PER NON DIMENTICARE

FARE OPPOSIZIONE ESSERE ALTERNATIVA

Il Caso talvolta é più perfido degli Uomini.

I 75 anni dalla fondazione del Movimento sociale sono arrivati mentre si consumava lo spettacolo della elezione del presidente della Repubblica: teatro dell’assurdo? commedia dell’arte? tragedia? avanspettacolo? opera dei pupi? farsa? gioco di ruolo? pochade? sceneggiata? commedia? oppure soltanto dramma storico?

Abbiamo assistito al fallimento (1) dei partiti, divenuti ormai tempio supremo della incapacità, della inaffidabilità e della non rappresentatività del corpo vivo della Nazione, i cittadini-elettori.

Abbiamo preso atto che questa politica resta commissariata a vantaggio di una oligarchia tecnocratica che fonda la propria illegittima egemonia non sul consenso ma sui gruppi di potere senza volto che affollano l’Unione europea e non solo.

Abbiamo capito che il ricorso al voto continua ad essere rinviato per non disturbare chi ci comanda.

Abbiamo poi registrato la fine del centrodestra, un’alleanza che da politica era diventata solo elettorale e che per la verità portava da sempre dentro di sé l’equivoco mai chiarito tra chi, moderato, concepisce i sovranisti solamente come portatori di voti e chi, sovranista, smania spasmodicamente per farsi accettare a qualunque costo nei salotti buoni della politica.

E gli italiani? Fuori dai giochi, fuori dal Palazzo.

Quello che è avvenuto è una pagina di Storia contemporanea che nessun libro di fantapolitica aveva potuto prevedere. Gli storici futuri lo racconteranno per quello che è: il Titanic della partitocrazia italiana.

E’ collassata la democrazia-parlamentare e, insieme, è fallita la “marcia verso il centro” intrapresa dalla destra (2).

Per capirlo fino in fondo ci soccorre proprio il 75mo anniversario di una forza politica che sin dal suo primo documento (il Decalogo) e per tutta la sua esistenza non si stancò mai di predicare e di motivare, non solo politicamente ma culturalmente e giuridicamente, una radicale riforma della Costituzione che coinvolgesse il Paese reale con la elezione diretta del Capo dello Stato.

A dire più o meno le stesse cose sin dalla Costituente (prima quindi della fondazione del Msi) si levarono le autorevoli voci di Valiani, Mortati, Codacci Pisanelli, Orlando, Bozzi e Calamandrei (3) ma anche negli anni successivi quelle di Maranini, Pacciardi, De Stefanis, Crisafulli, Ciccardini, Giannini, Miglio, Craxi, Labriola, Baldassarre e tanti altri ancora.

Fare ricorso alla volontà popolare era ed è un altissimo atto di democrazia praticata, e non solo proclamata, che non scavalca la legittimità dell’azione dei partiti fondata peraltro su un voto di tutt’altro tipo, politico.

Ma era ed è anche un modo, costituzionalmente ineccepibile, per “far presto”, cioè per evitare la pratica mortifera dei compromessi, delle trappole, degli agguati, delle pugnalate alle spalle, delle impasses imposte dalle giravolte, in un parola dei trasformismi dei quali in effetti sarebbe stata costellata gran parte della nostra vita politica con il conseguente progressivo logoramento della politica senza la P maiuscola.

Non una furbesca e sterile scorciatoia insomma, ma un adeguamento effettivo alla velocità odierna dei tempi decisionali con cui gestire meglio e meglio risolvere le molteplici e crescenti problematiche che arrivano sul tavolo di chi comanda.

Ma questa proposta missina era anche il primo passo di una organica riforma della Carta costituzionale di cui non soltanto il Movimento sociale italiano avvertiva la necessità.

Montanelli, il moderato Montanelli, il conservatore Montanelli, il liberale Montanelli scrisse un editoriale che fu ad un tempo l’epitaffio del Sistema ma anche un urlo a cambiare tutto pur di salvare l’Italia (4).

Quella che si auspicava era (e sarebbe ancor oggi) una riforma organica del Sistema fondata sull’elezione popolare del Capo dello Stato e sull’inserimento nel Parlamento, al fianco dei partiti, delle competenze tecniche assicurate dai rappresentanti delle categorie, dei mestieri, delle professioni, insomma della produzione e dai prescelti del mondo dei saperi, arte, scienza, cultura. Insomma tutto quel bagaglio di capacità e di esperienze che la democrazia-parlamentare non potrà mai garantire e infatti non ha mai garantito.

Selezioni dal basso e non nomine dall’alto, ovviamente.

In poche parole si chiedeva di riformare il Sistema prendendone di petto la  fisionomia istituzionale.

E oggi che la necessità assoluta di una riforma (quantomeno) del modo di elezione del Capo dello Stato è diventata tema non teorico né dilazionabile ma concreto e urgente di qualunque politica nuova, il confronto con chi, con lungimiranza innegabile, sollevò queste questioni e avanzò queste proposte innovative diventa quantomeno opportuno, meglio: necessario. Basta leggere la Relazione d’accompagnamento del ddl 703 presentata durante la 17ma Legislatura per rendersi conto del fruttuoso cammino fatto su queste tematiche dalle sensibilità più riformatrici della politica nazionale.

E’ un cammino da riprendere e da concludere.

L’alternativa a una grande iniziativa riformatrice come questa  è il “declino senza cambiamento” (5).

L’occasione oggi c’è tutta. Chi di dovere la colga.

Ma chi di dovere colga anche ciò che insegna l’altro fallimento: la sterile rincorsa della destra all’ambiguo e scivoloso moderatismo dei centristi.

Per capire chi sono “i moderati” basterebbe rileggere Abel Bonnard e farne tesoro.

I rappresentanti di questi “moderati” sono oggi gli artefici principali di quel che è avvenuto e del “come” è avvenuto. Ci hanno messo la firma.

Ora si accingono a veleggiare verso il Grande Centro, verso questo Mar dei Sargassi della politica nostrana nel quale da anni trovano posto, aggrovigliati gli uni sugli altri, tutti i rottami degli equivoci, dei trasformismi e dei fallimenti della Nuova Italietta.

Sia chiaro: questi “moderati” non sono traditori. Tradire è un atto legato alla morale. E se la Morale non appartiene alla Politica, figuriamoci se la Morale appartiene al Trasformismo, il cui Tempio è da sempre assiduamente frequentato appunto da moderati, centristi e liberal-conservatori.

Questi moderati sono parte essenziale di un Sistema che non può essere ridotto a sola ingegneria costituzionale ma è soprattutto un modo, uno stile, una grande melassa nella quale banche, media, partiti, multinazionali, Episcopato modernista, finanza mondiale, ong, think-thank, Servizi segreti deviati, Club esclusivi gonfi di capitali e senza bandiere tirano le fila del mondo e quindi anche della nostra malconcia Penisola. Questi moderati parlano lo stesso linguaggio degli altri. Hanno in mente gli stessi modelli degli altri. Seguono gli stessi codici comportamentali, gli stessi riflessi pavloviani, gli stessi tabù. Solo con gli altri sono a loro agio.

Per il Quirinale questi moderati hanno semplicemente esercitato il diritto-dovere di cambiare strada in barba agli accordi presi con una destra che non serviva più.

A questi moderati non importava dove avrebbe portato la strada nuova. Né con chi sarebbe stata percorsa. L’importante era che a intraprenderla si fosse comunque in tanti, e pure appassionatamente.

La coerenza? Che c’entra la coerenza? Roba fuori moda, ci hanno detto.

Per tutti, traditori e traditi, c’entra invece la spasmodica necessità di essere gente di Governo a qualunque costo, frequentatori entusiasti, ancorchè non à la page, delle stanze dei bottoni nella illusione di essere disinvolti (magari più degli altri) nel maneggiare le leve del potere. Obiettivo: per i traditi non essere più i paria di questa Repubblica che peraltro non li ha mai chiamati “figli”; per i traditori restare a galla abbarbicati a qualunque ciambella di salvataggio che passa.

E il popolo? il Paese reale? la società civile?

Alla finestra, ad assistere allo spettacolo.

La società civile è da parecchio tempo aggredita da una progressiva radicalizzazione dei problemi, in particolare di quelli sociali, e da un progressivo malfunzionamento della macchina istituzionale preposta a risolverli. E’ una fase tutt’altro che prossima a chiudersi.

Per fronteggiarla occorrono coraggiose misure radicali, non già misure moderate, pannicelli caldi, insipida acqua calda.

Sul fronte sociale e su quello istituzionale occorre fare scelte parimenti forti, organiche, che abbiano come obiettivo il bene supremo del nostro Paese e non il tornaconto di quei gruppi di potere. Occorre un colpo d’ala che può venire solo da una risposta all’altezza delle domande drammatiche che salgono ogni giorno dalla società civile.

E’ qui, su questa nuova identificazione tra Paese legale e Paese reale che si gioca il futuro prossimo e che può scaturire la grande novità politica che tutti cercano e che nessuno trova in questo Sistema bloccato e logoro.

E’ roba da moderati, da liberali, da conservatori? C’è davvero chi crede che da costoro possano pervenire le giuste risposte alla crisi istituzionale e a quella sociale?

Le risposte giuste non stanno da quelle parti.

Stanno altrove.

Stanno nelle radici ideali che quel partito non rescisse mai, stanno proprio in quella coerenza che consentì a quel partito “fuori della Storia” di durare mezzo secolo contro tutto e contro tutti e di seminare idee, di elaborare tesi, di creare suggestioni ideali e programmatiche, di contare nel Palazzo perché contava nel Paese.

Senza mai restaurare e senza mai rinnegare.

Oggi é il tempo delle idee e delle proposte che scaturiscono da quella Storia onorevole e affidabile senza la quale nessuno, ma proprio nessuno, starebbe dove oggi sta.

Occorre darsi coraggio e innalzare l’Identità come una bandiera. Senza ascoltare le sirene di chi ti consiglia di continuare sulla strada franata.

E’ ora di cambiarla, quella strada.

E’ ora di fare opposizione. E di essere alternativa.

Massimo Magliaro

Nova Historica. I 75 anni del Msi. Editoriale sul Quirinale

 

Note

 

  • (1) Perfino Guido Melis sul it del 30 gennaio 2022 ha parlato di “classe politica fallimentare”.
  • (2) Andrea Ungari, “La marcia verso il centro e la prospettiva di una destra moderata”, relazione presentata al Convegno di studio su “Antagonismo e riformismo a destra e a sinistra. Miti, politica e cultura nella società italiana dalla guerra al centrosinistra” organizzato a Roma dall’Istituto di studi sulla storia contemporanea (13-14 dicembre 2002) e pubblicato su Ventesimo Secolo vol. 4, n. 7, aprile 2005.
  • (3) In particolare l’intervento di Calamandrei nella seduta dell’Assemblea costituentedel 6 settembre 1946.
  • (4) Indro Montanelli, “Un morto tra noi”, editoriale del Giornale nuovo del 4 dicembre 1982: “L’attuale sistema basato sulla partitocrazia è cotto e da esso non possiamo aspettarci più nulla”; “La Costituzione non è soltanto invecchiata, ma anche sbagliata”; “Se non ci decidiamo a seppellire il cadavere di questo regime fallito, diventerà aria appestata”.
  • (5) Carlo Ferruccio Ferrajoli su Costituzionalismo.it fascicolo 1, 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mistero buffo del Quirinale

Ad avercelo un Re, ci saremmo risparmiati questa lunghissima e indecorosa sceneggiata su chi mandare al Quirinale oggi, per sette anni. Un sovrano ereditato dalla storia, magari addobbato nei sacri paramenti di Sovrano “per grazia di Dio e volontà della Nazione”, ben sapendo che né l’Uno né l’altra si erano mai pronunciati in merito. Ma quella fictio fu la formula vincente per insediare i Savoia. Però da un pezzo i Re non si usano più, gli ultimi superstiti in Europa vengono massacrati; da noi regnano nei gossip e nei reality, ma nessuna corona, oltre quella virale, cinge la testa di Scipio.

Ci vorrebbe una donna, dicono quelli che scelgono i presidenti per generi o per categorie. Non c’è mai stata, è ora di riparare all’ingiustizia. Giusto, perché no? Ma se è per questo, visto che non c’è mai stato, perché non un Presidente disabile, un Presidente nero, un Presidente gay, trans, rom o virologo?

Anzi, visto che si invoca chi non c’è mai stato al Quirinale, per riparare all’ingiustizia, vi dirò che la Capitale, la Città Eterna, il Centro dell’Impero, non ha mai espresso un Capo dello Stato. Non solo neanche un presidente, manco un Re. Se i primi Re furono inevitabilmente piemontesi, almeno Vittorio Emanuele III, nel suo piccolo, avrebbe potuto nascere romano, perché ormai la Dinastia si era insediata a Roma. E invece manco lui, perché nacque a Napoli; e la sorte alla fine si vendicò condannandolo a dimezzare il suo reame con il Regno del sud e poi alla fuga dal sud, da Brindisi.

Ma se non abbiamo mai avuto un Re romano, forse per rispetto o per dispetto a Santa Romana Chiesa, non abbiamo avuto nemmeno un Presidente della Repubblica dalla Capitale Morale del Paese: mai un Capo dello Stato milanese. Ué, ma che vergogna. E non solo: non so per quale misterioso sortilegio ma i presidenti della Repubblica vengono tutti dall’Italia occidentale, versante tirrenico. Pensateci: i tredici presidenti sono tutti piemontesi, sardi, liguri, toscani, napoletani, siciliani. Mai un presidente dall’Italia orientale, o adriatica, mai un veneto, un pugliese, ma nemmeno un emiliano, un romagnolo, e via dicendo. Strana quest’Italia con l’emiparesi, sfacciatamente sbilanciata verso Occidente. A voler essere “storici creativi” forse una ragione c’è: il Risorgimento, se ci pensate, fu fatto soprattutto sul versante occidentale. I Re venivano dal Piemonte o dal Regno di Sardegna, i Mille s’imbarcarono in Liguria, attraversarono il Tirreno e sbarcarono in Sicilia, risalendo poi il versante occidentale, gli Stati più significativi del tempo, erano a Napoli e Palermo, a Torino. L’Italia fu simbolicamente cucita a Teano. Le capitali furono Torino e Firenze e infine Roma. Insomma, noi dell’Italia orientale siamo stati sudditi, senza mai la soddisfazione di avere un homo adriaticus al Colle; e noi cittadini romani pure. Ma forse è solo un caso, o magari la storia si prende gioco degli umani, li usa come burattini, dà loro l’illusione di decidere chi mandare al Quirinale e invece poi sceglie sempre da quella parte sulla base di imperscrutabili disegni geo-metafisici. I dietrologi diranno invece che la roulette è truccata, escono sempre quelli di un versante, è un complotto. Ma non si capisce la ratio, tantomeno la convenienza, e di chi. Dunque, è solo uno scherzo del destino.

Insomma, avrà pure ragione chi vorrebbe ora una donna al Quirinale non foss’altro che per dare riconoscimento all’altra metà del cielo; ma anche l’altra metà d’Italia aspetta invano il suo Capo dello Stato, perché è stanca di essere solo la coda.

Aggiungo pure un’altra particolarità: benché avanti negli anni, nessun presidente della repubblica è mai deceduto mentre era in carica. Eppure tanti ottantenni, così sovraffaticati, per sette lunghi anni… Anzi, figure tramortire e piegate dagli anni, che sembravano ormai destinate a una scialba decadenza, sono come ringalluzzite andando al Quirinale, sin nel portamento. Dicono che la carica sprigioni a sua volta una carica vitale, sia una specie di gerovital istituzionale; non so che vitamina trasmettano i corazzieri, ma inguaiati vecchiarelli sono diventati improvvisamente arzilli al Quirinale: anche gli ultimi, Napolitano e Mattarella, sono usciti dal Quirinale più vispi e meno accasciati di come sono entrati (a proposito visto che volete mantenere gli assetti e Mattarella non ci sta a una proroga a tempo, fino al ’23, perché non riprovate col terzo mandato a Napolitano?). Un paio di presidenti sono stati pure dimissionari, o in qualche modo indotti alle dimissioni, vale a dire Antonio Segni e Giovanni Leone, ma benché bersagliati dalla malasuerte, sono morti alcuni anni dopo, ormai lontani dal Quirinale. L’immunità quirinalizia, benchè interrotta, li ha tenuti in vita.

Gli stessi frequentatori di Berlusconi assicurano che il Cavaliere versava da anni tra malattie, ospedali e perdita di lucidità; ma si era come risvegliato e risanato in vista della sua battaglia per il Quirinale.

Insomma, il Quirinale è un mistero buffo, tra disparità geografiche e discriminazioni territoriali, ripercussioni biologiche e mutazioni antropologiche. Oggi si vota e bisogna fare in fretta per evitare una pericolosa vacatio capitis: non perché il 3 scada Mattarella ma perché l’Italia non può essere priva di Presidente mentre si celebra il Festival di Sanremo.

Marcello Veneziani , La Verità (23 gennaio 2022)

Lasciateci stare, abbiamo già dato.

Gli auguri di buon compleanno non si negano a nessuno e bene ha fatto, Francesco Storace, nel porgere il proprio augurio a Gianfranco Fini. Magari si sarebbe potuto risparmiare quell’invocazione rivolta come se, Fini, fosse un santino da rivolgere la preghierina del mattino: magari, tornasse!
Impressione di chi scrive che abbia sbagliato la declinazione del verbo, usando il singolare, conoscendo il soggetto ben più attinente sarebbe stato l’uso del plurale: tornassimo. Per l’amore del Cielo, liberissimi di farlo! Ma stavolta abbiate la compiacenza di lasciarci stare, noi militanti intendo, ci avete già ingannati fin troppo.
A Francesco Storace, pur tuttavia, riconosco la sua coerenza con i suoi entro, esco, rompo; rientro, riesco, rirompo. Una girandola da fare impallidire pure la pallina del tavolo verde di un casinò, tra nuovi partiti ed alleanze nate e distrutte nel giro di un amen, tra personaggi dapprima esaltati per poi vilipendere con la stessa velocità olimpica di Marcel Jacobs. Chiedere ad Adriana Poli Bortone, per esempio, oppure alla stessa Giorgia Meloni e… perché no? Pure a Gianni Alemanno. Questo Penelope de noantri in attesa del suo Ulisse, tra una tela e l’altra, è stato capace di suicidare i proci attorno. Che non eravamo proci, ma militanti creduloni per i quali bastava dare in pasto quattro parole sparate al microfono, valori/appartenenza/Patria/tradizioni et voilà: il giochino era fatto. Quel “maiale, sei un maiale!” Rivolto a Gianfranco Fini, nel pensarci oggi, fu un buon tornaconto. Due lustri dopo ne invoca il ritorno. Chapeau! Alla non coerenza, intendo.
@gianfranco_fini: Voglio ricordare che l’Msi era sì e no al il 3% io portai AN al 16%. Per questo non accetto che mi si dica che ho distrutto la destra.
Questo che avete appena letto è un cinguettio di Fini di qualche anno fa, su Twitter, 6 per l’esattezza. Twitter è il noto social capace di mettere alla prova di grammatica i cibernauti costringendoli, in soli 164 caratteri, ad esprimere un’opinione di senso compiuto. A qualcuno riesce e pure bene ma per altri, ahimè, il risultato è un post incomprensibile. Oppure una cazzata, come nel caso di Gianfranco Fini. Al di là di un’espressione non propriamente figlia di Dante -che mi si dica che- è roba da terza elementare e per lo più con un verbo al presente indicativo, da 2 sottolineato di blu. Riflettendo, il problema, è di natura ben diversa di un post sgrammaticato, evidentemente lo ex leader conta sul fatto che a destra abbiamo poca memoria e che oramai, da ingenui qual siamo, lasciamo correre come se nulla fosse. Non tutti, Gianfranco Fini, diversamente sono sempre un missino che scrive MSI usando la maiuscola e tenendo pure una memoria di ferro. Se nel sacco dei tuoi soprusi tengo ancora il nome di Beppe Niccolai, cacciato dal partito accampando una ragione assurda, quest’ultima boutade la ritengo un affronto alla storia missina ed a Giorgio Almirante stesso. Difenditi come meglio credi, Gianfranco Fini, ne è tuo diritto ma lascia stare il il MSI. Lascia stare la nostra storia, per favore. Non starò qui a ricordare le tue malefatte, me ne guarderò bene di citare AN così come la creasti (fu tutto merito tuo?) altrettanto la distruggesti, in nome di un disegno ai noi militanti oscuro. Fuori dai denti, Gianfranco, non l’ho con te per il “tradimento” al cavaliere, m’importa assai direbbero dalle mie parti; non l’ho con te per il Muro del Pianto per il quale, sinceramente, apprezzai il gesto esclamando pure un: finalmente! Non l’ho nemmeno con te per la frase del “male assoluto”, poiché ambedue conosciamo la storia e spero che tu almeno distingua, il ventennio, tra Farinacci e Giovanni Gentile. Magari avresti potuto precisare, ma tant’è… L’ho con te, e pure tanto, per aver condotto i militanti al liberismo disperdendo il valore sociale che fu la nostra essenza. Ti rivelo un piccolo segreto, questo: mio padre fu il primo segretario del MSI a Pisa, portava un cognome diverso dal mio ma la cosa non è importante, per comprare i mobili per la Federazione (allora si chiamavano così, ricordi? Non ci vergognavamo dell’appartenenza allora e neppure oggi, almeno noi militanti) firmò un pacco di cambiali ad un certo Serra, un mobiliere pisano di quel tempo. Le onorò tutte, da persona seria quale fu, da buon missino ligio al dovere. Teoricamente, quella mobilia, è stata venduta tramite aziende off shore 60 anni dopo. So benissimo la cosa non ti riguardi e chiedo venia per me, uomo comune e militante, però è dura a comprendere ancora oggi l’affaire della casa di Montecarlo. Lo ritengo un tradimento a mio Padre ed a tutti quelli come lui. Comprendimi, sono una persona di destra sociale, un missino, una persona seria.
Al proposito, il MSI era al 6%, e non al 3, nelle ultime elezioni (regionali) dell’era Almirante. La prossima volta lascia stare il MSI e la sua storia gloriosa, racchiusa nel cuore di tutti noi.
Adesso, cari Gianfranco e Francesco, fate pure quel che vi pare, è nel vostro diritto, ma vi chiedo di lasciarci in pace. Noi militanti abbiamo già fin troppo dato, per voi. Preferiamo restare degli orfani politici, grazie a voi.
Riposa in pace, Giorgio Almirante.

Marco Vannucci

La lettera. L’abbaglio di Scanzi su Almirante

Il giornalista toscano descrive il leader del Msi come “un criminale”. Ma gli addebiti non tornano…

Marino Pagano su Barbadillo.it  03/01/2022

Un bel tipo questo Andrea Scanzi. Ah, premessa. Il suddetto ama il suo ego in senso proverbiale, così proverbiale che si fa fatica a trovare esempi simili a lui. E dunque: nessuna volontà di promozione da parte nostra, giacché solo quella egli va cercando, da pura star del nulla cosmico e catodico. Né sta a noi scrivere la sua fenomenologia, materia che volentieri lasciamo agli esperti sulle personalità. E allora. Succede che leggendo il suo libro -sì, per lavoro si fa anche questo- scopri davvero delle belle -si fa per dire-. Eccoci a pagina 152. All’interno di uno dei suoi soliti discorsetti faziosi, cita Giorgio Almirante, tra i politici più importanti della storia repubblicana, segretario del Movimento Sociale Italiano, definito tout court “criminale fascista”. Espressione indubbiamente forte, c’è tuttavia di più e di peggio. Almirante, sempre nella stessa pagina, diventa “responsabile in prima persona di rastrellamenti e deportazioni di ebrei”. E ti chiedi se il tipo di cui sopra ci sia o ci faccia. Soprattutto, se sia d’accordo non con un altro tipo ma col tipo in questione medesimo, ossia con Scanzi stesso. Fu infatti proprio lui, nel libro “La politica è una cosa seria” (Rizzoli, 2019), riferendosi ai funerali di Berlinguer e alla famosa visita del leader del Msi al feretro del capo del Pci, a scrivere: “Tra quel milione di persone c’era anche Giorgio Almirante, perché tra avversari ci si stima. Quando c’è motivo di stimarsi”. 

È sempre Scanzi, bellezza. Oppure lo Scanzi quando gli gira (quasi) bene. 

Ora, diteci voi, di grazia, se Berlinguer poteva mai stimare un autore di “rastrellamenti” verso ebrei? Che è poi espressione abnorme, senza filtro storico (storiografico men che meno, figurarsi). Un qualcosa, quantomeno, di non direttamente noto agli storici. Inutile qui stare a recuperare le vecchie polemiche ideologiche, gli scontri anni ’70 attorno ad un celebre manifesto afferente al periodo della guerra civile tra italiani, periodo drammatico e tragico oltre misura, frangente che con grande intelligenza l’Italia postbellica, quella seria, seppe mettersi subito alle spalle. Dice nulla l’amnistia voluta dall’allora guardasigilli Togliatti? Palmiro Togliatti, chiaro? Un mettersi alle spalle non certo per dimenticare. Ma per andare avanti come Paese. Il tutto pochissimo tempo dopo quei drammi, col sangue ancora vivo. Ed oggi? Oggi che succede? Oggi arriva Scanzi e scrive assurdità senza un minimo costrutto storico. Segno di quanto ci si stia incattivendo. Difficilmente, un decennio o un ventennio fa, avrebbe avuto cittadinanza un ‘pensiero’ così. Era il tempo dei Violante e dei Ciampi. Tentata pacificazione nazionale. Dopo quei tempi il buio e gli Scanzi avvelenatori di pozzi. Oltre che abili nel portare indietro le lancette della storia. Chissà se Scanzi sa -e lo sa-  che il suo ex direttore del Fatto Quotidiano Antonio Padellaro, sulla stima tra Berlinguer ed Almirante, ci ha addirittura scritto un libro, prendendo anche più volte posizioni favorevoli e positive, come sguardo storico, rispetto alla figura di Almirante, pur nel netto distinguo delle parti. Almirante leader democratico di una destra che, in quanto presente in Parlamento come espressione della volontà degli elettori, era precisa parte, di sicuro minoritaria, di quella stessa democrazia. Questo lo sapeva Berlinguer e lo sa Padellaro. Scanzi professa invece l’odio per l’odio. 

Tra l’altro, una frase su Almirante -in un libro che di passaggi discutibili ne contiene non pochi- che, per quanto scarsa fiducia si nutra nelle qualità raziocinanti del suo autore, davvero facciamo fatica a spiegarci. Ma lo diamo ancora un senso alle parole o no? Non sono forse “importanti” le parole, come disse un regista probabilmente caro a Scanzi (e pure a noi, quando dismette gli abiti fanatici)? Almirante è stato, certo, il segretario di redazione della rivista La Difesa della Razza; è stato anche capo di gabinetto del ministro Rsi alla Cultura Popolare Ferdinando Mezzasoma e responsabile della comunicazione; ha sicuramente scritto pensieri razzisti su quel giornale (come tanti, tantissimi futuri antifascisti, su altre riviste: i nomi per questa volta ve li risparmiamo) ma su quali basi possa dirsi, senza vergogna, quel che Scanzi ha detto non è dato sapere. “Rastrellamenti di ebrei”! Dove, come, quando? Almirante, piuttosto, come riportano tutte le biografie a lui dedicate (e sono molte, alcune anche legittimamente critiche), salvò personalmente un’intera famiglia di ebrei, da sottosegretario del ministro. Era la famiglia Levi, di cui faceva parte un amico di sempre di Almirante: Emanuele Levi. Lo stesso Levi, lo stesso amico che poi, anni dopo, si ricorderà di quel gesto e ‘salverà’ il futuro segretario del Movimento Sociale. Quando nel 2018 l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi negò una strada ad Almirante, tra le tante reazioni, ecco quella di Giuliana De’ Medici, figlia di Giorgio. “Ci sono state tante persone ebree vicine ad Almirante. Lui ha salvato la vita a Emanuele Levi. Lo nascose addirittura a Salò, durante il periodo della Repubblica Sociale, con sua moglie e il suo bambino. Cortesia che gli fu ricambiata a Milano, quando poi Almirante era latitante. Ho qui in casa una dichiarazione in cui sul Monte Sinai sono stati piantati due alberi di olivo in onore di Almirante da una amica ebrea. Quindi dobbiamo stemperare queste cose, sempre con profondo rispetto e grande umiltà nei confronti della Comunità ebraica”. Così la figlia di Almirante. Tutte cose ben note, chi conosce la storia non si inventa nulla. Altri non sappiamo. Intelligenti pauca. Ma poi: intelligenti?! Quanto ottimismo. 

26 dicembre 1946 – 26 dicembre 2021.

Il valore determinante fu l’appartenenza nonchè il dovere morale di dare voce agli inascoltati, quest’ultimi emarginati e bollati con i peggior epiteti possibili; furono mossi pure dal diritto di raccontare la verità scomoda, vedi Giorgio Pisanò; presentandosi uniti dal filo conduttore del disegno sociale e popolare come perno centrale di chi si riconosce nel nostro ideale. Tutto questo, fu. Il verbo al passato remoto, ahimè, calza a pennello: fu. Poi è avvenuta la caduta libera, perdendo la carica morale e la moralità il giorno stesso che gli eletti salirono al Quirinale per formare il primo Governo. Nel frattempo il nostro Simbolo era passato in mani a dir poco ridicole, di una coppia da carro carnevalesco, e per noi militanti calò la vergogna. Quello che fu il MSI era diventato un manipolo di imitatori della dolce vita, in doppiopetto firmato e lontani anni luce dal Popolo e dalle battaglie sociali. Arrivisti in carriera, yuppie del terzo millennio uniti dal coro: avanti, si mangia (il caviale). La fine ingloriosa della CISNAL fu tra i primi mattoni a cadere, poi fu la volta delle Federazioni, della scuola di Montesilvano, del cameratismo, della meritocrazia, dell’aiuto al prossimo. Per buona pace di chi, su qui Valori fondanti, aveva creduto fino alla fine dei sui giorni. Fossero essi sconosciuti Militanti o personaggi come Almirante, Niccolai, Rauti, Buontempo…  Tutto questo fu. Tutto questo è stato. Oggi siamo solo degli orfani politici

Marco Vannucci

I RAGAZZI DEL CICLOSTILE

Pubblichiamo con piacere l’articolo per la Fondazione Giorgio Almirante di Adalberto Baldoni
che illustra il suo recente libro “ I RAGAZZI DEL CICLOSTILE “

Abbiamo detto e scritto più volte che senza radici, ossia senza una propria
storia, un qualsiasi movimento politico nel tempo si inaridisce, perde la
sua identità, i sui valori. Non è più punto di riferimento soprattutto per le
nuove generazioni. Col tempo è destinato a evaporarsi, a morire.
Bene ha fatto quindi Giorgia Meloni, nel corso del suo intervento alla
presentazione del libro “ I ragazzi del ciclostile”, scritto a quattro mani dai
saggisti Adalberto Baldoni e Alessandro Amorese, per la casa editrice
Eclettica, a sottolineare che il simbolo della Fiamma non sarà tolto dall’
emblema di Fratelli d’Italia. Non si può cedere ai ricatti e alle
intimidazioni di certa sinistra e dei poteri forti (partiti e carta stampata) che
hanno definito “fascista” il Msi, fondato nel 1946 da Almirante, Romualdi,
De Marsanich. In nome dell’ antifascismo la sinistra vorrebbe imporre il
“pensiero unico”, il suo. Alla faccia della democrazia.
Il libro di Baldoni e Amorese ripercorre la storia della Giovane Italia, la
più forte organizzazione studentesca di destra che ha dominato nelle scuole
dal 190 al 1971. E’ necessario descriverla.
Nel settembre 1950 a Bologna, la seconda assemblea dei giovani missini
decide, su iniziativa di Bartolomeo Zanenga, che il settore degli studenti
medi sia chiamato Giovane Italia. Era stato Giorgio Pisanò, all’epoca
ispettore dei gruppi giovanili missini della Lombardia e dell’Emilia, a
proporre che i nuclei studenteschi si chiamassero Giovane Italia come a
Milano dove era sorta la prima associazione.
A dicembre una circolare di Cesco Giulio Baghino, responsabile del
Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori del Msi, impartisce nel
merito dettagliate disposizioni. In pochi anni l’ associazione si diffonde
capillarmente in tutte le scuole. Guida le manifestazioni per il ritorno di
Trieste all’Italia, per la difesa dell’Alto Adige contro le ingerenze dell’
Austria, per esprimere solidarietà ai popoli oppressi dal comunismo, si

batte per un’ Europa unita allo scopo di non farla condizionare dagli Stati
Uniti o dall’Unione sovietica. In prima linea con i suoi militanti quando si
tratta di soccorrere e aiutare le popolazioni colpite da calamità naturali,
come nel Polesine, a Firenze e nel Belice.
Può essere considerata un vero e proprio sindacato degli studenti medi
perché fa giungere anche in Parlamento e nelle preposte sedi
istituzionali le esigenze dei giovani, denunciando l’ inadeguatezza delle
strutture scolastiche, soprattutto nel Mezzogiorno, che si manifesta
con evidenza per insufficienza di aule, servizi complementari, (
igienici, sanitari, sociali, sportivi),attrezzature didattiche, scarsità di
insegnanti ).
L’Associazione, come strumento di comunicazione, da subito penetra
nelle scuole con giornaletti d’ istituto e volantini, utilizzando soprattutto il
ciclostile. Non possiede le attrezzature e i fondi a disposizione della
Federazione giovanile comunista che sforna periodicamente giornali e
volantini stampati. Ma negli anni Cinquanta fino a metà anni Sessanta
è il più seguito movimento giovanile tra gli studenti. Precede di quasi
venti anni, forme e metodi di propaganda che saranno usati durante
la contestazione giovanile. Per Giuseppe Tatarella, uno dei più apprezzati
dirigenti dell’ Associazione, il successo della Giovane Italia fu anche
quello di rimanere sganciata dal Msi. Le contrastanti posizioni sulla
contestazione giovanile causeranno la frattura della destra giovanile. Nel
1971 terminerà il brillante percorso dell’ Associazione quando sarà
costituito il Fronte della Gioventù, organismo parallelo al Msi.

Cara figlia mia, non vergognarti di un papà fascista

RIPORTIAMO LA LETTERA CHE SCRISSE MARCELLO VENEZIANI ALLA FIGLIA FEDERICA SU ” LO STATO ” NEL 1998 . PAROLE ANCORA OGGI ATTUALISSIME

«Cara Federica, sei tornata da scuola sconcertata perché la professoressa d’italiano ti ha chiamato in disparte e ti ha detto: hanno scoperto che sei la figlia di…, ne hanno parlato in consiglio d’istituto. Te la faranno pagare. Qui sono tutti dell’altra parrocchia. E l’anno prossimo che vai al liceo, mi raccomando, se ti chiedono se sei figlia di… nega, dì che è un caso di omonimia. Ti possono fare del male. Non dire ai professori né ai compagni di scuola chi è tuo padre… Cara Federica, non so se la tua professoressa abbia esagerato, soffra di mania di persecuzione oppure no. A me sembra impossibile che succedano oggi queste cose. Mi sembra impossibile che in una società liberale e indifferente, cinica e buonista, aperta a ogni diversità, che non crede praticamente in niente, ci sia qualcuno che crede ancora all’esistenza del diavolo di destra. Un male per giunta genetico, razziale, ereditario, se ricade su di te, ignara tredicenne, solo perché sei mia figlia.

Mi hai raccontato che un gruppo di tuoi compagni di scuola ti ha accolto una volta con canti e slogan antifascisti. E mi hai raccontato di un amico che è venuto a trovarti a casa e si è meravigliato di trovare così tanti libri in casa di un “fascista”, e per giunta molti libri su Che Guevara. Non conosceva gli altri autori, ma ce ne sono tanti di tanti diversi orientamenti. Ma a loro avevano raccontato che i fascisti leggono solo le massime di Hitler e in casa non hanno libri, solo manganelli. Per fortuna non hanno scoperto che tuo fratello è nato lo stesso giorno di Mussolini, un segno evidente di neo-fascismo ereditario.

No, Federica, non credere alla tua professoressa e nemmeno ai tuoi compagni. Non devi nascondere di essere mia figlia. Non devi vergognarti di tuo padre. Non solo perché non ci si vergogna mai dei propri padri, dei loro limiti, dei loro errori e della loro povertà. Ma anche perché non hai nulla di cui vergognarti. Devi sapere, Federica, che sarebbe stato assai tanto più facile per tuo padre professare altre idee. Avrebbe avuto la vita più facile se avesse scelto la via opposta. All’università, nei giornali, sui libri, nella vita.

Oggi a te chiedono di buttarla sull’omonimia; ieri a lui, e non solo a lui, chiedevano di firmare gli articoli con lo pseudonimo. Eppure tuo padre non ha mai ucciso, picchiato e minacciato nessuno. Non ha mai impedito a nessuno di esprimere le sue idee. Non ha mai derubato, corrotto e truffato nessuno, semmai ne è stato vittima. Non ha mai discriminato e rifiutato il dialogo con nessuno. Non ha nemmeno solo teorizzato di eliminare gli avversari né ha mai sottoscritto manifesti di cui debba vergognarsi. Non ha cambiato casacca, e nutre le stesse idee che aveva da ragazzo. Non è rimasto imbalsamato ma non è pentito di nulla, non ha dovuto rimangiarsi nulla e si professa “di destra”, per quel che può valere, oggi come allora.

Tuo padre ha creduto in idee che tu potrai liberamente accogliere o rifiutare, ma che hai il dovere di rispettare: perché sono idee e non mazzate, sono pensieri scontati sulla propria pelle e non su quella altrui. Un giorno capirai che l’amore aspro per la libertà, anche trasgressiva, era più dalla parte di tuo padre, “il fascista”, che dei suoi censori. Che gli negavano la libertà d’opinione nel nome della stessa. Alcuni lo fanno ancora adesso. No, Federica, non dire che è un caso di omonimia. Non ti chiedo di essere orgogliosa di tuo padre, ma di non nascondere le tue origini. Oltretutto un po’ mi somigli, anche se la cosa ti fa inorridire. Non ci si deve vergognare dei propri padri».

P.s. Smettetela di tirare in ballo per ogni fesseria e per ogni torto subìto fascismi, dittature, colpi di stato. Non confondete miserabili farse con tragiche grandezze e meschine intolleranze con l’avvento di regimi dispotici. Abbiate rispetto per la storia, per chi la fece e per chi la patì. E la Bignardi si ricordi, essere figli di fascisti non è una scelta, mentre diventare nuore di Sofri sì. E poi, al di là di quel che dite, essere fascisti non è un crimine, uccidere un commissario di polizia invece sì.

LA DESTRA ITALIANA SIA SEMPRE GRATA AD ALMIRANTE.

Intitolare un circolo di Fratelli d’Italia all’onorevole Giorgio Almirante è un atto di rispetto e di amore nei confronti di uno dei padri della destra italiana; un atto che deve essere costante non solo a parole ma soprattutto con i fatti. FdI è l’erede del Movimento Sociale Italiano e della ‘fiamma tricolore’ che, non a caso, compare sul simbolo del nostro partito e che, in passato, era già presente sia in Alleanza Nazionale sia nel MSI fondato nel 1947 da Giorgio Almirante e Pino Romualdi.
E fu lo stesso Almirante a disegnare la ‘fiamma’ ispirandosi al distintivo degli Arditi della Prima guerra mondiale, un simbolo che ha attraversato tutto il Novecento italiano e che è presente sulle schede elettorali da oltre settant’anni. Nessun leader della destra italiana si è mai sognato di cancellarlo e spero che ciò non accada mai! La ‘fiamma’ compare anche in Francia quando nel 1972 Almirante autorizzò Jean Marie Le Pen a utilizzarla per il simbolo del suo Front National sostituendo semplicemente il verde di casa nostra con il blu del tricolore francese. Anche in Spagna il partito post-franchista, il Movimento Social Repubblicano, tentò di scalare le vette della politica con questo simbolo.
Il recente dibattito sul ritorno del fascismo alimentato in queste ultime settimane dai ‘pompieri’ della sinistra, ovvero quelli che vorrebbero spegnere la ‘fiamma tricolore’, soprattutto (e non è un caso!) a ridosso delle consultazioni elettorali, mi fa pensare che il fascismo sia ancora vivo e vegeto. Grazie a chi? … Ai cosiddetti “antifascisti”, abili riesumatori “di comodo” del Ventennio in cui Benito Mussolini, nel bene e nel male, ha governato la Nazione.
Sembra un paradosso, ma è così. Se per un verso vi sono alcuni esponenti della Destra italiana che tentano di prendere le distanze dalle proprie radici soccombendo a questa sinistra, dall’altro c’è chi continua a parlare di fascismo in maniera strumentale. Dice bene Marcello Veneziani quando afferma che ‘Il fascismo è l’ossessione di chi non sa vivere senza nemici e rancore’.
C’è poi da chiedersi perché ancora tanta gente ha un giudizio positivo del fascismo.
Non si può ricordare del fascismo la violenza, la guerra, la persecuzione razziale (che riguarda il nazismo e solo di riflesso, in modo infame e caricaturale l’ultima fase del fascismo) dimenticando le opere realizzate, la tutela sociale, l’integrazione nazionale, i passi da gigante compiuti dall’Italia nel segno della modernizzazione, la forte passione ideale e civile, il consenso …
Durante il fascismo gli Italiani ebbero in assoluto il maggior attaccamento allo Stato e maggior fiducia nelle istituzioni, e potrei continuare. Il fascismo fu una rivoluzione conservatrice che modernizzò la Patria nel nome di valori e primati tradizionali.
Chi mi conosce, sa che non mi sono mai accontentato della verità ufficiale, quella scritta dei vincitori e ho sempre voluto approfondire le mie conoscenze.
Mi piace allora rammentare che in origine il movimento fascista, inizialmente noto come “sansepolcristi”, nacque come “antipartito” (era composto da ex socialisti, repubblicani, sindacalisti rivoluzionari, futuristi) al termine della “Grande Guerra” e che si fece portavoce del disagio diffuso soprattutto tra i ceti medi, i militari e gli ex combattenti rivendicando inoltre la cosiddetta “vittoria mutilata” in cui l’Italia non aveva ottenuto il giusto riconoscimento ai suoi sacrifici bellici e umani.
Nel “Programma di San Sepolcro” possiamo notare che vi furono una serie di provvedimenti volti a cercare di risolvere la difficile situazione sociale instauratasi in Italia all’indomani della fine del conflitto bellico: tra le altre cose si chiedeva una norma che sancisse la giornata legale di otto ore di lavoro, una modifica alla legge sull’assicurazione e sulla vecchiaia (la pensione potremmo dire) con abbassamento del limite di età da 65 a 55 anni. Quindi un programma che prevedeva riforme importanti fra cui un salario minimo, il suffragio universale, una imposta fortemente progressiva e una partecipazione proletaria nel processo produttivo … un programma sostanzialmente di “sinistra” e repubblicano … Correva l’anno 1919!
Oggi il fascismo è un fatto storico e il primo ad averlo in qualche modo storicizzato fu proprio Giorgio Almirante, il leader della Destra nazionale con il suo “non rinnegare, non restaurare”. Un uomo serio, onesto e laborioso che è stato per quarant’anni in Parlamento, che ha guidato un partito che aveva milioni di voti; che ha partecipato a pieno titolo alla vita politica e parlamentare della repubblica italiana; che fu un grande se non il migliore oratore della storia repubblicana; che i suoi discorsi sono stati pubblicati dal Parlamento, che è stato ricordato in tutte le sedi istituzionali da presidenti della repubblica, premier, leader di ogni versante politico e presidenti delle Camere. Almirante diede il via alla creazione di una destra di pacificazione nazionale, di condizionamento politico, di alternativa al sistema, corporativa, europea, occidentale. Il suo successo fu nell’aver guidato un partito come l’MSI in anni difficili, salvaguardandone la sua identità tra mille difficoltà e scissioni. Nonostante l’essere stato un politico “contro”, si guadagnò il rispetto degli antagonisti politici perché era un “signore” e lo dimostrò quando rese omaggio alla salma di Enrico Berlinguer (a mio avviso altro grande statista dimenticato proprio dai suoi), nella camera ardente allestita a Roma in via delle Botteghe Oscure mettendosi in coda come “compagno” qualunque. La sua presenza colpì i militanti e i dirigenti comunisti. Disse che era lì per rendere omaggio a un avversario, non a un nemico. Almirante fu un uomo di altri tempi ma il tempo non ha cancellato il suo insegnamento sebbene molti politici di oggi (anche di destra) hanno ancora molto da imparare. La Destra italiana sia sempre grata a Giorgio Almirante perché ‘le radici profonde non gelano mai’!

Fabrizio Marabello
Presidente Circolo Fratelli d’Italia “Giorgio Almirante” di Ceriale (SV)

La storia del premio Giorgio Almirante

PREMIO GIORGIO ALMIRANTE

Il trascorrere del tempo, è sovente un bel briccone. Soprattutto quando con l’ausilio di quella stampella
sbilenca, che è la memoria, si cercano di ricostruire gli avvenimenti del passato. C’è sempre uno scarto di
deformazione tra il quanto è realmente accaduto e quanto viene ricordato. Le atmosfere però e le
emozioni provate, rimangono ben deste in chi le ha vissute. Una pienezza, che scavalca la riesumazione
della ricerca dei dettagli. Vivissima, quindi, è rimasta in me la indelebile impressione, che ebbi nell’essere
accolto da Donna Assunta e la figlia Giuliana nella luminosa e curatissima casa dove aveva vissuto Giorgio
Almirante. Uomo politico che aveva, con la sua formidabile eloquenza dietro la quale si avvertiva
un’intelligenza di grande analisi e proposta, letteralmente inondato d’entusiasmo gli anni della mia prima
giovinezza e di quella di milioni d’italiani. Ricordo ancora il clima elettrico che si respirava per le strade di
Roma all’annuncio del suo comizio di chiusura delle varie campagne elettorali. Lo stato di febbrile
eccitazione e, mobilitazione nelle scuole della città, per organizzare al meglio il corteo del Fronte della
Gioventù che sarebbe sfociato in massa in Piazza del Popolo scandendo slogan. Avevo avuto pure l’onore di
essere stato ricevuto, anni prima, dal Segretario del Movimento Sociale Italiano, a Palazzo del Drago, con gli
altri componenti della Giunta Provinciale del Fronte della Gioventù del momento. In quel primo
cordialissimo incontro con la Famiglia Almirante, con Fabrizio Gatta che aveva promosso la circostanza,
furono gettate le primissime basi di quello che diventerà il Premio Giorgio Almirante. L’istituzione del
Premio annunciato al Bagaglino nella primavera del 2000 consisteva in una somma di denaro cospicua.
All’epoca c’erano ancora le lire e, l’ammontare di esso fu stabilito in cento milioni. Beneficiario del Premio,
sarebbe stato l’’organismo teatrale che avesse allestito il testo teatrale indicato tra gli altri pervenuti che
fosse stato indicato dalla Giuria quale quello vincitore. Detta così sinteticamente, qualcuno a una prima
occhiata superficiale, potrebbe chiedersi “Cosa c’entra Giorgio Almirante con un Premio alla drammaturgia
nazionale contemporanea a lui intestato?”. Mi permisi di prospettare questa ipotesi, avendo maturato una
discreta esperienza nel settore del Teatro di Prosa, a Donna Assunta e a Giuliana, sviluppando in modo
articolato supportato da conseguenziali nessi di fatto, l’eventualità. La storia della famiglia Almirante da
generazioni è sempre stata intimamente connessa alla vita artistica e in particolare quella teatrale. Basti
dire che Mario Almirante, padre di Giorgio, aveva i fratelli che avrebbero tutti fatto gli attori. Giacomo,
Ernesto ottimo caratterista che ricordiamo per alcune partecipazioni ad alcuni film con Totò e Luigi.
Quest’ultimo interpretò in modo magistrale il ruolo del Padre, in una commedia che segna il punto di svolta
della drammaturgia del “900. Spettacolo andato in scena per la prima volta il 10 maggio del 1921 al Teatro
Valle di Roma. “Sei personaggi in cerca d’autore” di Luigi Pirandello. Serata della quale s’avvertiva la portata
rivoluzionaria, e che appunto per questo finì in un parapiglia generale fra detrattori e sostenitori dell’opera.
Tanto che Pirandello dovette allontanarsi da una uscita laterale, per evitare spiacevoli conseguenze. Si
stavano ipotizzando le linee guida del Premio, in un momento nel quale gli autori teatrali, vista la
soppressione dell’I.D.I istituto dedicato alla promozione della loro attività, si trovavano in una condizione di
estrema difficoltà. Di fatto abbandonati da qualsiasi Istituzione culturale pubblica che promuovesse il loro
lavoro. Elemento anche questo, valutato dalla pronta sensibilità di Donna Assunta, che subito ritenne
buona cosa, dare supporto a quell’universo creativo. Con questa scelta si andava a evidenziare un dato
incontrovertibile. Giorgio Almirante non era stato solo un grande uomo politico, ma un uomo di solida e
raffinata cultura umanistica. Tanto è vero, che per un periodo, tra le altre attività quali quelle di giornalista
fu docente di Lettere. La cultura, è il territorio nel quale lo specifico delle singole appartenenze sfuma alla
ricerca di bellezza, libertà, e valori universalmente condivisi. Profili e sensibilità, che indubbiamente erano
propri dell’uomo Giorgio Almirante. Avendo individuato delle coordinate base del progetto si passò alla
fase operativa. Con la sua determinazione e carisma, Donna Assunta individuò i componenti della Giuria del
Premio, che nel corso dell’edizioni videro la partecipazione di personalità quali: Giorgio Albertazzi come
Presidente, Lando Buzzanca, Elisabetta Gardini, Rossella Falk, lo scrittore Franco Scaglia, lo storico del
Teatro Giovanni Antonucci. Rimasi molto onorato dal vedermi assegnato da Donna Assunta il ruolo di
Segretario del Premio. La prima edizione, con “Venditore d’anime” vide vincitore Alberto Bassetti. La serata

di quella premiazione nel 2001 al Teatro Valle ebbe, con Claudia Cardinale una madrina veramente
d’eccezione. Risulta evidente come la scelta Del Teatro Valle non fu casuale. Le edizioni, seguendo percorsi
sempre più articolati, giunsero fino al 2008. Tra gli altri furono premiati, accompagnando l’evoluzione della
vita del Premio: Nino Benvenuti, Pippo Baudo, Al Bano, Roberto Gervaso, il soprano Nausicaa Policicchio,
molti altri ancora esponenti della vita della cultura nazionale. Tutte le edizioni della manifestazione ebbero
come conduttore Fabrizio Gatta. Le serate, grazie alle iniziative esperite in tal senso da Massimo Magliaro
(già capo ufficio stampa del Segretario del M.S.I.), furono trasmesse dalla Rai. Si era costruito un ottimo
“contenitore culturale”, leggero, arioso, ricco di riverberi anche inaspettati. Dalla capacità di attrazione di
pubblico e protagonisti eterogenea. Come si pensava potesse diventare. Grande soddisfazione ebbi quando
più di un conoscente, manifestò plauso e apprezzamento per aver visto la trasmissione della serata del
Premio in TV. Una punta di malinconia affiora per l’esaurimento di quella esperienza. Rimane comunque
un’iniziativa, coronata da successo, che ha segnato un percorso, con modalità da rendere magari più
consoni ai tempi da ripercorrere. Il punto per una Destra contemporanea, è quello di costruire i
“contenitori culturali”. I “contenuti” ci sono già. Tutti. Nel nome di Giorgio Almirante, Donna Assunta,
Giuliana, gli altri promotori e partecipanti, segnarono una linea pionieristica per il mondo della Destra
italiana. Un patrimonio che sarebbe un peccato far scomparire tra le spire dell’oblio.

Massimo Pedroni