiamo notato, direi anche fisicamente, la difficoltà nella quale egli si trovava, la nobiltà e la correttezza con cui egli si è comportato nei confronti di un ministro che gli è succeduto nel tempo e che sembra possa aver miglior fortuna nei confronti di un disegno di legge di riforma universitaria.

Il discorso dell’onorevole Gui potrebbe essere definito correttamente il discorso delle contraddizioni. Non il discorso delle contraddizioni dell’onorevole Gui, ma il discorso delle contraddizioni che il discorso dell’onorevole Gui ha fatto scoppiare all’interno del disegno di legge sulla riforma universitaria portato avanti dall’onorevole Misasi. Io ho preso nota, spero diligente, delle contraddizioni che l’onorevole Gui ha rilevato in questo disegno di legge; non tanto nelle singole norme del disegno di legge, quanto nello spirito informatore del disegno di legge. Mi sembra che l’onorevole Gui abbia messo in luce almeno sei contraddizioni, la contraddizione tra autonomia universitaria e statalismo, la contraddizione tra titolo di studio di Stato e libertà dei piani di studio, la contraddizione tra liberalizzazione dell’accesso alla università e titolo universitario di Stato, la contraddizione tra regionalismo, nella funzione che gli si vorrebbe dare, e funzione dello Stato, la contraddizione tra le vecchie e le nuove baronie o per dir meglio l’inserirsi delle nuove baronie sulle vecchie, che dovrebbero essere tolte di mezzo e la contraddizione tra un vero progresso sociale ed un fittizio progresso sociale. Mi permetterò di fare qualche rapida citazione per mettere in rilievo quale sia l’importanza di queste contraddizioni rilevate dall’onorevole Gui, e per pregare cortesemente l’onorevole ministro di aiutarci a sciogliere questi nodi.

La prima e forse più grave contraddizione, è stata rilevata come dicevo prima tra autonomia universitaria e statalismo. Ha detto l’onorevole Gui il 21 ottobre in quest’aula (cito sempre dal resoconto stenografico immediato): «Avremo quindi università autonome dello Stato…, i cui poteri effettivi però distribuiranno i titoli di Stato». E ha aggiunto l’onorevole Gui: «In conclusione, a me pare che il disegno di legge rimanga in bilico, in qualche modo contraddittoriamente: adotta entrambe le logiche, sia pure con la prevalenza di quella dell’autonomia…». A noi sembra che sia proprio così, onorevole Misasi. Ella sa quello che è risultato dal divertente calcolo attribuito al calcolatore elettronico di Pisa; il calcolatore non so come vengano fatte simili operazioni, ma il Presidente Pertini ce lo dirà il giorno in cui ci spiegherà come funzionano quei tabelloni che sono appesi alle pareti ha effettuato un’operazione in base alla quale è risultato che le attribuzioni del Ministero della pubblica istruzione emergenti da questo disegno di legge sono assai più numerose (non voglio dire più importanti, perché sin qui forse neppure un calcolatore elettronico può arrivare) di quanto non siano state in precedenza, in base a tutta la legislazione del passato, non esclusa quella del tempo fascista. È uno strano andare innanzi, verso l’autonomia, quello che consiste nell’ accentuare la dipendenza delle università autonome dallo Stato. Qualcuno fra gli intervenuti, mi pare l’onorevole Lucifredi (e mi perdoni, onorevole Lucifredi, se sbaglio nella citazione), ha detto che è sommamente divertente la norma inserita in questa legge, in base alla quale non soltanto le università autonome, che per comodità possiamo chiamare statali, dipendono dallo Stato attraverso tutta una serie articolata di disposizioni, ma le università libere possono essere costituite soltanto mediante autorizzazione, con timbri e carta da bollo dello Stato. Questa è vero, onorevole Lucifredi è una delle cose più amene che mettono in luce e ha ragione l’onorevole Gui la contraddizione di fondo che pervade tutto questo disegno di legge. Con ciò non voglio dire che la nostra parte politica sia più favorevole ad uno statalismo più accentuato; intendo dire che voi non sapete quello che volete, e che volete tutto perché la legge è nata come tutte le leggi che nascono in questo clima ed in questo sistema da una serie di compromessi. E finché i compromessi si verificano in materia politica, o per altro tipo ed ordine di riforme, che attengono alla economia, non dirò pazienza, dirò male, ma si tratta comunque di problemi solubili in un divenire forse non remoto; ma quando i compromessi attengono alla materia dello spirito, della cultura, allora penso che i compromessi siano indecorosi. Così l’onorevole Gui ha rilevato l’antinomia tra il titolo di Stato e l’indiscriminata libertà dei piani di studio. Come può lo Stato mettere il proprio sigillo, un sigillo indiscriminato, quando è indiscriminata la libertà dei piani di studio? Come può essere eguale nella sua validità (ed eguale diventa per legge) un titolo di studio conferito allo studente tale o allo studente talaltro, quando si sappia che lo studente tale, attraverso la indiscriminata libertà dei piani di studio, ha facoltà di conseguire quello stesso titolo, quello stesso pezzo di carta, con uno sforzo infinitamente inferiore e quindi con un sapere conseguito infinitamente inferiore e più fragile di quello conseguito dal collega che ha scelto piani di studio di ben diversa mole? Anche qui mi sembra che la contraddizione rilevata dall’onorevole Gui esiste veramente.

E la contraddizione fra liberalizzazione degli accessi all’università e titolo di studio statale? Dice l’onorevole Gui: «Così, anche la liberalizzazione assoluta delle provenienze per l’accesso all’università, se da un lato ha rappresentato un elemento certamente democratico, una spinta in senso popolare per l’accesso agli studi universitari…, dall’ altro non è stata coerente con la logica profonda delle nostre istituzioni universitarie. Anzi è stato un elemento di contraddizione…».

E le regioni? Dice l’onorevole Gui (e lo dice l’onorevole Gui regionalista se lo dicessi io, solleverei scandalo. Io ricordo che, quando discutemmo delle regioni, l’onorevole Gui non dico che fu uno fra i più accaniti, ma comunque fra i più convinti penso di esprimermi correttamente sostenitori del regionalismo): «Abbiamo introdotto le regioni; abbiamo decentrato alcuni poteri dello Stato alle comunità regionali. Ma nessuno di noi si è sognato di decentrare alle regioni dei poteri grazie ai quali, legiferando, esse possono emettere leggi valide su tutto il territorio nazionale. Le regioni promuovono leggi valide per le regioni stesse; così ogni università dovrebbe emettere titoli di studio validi per quella università». E se per avventura, come molti colleghi hanno proposto, soprattutto da sinistra, i poteri delle regioni dovessero essere estesi all’ambito universitario, si dovrebbe stare bene attenti affinché le regioni non emettano norme universitarie valide da quella università per tutto il territorio nazionale, in quanto il detentore di un titolo di studio rilasciato da una qualsivoglia università, sulla base di norme diverse da quelle valide per le altre università, sarebbe portatore di diritti validi in tutto il territorio nazionale. Anche questa ci sembra una pesante contraddizione.

Quanto alle baronie, anche qui per non essere sospetto io leggo quanto ha detto l’onorevole Gui: «… in certo modo, con esso» (cioè con questo disegno di legge) «tutte le componenti universitarie diventano “baroni”, perché tutti esercitano un potere statuale senza controlli e senza risponderne ad alcuno. Si tratta, quindi, di una forma di irresponsabilità cui vengono spinti gli organi universitari, con la conservazione di tale contraddizione». Singolare: un disegno di legge anti-baronie il quale si conclude con la promozione, con la estensione, direi con la collettivizzazione delle baronie. È un pesante giudizio che noi riteniamo di condividere e siamo sicuri che l’onorevole ministro vorrà dare dei cortesi chiarimenti al riguardo. Ma di tutte le osservazioni fatte dall’onorevole Gui, quella che più mi ha colpito è l’ultima, quando egli dice: «… io penso anche alla delusione dei figli dei poveri, finalmente pervenuti faticosamente al traguardo universitario, che poi si ritroveranno nelle mani un titolo con un valore sostanzialmente limitatissimo». Siccome questa riforma, onorevole Misasi, è una riforma altamente sociale, perché liberalizza l’accesso all’università, perché democratizza l’organizzazione dell’università, perché non è una riforma classista in senso di destra, perché è una riforma che vuole consentire ai figli degli operai e dei contadini hanno detto i colleghi dell’estrema sinistra di godere degli stessi diritti di tutti gli altri giovani, ecco, io insieme con l’onorevole Gui penso al destino dei figli dei poveri i quali faranno tanta fatica per accedere all’università, si vedranno schiuse le porte del paradiso e, invece di salire su nei cieli, si troveranno nemmeno all’inferno, ma nel pre inferno, tra gli ignavi, senza infamia e senza lode, perché voti di lode non ce ne saranno davvero e voti di infamia non ce ne potranno essere, e gireranno, proprio come gli ignavi danteschi, dietro ad uno straccio, che naturalmente sarà uno straccio rosso, come tutti gli stracci dei quali è infetta l’attuale società culturale italiana.

Io penso che sul discorso pronunciato dall’onorevole Gui valesse la pena di soffermarsi, come vale la pena di soffermarsi sul discorso pronunciato dall’onorevole Lucifredi. E, come ho definito il discorso dell’onorevole Gui il discorso che ha fatto scoppiare le contraddizioni di questa legge, mi permetto, correttamente, di definire il discorso dell’onorevole Lucifredi come il discorso della moralità del docente. Io ho sentito nelle parole dell’onorevole Lucifredi l’accoramento non soltanto, anzi non tanto, del collega da tanti anni parlamentare, quanto del docente, anche e soprattutto perché l’onorevole Lucifredi ha dichiarato e io spero che non mantenga il proposito che questa è l’ultima legislatura alla quale avrebbe partecipato. Infatti, poiché si pone la incompatibilità fra docente universitario e parlamentare, preferisce lasciare le aule parlamentari e dedicarsi per sempre all’insegnamento. Questa dichiarazione se l’onorevole Lucifredi me lo consente- d’, avversario politico. Mi ha commosso, quanto la dichiarazione dell’ onorevole GUI a proposito dei figli dei poveri. Ecco, da un lato, questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di base, dall’ atro,questa riforma universitaria vista nei suoi effetti di vertice. Da un lato,, i ragazzi dei poveri che otterranno dei pezzi di carta che ne faranno degli spostati e, dall’ altro, i docenti illustri, soprattutto, ma a parte questo i docenti coscienziosi che hanno dedicato alla università, alla cattedra e all’ insegnamento tutta la loro vita- che si sentono dire da un complesso di parlamentari cui la cultura di solito non arride che, siccome sono uomini di cultura, siccome sono docenti, siccome credono nella università, siccome hanno vissuto nell’università, siccome hanno vinto i loro concorsi, siccome sono stati apprezzati dagli alunni, siccome non sono stati contestati e gli alunni non sono capaci neppure ora di contestarli, li contesta un Parlamento al quale si accede anche se analfabeti, perché la prova di alfabetismo non esiste, un Parlamento nel quale non si parla, ma si legge e, molto spesso, si leggono discorsi scritti da altri. Questo Parlamento si arroga il diritto, onorevole Ministro, di cacciare, di eliminare i docenti per incompatibilità o, per lo meno, di metterli in condizioni di effettuare una dolorosa scelta come è il caso dell’onorevole Lucifredi. Io non sono docente universitario; sono stato un modestissimo insegnante di liceo: quindi, non parlo certamente per me. Dunque, un Parlamento che, essendo così fiorito di cultura e di personalità culturali e di grandi docenti, si permette di eliminare con un tratto di penna di un ministro o di una coalizione di Governo, per dare ascolto a qualche partito estremista in senso di sinistra, quel tanto o quel poco di cultura che vi aleggiava e che ci rendeva sopportabili talune interminabili sedute parlamentari.

Ecco, io ho apprezzato in questo senso il discorso che ha pronunziato l’onorevole Lucifredi, e mi ha ancor più impressionato il fatto che il collega abbia dichiarato di parlare non soltanto come docente, ma anche come rettore. L’unico che noi abbiamo l’onore, per adesso, finché non lo cacceremo, di avere in quest’aula. L’onorevole Lucifredi ha citato le deliberazioni o per dir meglio le raccomandazioni della conferenza nazionale dei rettori, unanime nel sostenere determinate tesi di critica di fondo nei confronti di questa riforma; tesi, per altro, che, provenendo dai rettori, non meritavano almeno così sembra di essere ascoltate. Si ha, cioè, nei confronti dei docenti, e dei rettori in particolare, ancora meno rispetto di quello che hanno taluni studenti contestatori nei confronti dei loro docenti. Non sono stati neppure contestati: non li ascoltano, non rispondono loro. Non credo che esista agli atti del Ministero della pubblica istruzione una risposta ufficiale alle raccomandazioni della conferenza dei rettori. “

MISASI:(Ministro della pubblica istruzione) “C’è stata la presenza assidua del ministro alla conferenza dei rettori. “

ALMIRANTE: “Ma la presenza è una risposta ufficiale?”

MISASI: “La presenza e la partecipazione. “

ALMIRANTE: “Ma i rettori hanno parlato prima, nel corso della lunga elaborazione di questo disegno di legge. I rettori, il Consiglio superiore della pubblica istruzione, l’organizzazione nazionale degli insegnanti universitari di ruolo, singoli insegnanti di ruolo, ai quali mi sono permesso di richiedere l’onore di poter parlare per essere informato circa questo provvedimento, si sono rivolti all’attenzione dell’onorevole ministro della Pubblica istruzione per avere una risposta. Credo che nessuno di loro l’abbia avuta. Certo, onorevole ministro, ella risponderà in questa sede, ne sono pienamente convinto, perché ella si assume le sue responsabilità. Ma se questo Parlamento dovesse davvero essere un organo di partecipazione, almeno a livello culturale, penso che ella avrebbe mancato ai suoi doveri non consentendo ai competenti di partecipare alla elaborazione di questo così importante disegno di legge. Abbiamo ascoltato un importante discorso di opposizione da parte dell’onorevole Riccio il quale si è lanciato sono parole sue che io non mi permetterei di usare contro la posizione «ipocrita e demagogica» di coloro che hanno formulato, presentato e sostenuto questo disegno di legge. Ipocrita e demagogica sono due aggettivi, uno solo dei quali basterebbe a sotterrare un ministro e un intero Governo, quando sono pronunciati da un docente in quest’aula senza, mi sembra, un contraddittorio adeguato. Infine abbiamo ascoltato con interesse il discorso di pesante opposizione formulato, sempre per quanto riguarda il gruppo della Democrazia cristiana, dall’onorevole Greggi, il quale ha dichiarato che questa riforma «istituzionalizza il caos o il rischio del caso», e addirittura che questa riforma «introduce i soviet» nell’università. Avendo così cercato di interpretare le tesi dei non molti colleghi della Democrazia cristiana che si sono espressi in favore di questa riforma e avendo messo in luce le tesi, gli addebiti, le accuse, le critiche dei colleghi della Democrazia cristiana che si sono pronunziati contro questa riforma, credo di avere adempiuto al mio ufficio di relatore di minoranza e di avere anche rilevato con obiettività che si tratta di un disegno di legge largamente non condiviso da coloro che avrebbero dovuto, invece, in quest’aula, se ne fossero stati convinti, sostenerlo.

Comunque mi permetto di non dire e lo faccio in assenza dell’onorevole Andreotti, per non comprometterlo, perché se arrivasse l’onorevole Andreotti non lo comprometterei con un mio riconoscimento (i riconoscimenti ce li possiamo scambiare soltanto alla televisione, con l’onorevole Andreotti, non certamente, da qualche tempo a questa parte, nelle aule parlamentari) che il gruppo della Democrazia cristiana si è impegnato massicciamente in questo dibattito, distinguendosi, come dicevo all’inizio, dal resto della quasi silenziosa maggioranza: socialisti, repubblicani e socialdemocratici, i quali nel loro insieme hanno ritenuto di condividere la tesi sostenuta con maggiore impegno e con maggiore serietà dal gruppo comunista, secondo la quale la legge «non va, ma bisogna far presto». I comunisti, per lo meno, dicono che la legge non va ma bisogna far presto: i socialdemocratici, i repubblicani e i socialisti dicono che la legge va benino (secondo i socialisti), va malino (secondo i socialdemocratici), va maluccio o quasi, o decisamente male (secondo i repubblicani), ma bisogna far presto. Sicché signor ministro, io non sono nella condizione di spiegare a me stesso, e tanto meno a lei, che certamente li conosce e ce li dirà, i motivi per i quali il parere dei repubblicani è un parere con riserve, quello dei socialdemocratici è un parere con forti riserve e quello dei socialisti è talmente riservato che nessuno se ne è reso conto.

Per i repubblicani l’onorevole Biasini, che pure è un docente, ha dichiarato: «Noi non riteniamo che questo progetto risponda totalmente alle esigenze storiche del momento. Noi dobbiamo riconoscere certi limiti che si rinvengono nel provvedimento». Poi ha continuato affermando che il provvedimento è urgente. Sicché noi siamo digiuni delle motivazioni storiche del Partito repubblicano storico, non conosciamo i limiti ai quali l’onorevole Biasini ha alluso e non sappiamo perché questo progetto secondo i repubblicani non risponda totalmente alle esigenze del momento. Per i socialdemocratici hanno parlato l’onorevole Ceccherini e l’onorevole Reggiani. L’onorevole Ceccherini, che non mi sembra sia un docente, ma credo fosse soltanto un «guffino», un universitario dei tempi dei GUF, ha dichiarato: «I social-democratici si rendono conto che la riforma universitaria, così come oggi ci viene presentata dopo l’approvazione del Senato e con gli emendamenti proposti in Commissione alla Camera, non è il punto di arrivo che essi si erano prefissi». Quindi, non è un punto di arrivo, non sappiamo se sia un punto di partenza, non sappiamo quale distanza ci sia dalla partenza o dall’arrivo; sappiamo soltanto che l’onorevole Ceccherini fa parte anche lui della maggioranza quasi silenziosa; voterà, credo, in favore di questo disegno di legge perché fa parte dei partiti di governo, ma si riserva un giudizio quando saremo più in là.

Non mi sembra nel complesso che l’atteggiamento politico della maggioranza, onorevole ministro, sia tale da confortarla per il discorso che ella dovrà pronunziare in sede di replica. E adesso passo rapidamente alle posizioni che sono state assunte dalle due opposizioni collaborative o quasi collaborative che si sono ormai delineate in quest’aula: l’opposizione collaborativa comunista e l’opposizione quasi collaborativa liberale. I colleghi liberali sono usciti quasi tutti, ma non si offenderanno per questo mio giudizio perché esso emerge, onorevole Misasi, nella sua obiettività dagli elogi che i colleghi del Partito liberale si sono premurati di conferire alla sua persona. Io credevo che la sua corrente politica fosse molto lontana dalle correnti liberali e invece ella ha avuto una singolare fortuna: i colleghi liberali nel corso di questo dibattito hanno elogiato il suo zelo, la sua prudenza, il suo impegno. Indubbiamente sono elogi sinceri e senza alcuna contropartita, perché il Governo non è ancora in crisi e pertanto non è maturo per il momento per una eventuale entrata liberale nella maggioranza.

Quanto agli oratori di parte comunista, il loro atteggiamento verrebbe definito da me emblematico se io appartenessi, onorevole Misasi, alla sua corrente che usa di questi termini. Non dirò quindi che l’atteggiamento comunista è emblematico, ma che è significativo, e che uno Io dico sempre cordialmente e senza offesa tra i discorsi più divertenti che siano stati pronunziati in quest’aula, lo ha pronunziato un oratore di estrema sinistra: credo che si tratti di un indipendente di sinistra, ma penso che sia abbastanza dipendente, ideologicamente e politicamente parlando, dal gruppo del Partito comunista, l’onorevole Mattalia, che fra l’altro è un docente, un rispettabilissimo docente. L’onorevole Mattalia ha parlato della necessità che la legge sia sollecitamente varata, con quanto consegue in ordine alla imperiosa accipicchia! opportunità di evitare proposte e iniziative che possano ulteriormente ritardare o bloccare l’ iter della legge, o addirittura metterne in giuoco l’esistenza. E ha aggiunto che la serrata dialettica delle parti si deve considerare sostanzialmente conclusa nell’altro ramo del Parlamento, e che quindi è ridotto lo spazio di agibilità innovativa riservato alla Camera dei deputati.

Io voglio sperare che al Presidente Pertini sia sfuggita la gravità di questa dichiarazione perché lo so molto sensibile, giustamente sensibile, dei diritti e delle prerogative di questo ramo del Parlamento nei confronti dell’altro ramo. Però ho trovato queste frasi diligentemente riportate dagli stenografi; non mi sono avveduto che sia scoppiato alcuno scandalo e quindi debbo pensare che l’onorevole Pertini non abbia registrato affermazioni di questa gravità. Ma la dichiarazione che questa non solo è una legge urgente, ma che è talmente urgente che ci si può accontentare, anzi che ci dobbiamo accontentare, noi deputati, di quanto il Senato ha dialetticamente dibattuto e che il nostro spazio di agibilità è ridotto quindi alla pura e semplice approvazione di quanto l’altro ramo del Parlamento ha voluto decidere, questa affermazione ripeto mi ha profondamente divertito, anche perché, se fosse partita dai banchi della Democrazia cristiana, avrei detto che un ingenuo collega democratico cristiano ha voluto rendere un servigio al signor ministro, lo ha voluto togliere dagli impacci, ha voluto far sì che la legge procedesse dirittamente. Ma quando un discorso, un ragionamento, se lo si può chiamar tale, una suggestione ecco, chiamiamola così di questo tipo parte dai banchi dell’estrema sinistra, che dichiara di essere la ruggente opposizione nei confronti di questo sistema, di questo Governo, non tanto di questo ministro che forse gode delle simpatie all’estrema sinistra, allora non posso che divertirmi e considerare collaborativa la posizione reale del gruppo comunista. Debbo dire che è collaborativa non soltanto attraverso quanto ha dichiarato l’onorevole Mattalia, che potrebbe essere considerato un indipendente, ma anche attraverso quanto hanno dichiarato ben più responsabilmente il relatore di minoranza di parte comunista, l’onorevole Giannantoni, e il principale esponente, credo, del Partito comunista in ordine ai problemi della scuola e della università in particolare, l’onorevole Natta, che è intervenuto nel dibattito. Credo valga la pena di fermarsi su alcune tra le tesi sostenute dal gruppo comunista perché questo confronto di tesi e di idee mi sembra assai importante data la rilevanza generale dell’argomento.

Il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha ritenuto di dover tirare fuori, nei confronti di questo dibattito, una tesi che da sinistra viene agitata da qualche mese, e soprattutto da qualche settimana a questa parte, come la più insinuante tra le tesi che possono essere sostenute da sinistra, cioè la tesi del «patto costituzionale». Non crediate che voglia approfittare della occasione per una digressione su questa aberrante teoria per quanto attiene alla elezione del Capo dello Stato; se ne parlerà al momento opportuno, in sede opportuna. Mi riferisco a quanto il relatore comunista, onorevole Giannantoni, ha detto a questo esclusivo riguardo con la seguente formulazione. Il disegno di legge per la riforma dell’università è di straordinaria importanza; siccome è tale in quanto attiene ad un ordinamento che è poi quello base o l’ordinamento emblema di tutta la società, si tratta di una legge di portata costituzionale, anche se formalmente si tratta di una legge ordinaria; siccome si tratta di una legge di portata costituzionale, allora una specie di patto costituzionale dovrebbe formarsi intorno alla elaborazione di questa legge e quindi alla elaborazione di questa legge dovrebbero partecipare tutte le forze politiche che fanno parte del patto costituzionale.

Ora, se il relatore comunista avesse voluto semplicemente dire che la legge è tanto importante che alla elaborazione attenta di questa legge deve partecipare tutto il Parlamento, avrebbe detto una cosa che il signor de La Palisse avrebbe detto prima di lui con altrettanta chiarezza. Penso che l’onorevole Giannantoni abbia voluto invece dire che, essendo questa legge di portata costituzionale per i motivi che si sono detti, il gruppo comunista deve contribuire alla elaborazione del disegno di legge, non debbono esservi sbarramenti, né steccati.

Contrariamente a quanto l’onorevole Natta può pensare circa i miei orientamenti al riguardo, non avrei nulla in contrario a ritenere che il gruppo comunista abbia tutto il diritto di contribuire alla elaborazione di un disegno di legge di questo genere. Perché no? Però a questo punto si scoprono le carte e qualcuno dice: vedo. E allora si vede quello che c’è dietro la profferta comunista, cioè qual è il contributo che l’attuale gruppo comunista o l’attuale Partito comunista è nella volontà, è nella condizione di dare per la elaborazione di un disegno di legge di riforma dell’università. Ho cercato di studiare con una certa attenzione, con una certa diligenza e con il rispetto che è dovuto ad un grosso (non ho detto grande) partito politico, ad un grosso gruppo parlamentare, le tesi che sono state espresse in questa occasione dal Partito comunista e in particolare dall’onorevole Natta.

Ho trovato, onorevole Natta, qualche cosa che mi piace. Per esempio quando ella ha dichiarato qui il 26 ottobre (resoconto stenografico immediato): «Oltre a ciò, sulla scuola e sulla università vengono a pesare le resistenze, i rinvii, le contraddittorietà di una politica di riforme; giacché nella scuola si ripercuote il complesso di fenomeni che caratterizzano l’attuale crisi della direzione, o dell’egemonia culturale e politica del nostro paese e, dirò anche, dello stesso ordinamento democratico»; ebbene, quando esce in simili affermazioni, ella altro non fa che denunziare, sia pure in modi a guise diversi (ma ciò che importa è la sostanza, non il modo), quella crisi di sistema che anche noi ci siamo permessi di prospettare nella nostra relazione di minoranza. A noi fa piacere rilevare che la crisi del sistema, specialmente in ordine alla scuola e più particolarmente all’università, quella crisi le cui ripercussioni di fondo si manifestano sulla scuola in genere e sull’università in specie, venga rilevata (non ho detto «confessata», ma intendevo dirlo…) anche o forse soprattutto da parte comunista.

Si tratta di una posizione seria e rispettabile, certo più seria e rispettabile di quella dei colleghi democristiani che parlano di empirismo e pragmatismo in tema di riforma dell’università, più seria e rispettabile della posizione dei socialisti, dei socialdemocratici, dei repubblicani, che stanno sotto le gonnelle di mamma Democrazia cristiana tentando di farle commettere qualche errore di più… Sta di fatto, però, che da parte dei comunisti viene denunziata la crisi del sistema, di questo sistema, la crisi degli ordinamenti democratici. Ora, quando si sostengono tesi di questo genere, si ha il dovere di porsi su una linea di alternativa, e non di alternativa generica. La logica del Partito comunista, anche se ingenua, potrebbe essere apprezzabile se quel partito rivelasse la volontà e la capacità di collocarsi in una posizione di alternativa nei confronti della società attuale. Ma il suo discorso, onorevole Natta, rivela che nemmeno il Partito comunista ha il coraggio di assumere una posizione di antitesi e di alternativa nei confronti di questo disegno di legge, di questa riforma universitaria, di questa scuola.

Voi, colleghi comunisti, non siete più sulle posizioni di contestazione globale sulle quali eravate stati trascinati nel 1968!. Avete riconosciuto criticamente, ve ne do atto, il dissolversi o l’esaurirsi di quel moto di contestazione e appunto per questo siete oggi, a vostra volta, contestati da sinistra, come è accaduto anche in questa aula da parte dei deputati del Manifesto, dei cui interventi mi occuperò più avanti. Ma se da sinistra siete contestati, colleghi comunisti, e se a vostra volta vi ponete come contestatori nei confronti dei partiti di Governo, dovete pur dire in che cosa vi distinguete dalla contestazione del 1968 e quali sono i motivi positivi della vostra contestazione. A che cosa mirate? Se vi opponete, o per meglio dire vi distaccate e vi dissociate responsabilmente dalla contestazione negativa e di struggitrice del 1968; se ritenete di non essere d’accordo con coloro che erano contrari alla cosiddetta «meritocrazia» e ad una scuola selettiva; se ritenete di non essere d’accordo con una concezione ortodossamente, ma certo ingenuamente e arcaicamente classista e marxista, quella dei colleghi del Manifesto, non dite però nulla, non dite più nulla, non siete più un partito rivoluzionario né un partito aperto alle spinte della società, ma soltanto un partito che arranca verso il tentativo di conquistare posizioni di potere insieme con quelle altre forze che voi criticate. Questa è la realtà. L’equazione fra «Partito comunista» e «partito conservatore» italiano (l’uno e l’altro ravvisabili sotto la stessa sigla: PCI) vi si attaglia proprio in ordine a questi problemi che riguardano la gioventù. Avete bruciato e gettato al vento i vecchi miti, senza che il loro posto sia stato preso da nuovi ideali. Prospettive in tal senso non emergono dall’intervento dell’onorevole Natta, nel quale vi sono soltanto tortuose affermazioni tendenti da un lato a criticare il disegno di legge e dall’altro lato ad inserire nel quadro del provvedimento portato avanti dal centro-sinistra non vostre tesi, colleghi comunisti, ma vostre posizioni politiche. In sostanza voi mirate, attraverso le tesi portate avanti nella discussione sulle linee generali e che saranno riprese negli emendamenti agli articoli, la cui sostanza già conosciamo, a far sì che il potere politico controlli dall’interno l’università. È questo il fine a cui tendete. Voi non volete la partecipazione alla vita dell’ università da parte dei discenti e dei docenti, sia pure nel quadro di una società vista da voi, in questo caso legittimamente, da sinistra, secondo gli schemi marxisti. Voi perseguite soltanto un fine di esercizio del potere politico, anzi partitico, anzi partitocratico nell’università.

I vostri emendamenti a questo tendono. Non tendono né alla cultura, né al sapere, né ad un nuovo rapporto umano fra docenti e discenti, né ad una nuova visione della società, della vita, del mondo: tendono soltanto a far sì che dalla conflittualità disordinata che la contestazione ha portato nelle università si passi all’imperio tassativo del Partito comunista o dei partiti di estrema sinistra o dei sindacati dei partiti di sinistra e di estrema sinistra all’interno dell’università. Questa è la trasparente manovra comunista. Sicché da un lato abbiamo lo squallido pragmatismo dei democristiani, ma dall’altro abbiamo tutta una serie di attentati contro la gioventù e contro i docenti che si compiono o si tenta di compiere da parte comunista. Quanto ai liberali, ho già risposto loro precedentemente per quanto riguarda la loro battaglia di fondo, che è quella relativa alla abolizione del valore legale dei titoli di studio. Per il resto debbo rilevare che anche il gruppo liberale, forse per una preoccupazione diversa e contraria, ma analoga nella spinta a quella comunista, cioè per una preoccupazione di inserimento, concede troppo al pragmatismo e troppo si discosta da quelle che dovrebbero essere e sono state in molte occasioni le sue tradizioni di attaccamento allo Stato: non allo Stato che controlli, soverchi e sovrasti, ma quanto meno allo Stato che indirizzi, promuova e coordini.

Debbo dire che mi hanno molto interessato, forse proprio per gusto se mi consentite di studio e di ricerca più ancora che per gusto strettamente politico, le posizioni assunte in ordine a questo disegno di legge dal gruppo socialproletario e dai deputati del Manifesto. Mi hanno molto interessato sia detto ancora una volta senza offesa non perché in termini politici si possa in questo momento attribuire soverchia importanza alle prese di posizione del gruppo socialproletario su questo disegno di legge e tanto meno forse alle posizioni del Manifesto, che sembra stia trasformandosi in partito politico (e farebbe bene a trasformarsi in partito politico e ad assumersi le relative responsabilità), ma perché tanto i colleghi del gruppo socialproletario quanto i colleghi del Manifesto si sono riferiti (e non potevano fare diversamente) alle posizioni del 1968, hanno mitizzato il 1968 dell’università italiana, della scuola italiana in genere, hanno quasi voluto contrapporre un 1968 «rosso» italiano, al famoso 1968 «tricolore» francese, e perché essi stessi pur mitizzando il 1968 dell’università italiana sono stati costretti a qualche severa autocritica, a qualche confessione illuminante. Per questo ritengo che siano interessanti i discorsi che essi hanno pronunziato. Per cominciare con il relatore del gruppo socialdemocratico, l’onorevole Sanna, la cui relazione mi debbo sinceramente congratulare è assai impegnativa ed ampia, oltre che densa di concetti, desidero ricordare che egli ha dichiarato che «la riforma dell’università deve essere una leva per cambiare la società». È una dichiarazione interessante, che noi accettiamo, se si parte da una tesi di contestazione nei confronti della società attuale. Ma anche se si parte da una tesi di parziale contestazione nei confronti della società attuale, è onesto concepire una riforma dell’ordinamento universitario come una leva per cambiare, naturalmente in meglio, la società.

Aggiunge l’onorevole Sanna: «Le disfunzioni dell’università si collocano infatti tra le contraddizioni della società capitalista e sono intimamente legate al ruolo che ad essa assegnano le classi dominanti». Ebbene, i colleghi del gruppo socialproletario e quelli del Manifesto, la sola estrema sinistra rimasta politicamente in Italia, essendo il resto «partito conservatore italiano» e non più «Partito comunista italiano», partito cioè privo di qualsivoglia spinta ed aspirazione rivoluzionaria, i colleghi di codesta combattiva, pugnace, insolente nei miei confronti (ma non me ne importa nulla), ma comunque rispettabile, in termini politici, estrema sinistra residua in Italia, dovrebbero avere la bontà di spiegarmi (è una domanda alla quale non chiedo risposta, è una domanda, al solito, che pongo alla mia coscienza, perché non riesco a comprendere, certo per mia immaturità) se si possa davvero parlare in Italia oggi di una scuola o di una università in crisi per esclusiva colpa della crisi insorta nella società capitalistica o se per avventura i demeriti non debbano essere distribuiti tra la società capitalistica, senza dubbio in crisi, e la larghissima espansione del marxismo in Italia in questo dopoguerra, da 25 anni senza alcun dubbio a sua volta in crisi. Perché se è vero, se è indubbiamente vero che la società capitalistica non è riuscita a partorire in questi 25 anni un rispettabile, producente nel quadro di quel sistema tipo di scuola, è certamente vero anche che la forte, la fortissima, la formidabile, la massiccia presenza, specie al livello di scuola, sia di scuola media, sia di università, del mondo marxista non è riuscita fino ad ora che ad aggravare i problemi, rendendoli in taluni casi, cronici, nonché ad accentuare il disorientamento delle giovani generazioni, ed a rendere la scuola ancora più estranea alla società.

Quindi, se voi vi fermate nella vostra critica ad una parte pur legittima della stessa, ma non procedete ad una autocritica e non cercate di vedere che cosa ci sia di rancido, di stantio, di vecchio, di inattuale, di non proponibile alle giovani generazioni, nelle vostre stesse concezioni, allora voi restate fermi al vostro cosiddetto glorioso 1968 che si è esaurito, che si è estinto, che non interessa più nessuno. Mi sembra che dimostri questo ciò che voi stessi dite quando affrontate i problemi un poco più da vicino. Cito sempre la relazione, per altro pregevole, dell’onorevole Sanna, il quale, credendo di mettere in rilievo la crisi del mondo o del sistema capitalistico, afferma: «Quando più si allarga l’università tanto più agiscono i meccanismi di selezione e cioè il censo e la didattica». Ora, è esattamente vero che il censo è un meccanismo di selezione alla rovescia. È vero anche che un meccanismo di selezione che si impernia sul censo è un meccanismo di selezione da respingere in toto, proprio perché non seleziona, perché impedisce la selezione vera, che consiste, come mi sono sforzato di sostenere nella mia modesta relazione di minoranza, nella trasformazione continua, perenne della quantità in qualità.

Ma porre sullo stesso piano la didattica, ritenere cioè che la didattica sia un sistema di selezione tale da dover essere condannato, e non sapere poi spiegare quale nuovo tipo e schema di didattica debba essere sostituito all’attuale, tutto questo denuncia il vuoto delle vostre posizioni, colleghi dell’estrema sinistra, cosiddetta rivoluzionaria! E non è che non vi sia un tentativo da parte vostra: sempre nella relazione dell’onorevole Sanna, leggo che «si è venuta sperimentando e affermando un’altra didattica attraverso i seminari di studio». Quali seminari? I seminari di cui parlava la riforma Gentile e che lo riconosco io stesso ebbero scarsa attuazione successivamente? Comunque quei seminari erano intesi in guisa non molto lontana da quella in cui dovrebbero essere intesi, specie se facoltativi, i futuri dipartimenti. Ma di quali seminari si parla da parte dei colleghi socialproletari e del Manifesto allorché si afferma che in codesti seminari si è instaurato un nuovo e più producente tipo di didattica? Io so che l’onorevole Niccolai, qui presente, vi ha dato un saggio, che non ripeto (anche per non essere costretto a far siglare alle gentili stenografe le parolacce che sono state costrette a siglare quando ha parlato l’onorevole Niccolai), di quel che siano taluni seminari nati, all’insegna del glorioso 1968, purtroppo in parecchie università italiane. A quali seminari si allude? Si allude al sistema, così largamente in vigore, delle lauree false, degli esami non facili, ma falsi, non addomesticati, ma chiaramente “fasulli”; si allude a quel volgare sistema, non di facilitazioni, ma di imbrogli, che si è affermato per colpa di certi tipi di contestazione in tanta parte delle università italiane? Di questo si vuole parlare, è questa la nuova didattica che si vuole sostituire all’antica? Oppure si vuol parlare di una didattica di gruppo, di équipe, alla quale noi non siamo contrari, purché naturalmente venga inserita ed instaurata nei dipartimenti scientifici (sarebbe molto più difficile inserirla ed instaurarla nei dipartimenti umanistici)? Ma si tratterebbe, al più, di un perfezionamento tecnico, di una innovazione tecnica, di un più attento studio dei modi e dei metodi. È mai possibile che l’estrema sinistra rivoluzionaria, quando si tratta di proporre una sua alternativa nel quadro di un problema così importante qual è quello della riforma della scuola e dell’università, altro non sappia che proporre di sostituire la didattica di seminario alla didattica attuale? È mai possibile che questo topolino sia generato dalla montagna di disordini che avete portato nelle scuole, nelle università, che ancora continuate a portare e che annunziate, nei vostri discorsi, di voler continuare a portare nelle scuole italiane? È mai possibile che vi esprimiate con tanta leggerezza nel momento stesso in cui i fatti vi costringono all’autocritica, perché perfino voi dichiarate di essere contrari agli esami facili o facilissimi di questi ultimi tempi? Sicché, se non vi è alcuna tesi, non dico rivoluzionaria, ma neppure aperta ad una prospettiva da parte dell’ormai conformistissimo Partito comunista italiano, non ve ne sono neppure da parte del gruppo socialproletario e dei deputati del Manifesto.

Con questo, onorevoli colleghi, ho esaurito la parte critica della mia esposizione, e sarò estremamente conciso nel riferirmi alla parte positiva perché, signor Presidente, ho compiuto almeno in parte il mio dovere attraverso la relazione scritta, che ho affidato alla cortese lettura del signor ministro e dei colleghi.

Circa la parte positiva, vorrei semplicemente limitarmi ad alcuni concetti. In primo luogo, vorrei rivendicare di fronte a tutta la Camera, quali che siano le opinioni di ciascuno perché se si distorce l’uso del vocabolario diventano impossibili il colloquio, la dialettica, e persino la polemica il corretto uso del termine «corporativo». I colleghi di tutte le parti politiche, da quella comunista fino a quella liberale, hanno infarcito i loro discorsi con uno scorretto uso di questo termine (e dico scorretto riferendomi soltanto all’uso del vocabolario). Lo ha fatto anch’ella, signor ministro, e non gliene faccio un addebito, perché questa è la moda corrente: però vorrei spiegare qual è il valore che tutti attribuiamo a questo termine, perché ci si possa capire. Tutti i colleghi hanno continuato ad usare questa parola nel senso esattamente opposto a quello che essa vuole avere, anche in senso storico (ed ai colleghi di parte democristiana il senso storico del termine «corporativo» non dovrebbe sfuggire); voi attribuite cioè al termine «corporativo» il significato di «settoriale», mentre esso ha un significato esattamente opposto, perché vuol dire superamento del settorialismo. È un’accezione politicamente non favorevole alle nostre tesi (ma io non mi sogno neppure di sollecitare da voi una interpretazione favorevole alle nostre tesi). Questa parola vuol dire, per lo meno, «coordinamento degli interessi settoriali», per l’appunto nel senso di capacità di articolare quello che è disarticolato, di mettere ordine in quello che è disordinato, ed anche di reprimere quelle spinte che potessero essere turbative dell’ordine e dell’armonia dell’intero sistema. Ordine corporativo significa questo; e badi, signor ministro, che io non sono polemico in questa parte della mia molto polemica esposizione, perché non sto facendo la difesa del sistema corporativo quale fu: non mi sogno di farla, non la farei, e non la sto facendo neppure in pubblici comizi perché ritengo che il sistema corporativo quale fu nel ventennio non abbia attuato se non in parte quella che era e rimane l’originaria ispirazione corporativa. Mi riferisco qui all’originaria ispirazione corporativa, che non ha i suoi testi ed i suoi autori soltanto in quella parte di tradizione nazionale che ci viene attribuita, ma anche in una parte di tradizione nazionale, culturale e sociale che voi democristiani vi attribuite normalmente. Io penso che la citazione della Rerum novarum sia d’obbligo quando si usano termini del genere e che il ricordo della scuola corporativa cattolica di Malines non sia sgradito anche ai più avanzati tra i portatori delle tradizioni cattoliche. Quando noi parliamo di concezione corporativa ci riferiamo, dal punto di vista tradizionale, a tutto il grande e glorioso filone corporativo, che dalla Rerum novarum è arrivato, attraverso il sindacalismo nazionale, fino alle espressioni corporative dello Stato, sia pure parzialmente o malamente attuate, e che continua con la nostra battaglia. Quando, riferendomi alla scuola, io parlo di ordine corporativo voglio attribuire un senso morale a quel termine di partecipazione che avete adottato voi e che abbiamo adottato anche noi, e che deve costituire uno dei cardini delle impostazioni positive più nobili e pregnanti di una riforma universitaria. Partecipazione sì, ma partecipazione con ispirazione corporativa, cioè antisettoriale, partecipazione al di sopra dei settori, con una forza coordinante ed armonizzante che ristabilisca nella scuola il rapporto umano tra docente e discente. Ecco la partecipazione corporativa nella scuola; non soltanto la partecipazione numerica e quantitativa, e tanto meno la partecipazione conflittuale e rissosa degli studenti da un lato, dei docenti dall’altro, del personale amministrativo, o di tutti insieme, in «parlamentini» che trasformino la partecipazione in una continua dissociazione. No: se la partecipazione deve diventare associazione di responsabilità, è una ispirazione corporativa vi piaccia o no che la deve muovere, spingere, stimolare e sollecitare. Questo è uno dei nostri concetti di fondo.

L’altro concetto di fondo è quello selettivo, che ci permette di superare agevolmente le apparenti contraddizioni tra scuola di massa e scuola di élite, che ci permette di dire che siamo favorevoli come dobbiamo essere civilmente favorevoli ad una scuola e ad una università aperte davvero a tutti, in grado di mettere tutti i giovani capaci e meritevoli (e il «capaci e meritevoli» sia costituzionalmente interpretato nella maniera più giusta) al riparo da ogni discriminazione di qualunque specie, da ogni discriminazione di casta, di classe o politica. La scuola deve mettere davvero tutti i giovani meritevoli e capaci nella condizione di accedere fino al più alto vertice della scienza e della cultura o, comunque, fino al più alto vertice degli studi. Non si può non essere civilmente favorevoli a un simile tipo di scuola; ma quanto più si è favorevoli ad una scuola aperta, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola selettiva, nel significato morale e spirituale che abbiamo detto; quanto più si è favorevoli ad una scuola non discriminante, dal punto di vista materiale, tanto più si deve essere favorevoli ad una scuola capace di discriminare nel senso dei valori spirituali. Giacché la vita è selezione di valori, che si debbono affermare dalla base al vertice; non debbono esservi ostacoli di diritto o di fatto. Vi sono i naturali ostacoli che Iddio ha posto fra uomo e uomo, non rendendoci tutti capaci delle stesse imprese né capaci di imprimere a noi stessi la medesima formazione culturale, il medesimo impeto di dottrine e di insegnamenti.

Ecco: una scuola basata sulla partecipazione corporativa, sulla selezione dei valori, è una scuola attrezzata tecnicamente a imprese del genere. Mi rendo perfettamente conto che è molto facile (come avrà ragione di rispondere l’onorevole ministro) da parte di un gruppo di opposizione chiedere che l’università italiana venga rapidamente attrezzata, per poter essere davvero aperta a tutti, selettrice onesta e seria di tutti i valori, capace di dispensare titoli che non siano pezzi di carta, e inserita nella società. Ma questo è il più alto compito sociale che l’ attuale regime (lo dico fuori da ogni polemica), ossia che tutti noi insieme partiti di governo e partiti di opposizione possiamo avere. Non c’è legge più importante di questa, perché non c’è legge che più di questa guardi verso il futuro. Noi siamo responsabili adesso non dell’ordinamento universitario dell’anno prossimo o dei prossimi anni (sicché è veramente assurda la fretta di alcuni settori). Noi siamo responsabili in questo momento verso le generazioni che verranno, noi creiamo in questo momento, o distruggiamo, la possibilità per l’Italia di avere una classe dirigente a livello culturale e quindi a livello politico; se non vogliamo stabilire diaframmi fra cultura e politica, se non vogliamo cacciare di qui i docenti cacciando, in sostanza, anche l’intelligenza, la cultura, la capacità dall’università italiana, noi dobbiamo legiferare in prospettiva. E allora i mezzi occorre che si trovino. Non voglio essere né polemico né irriguardoso a questo proposito, non voglio dire donde si potrebbero trarre i mezzi, da quali settori del sistema si potrebbero trarre in abbondanza i mezzi per far funzionare tecnicamente una rinnovata università italiana. Voi sapete che abbiamo ragione quando diciamo che i mezzi si possono reperire, che i mezzi si debbono reperire, e che gli strumenti debbono esservi. E allora, una scuola a larga partecipazione corporativa nel senso che mi sono permesso di restituire a questo termine, pulendolo da viete polemiche di parte; una scuola selettiva, una scuola tecnicamente attrezzata, ecco il disegno dell’università al quale noi guardiamo. E soprattutto una scuola che moralmente riceva l’esempio dalla classe dirigente del nostro paese.

Ho sentito con commozione dal collega liberale, onorevole Mazzarino, che mi ha preceduto, citare parecchie volte il nome di Francesco De Sanctis e mi permetto al riguardo, signor ministro, di ricordarle cose che certamente ella sa, ma che è bello ricordare a noi stessi nel momento in cui ci accingiamo a continuare, nell’esame degli articoli, il dibattito su questa legge. Mi permetto di ricordare a me stesso un episodio illuminante del nostro Risorgimento, quando Francesco De Sanctis, appena uscito dalle carceri borboniche, non riusciva a trovare in alcuna parte d’Italia cattedra dalla quale insegnare. Egli andò a Torino, ma non perché il governo piemontese avesse avuto il coraggio di assumere il professor De Sanctis patriota, ma perché gli studenti dall’ateneo di Torino si quotarono per pagare essi lo stipendio al professore De Sanctis. Nacquero da quell’incontro tra docente e discenti le miraboli lezioni del De Sanctis sull’Inferno di Dante. Mi si dirà: sarebbero nate ugualmente. Io non lo so. Ho la sensazione che quelle pagine siano scaturite così mirabili le più alte pagine della critica letteraria italiana proprio da un incontro morale, prima ancora che culturale, tra il docente che sapeva di essere amato oltre che capito, stimato e apprezzato dai discenti, e i discenti che vedevano nel docente il maestro.Auguriamo all’università italiana un simile destino, ma per poterlo augurare all’ università italiana auguriamo allo Stato italiano.”